04 Giugno 2018

“Il mio è un Caino fasciato dalla nostalgia”: Alessandro Rivali pubblica una porzione del poema a cui lavora da anni, tra Pound e la “via della spoliazione”

Si può dire. Lo dico. L’ho letto da sempre. Da quel momento – lo riscrivo, ancora – nella nebbia milanese fecondata dai cingoli del tram. Apro la smilza antologia. Quattro poeti. Quindici anni fa. Esattamente. E fui stordito da quel poeta dai distici come coltelli, che mesce Tacito a Philip K. Dick, che con nitore ausculta le fughe di Erodoto, la visione dell’Apocalisse, l’urlo barbarico e orientale di Ezra Pound. Da quindici anni quando ci vediamo – sempre raramente – dopo una stagione di gioia passata a far pasti al Museo di Scienze Naturali di Milano, a un ciglio dai teschi dei dinosauri e dalle sciabolate della tigre arcaica – attraversiamo la città manzoniana a piedi e anche le vie stanno in silenzio e i palazzi diventano meravigliosi padiglioni auricolari ad ascoltare due che pensano di risolvere l’uomo in un sudoku di versi, di capire perfino le altezze impilando citazioni, poemi ipotetici, capolavori in divenire, ossidando nient’altro che l’amicizia. Alessandro Rivali viene da Genova, ama la storia militare, con lui parli della figura del ‘Servo’ in Isaia, del delirio veneziano nei gangli di Bisanzio, era il 1204, e di quel 1453 in cui, catastroficamente, cambiò tutto, con la falce ottomana che indirizzò l’Occidente verso il tramonto. Riconosciuto tra i massimi poeti italiani di oggi, l’opera di Rivali si salda in due tappe, La riviera del sangue (2005; 2007) e La caduta di Bisanzio (2010). Da anni Rivali lavora a un’opera, La terra di Caino, di cui ora, viva, leggiamo una manciata di testi, nove, nella placca edita da Mme. Webb Editore come Il sogno di Caino (info: mmewebb@libero.it). Reminescenze di vite australi, precedute, di un Caino rotto nel contemporaneo, tracciato dal senso del benessere che fu e dalla colpa che è – e che culmina nel possesso del perdono.

Cominciamo da Caino. Il tuo lavoro poematico si intitola “La terra di Caino”. Chi è il tuo Caino? Perché Caino?

È un Caino un po’ anomalo rispetto all’immaginario consueto. Certo, è l’assassino del fratello, ma è anche l’uomo tormentato, continuamente scavato all’interno da quel delitto. Vorrebbe una seconda possibilità, e sentire vicina, nonostante il sangue versato, la carezza del Padre. Inoltre, è un Caino fasciato dalla nostalgia: del bene possibile, della felicità originaria, di un Eden perduto e irrimediabile. Nelle sequenze di questo poema per frammenti, a cui ormai lavoro da tanti anni, immagino un Caino errante per deserti e solitudini, magari a meditare di fronte al fuoco, la sera, sui racconti, ormai lontani, di Adamo. Sulla gioia incontenibile per la prima donna che camminava a pieni nudi sulla rugiada del Giardino, che poteva confortare in pienezza il cuore di Adamo…  Il mio Caino è anche un viator, assillato dal tarlo della memoria. Visita terre segnate dal male (le città annichilite dalle radiazioni, c’è una sezione su Hiroshima), come i grandi cimiteri d’Europa (uno straordinario campionario di narrazioni, su tutti il “mio” Staglieno, a Genova). Caino ritorna ossessivamente sui frammenti di paradiso intravisti. Insegue sempre la bellezza e conosce la sua precarietà. Caino è emblema del nostro tempo, così fragile, così violento.

Come sempre, mi pare, raffini il procedimento di un poema immerso nella Storia e nel mito. Da cui estrai versi cristallizzati. Chi sono i tuoi ‘padri’, i tuoi riferimenti?

La storia mi ha affascinato fin da bambino. E, in fondo, la mia formazione è più storica che letteraria. Se tagliassimo in due il mondo poetico, tra danteschi e petrarcheschi, sicuramente mi metterei alla sequela dei primi. Mi hanno colpito sempre i poeti che hanno fatto i conti con la Storia. Ci sono stati però alcune opere decisive e che mi hanno portato a pensare a un “libro” di poesia, a un progetto unitario, a una sorta di narrazione che procede per stazioni o metope di un tempio greco. Penso al Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini: per me, il libro più bello di Mario Luzi. Meraviglioso viaggio alla ricerca delle cose ultime. Un’interrogazione sul senso dell’arte e della bellezza. E poi agli ultimi libri di Caproni, una partita a scacchi con Dio, sotto la grande metafora della caccia. Come riferimenti affettivi, da ligure, c’è poi Camillo Sbarbaro, ingiustamente sempre confinato tra i minori, come purtroppo succede anche con Dino Campana (anche se, per fortuna, si sta riprendendo tutto lo spazio che si merita). Preferisco poi Ungaretti a Montale, e più quello del Dolore a quello dell’Allegria. Per la cristallizzazione del verso: chissà, forse è così, e il processo è dovuto alla frequentazione con Giampiero Neri. Amo la precisione fiamminga delle sue atmosfere. Sono andato per anni alla sua “bottega artigiana”. Ricordo le domeniche mattina in piazzale Libia a Milano (nella sala affollata di quadri, il tavolo sempre ingombro di fogli, le biro dalla punta finissima). Quella è stata la mia università. Lì ho imparato ad amare Villon, Campana e, soprattutto, Beppe Fenoglio, che è il Melville del nostro Novecento.

…ancora sui ‘padri’. Uno di questi è senza dubbio Ezra Pound. Su cui stai lavorando, insieme alla figlia Mary. Quali aspetti della sua biografia ti sembrano più affascinanti per il tuo lavoro, per la tua sensibilità?

Di Pound mi ha sempre colpito l’immane fucina dei Cantos. In qualche modo, il tentativo di voler continuare la Commedia dantesca, ma inserendo la storia della Cina e degli Stati Uniti, e molte altre tradizioni. E anche l’ampiezza della sua ricerca, che spazia dai cammei perfetti delle poesie di Catai fino alla critica ustionante all’usura, vera dominante dei Cantos. Dal punto di vista biografico, direi che mi hanno sempre colpito due momenti. Il poeta chiuso nella gabbia del campo di detenzione statunitense nel 1945 che continua a scrivere (e forse dà la sua prova più alta con i Pisan Cantos). E l’“ultimo Pound (tra l’altro, andrebbe ristampato proprio L’ultimo Pound di Massimo Bacigalupo). Il poeta in frantumi che rientra in Italia dopo i lunghi anni di detenzione al manicomio del St. Elizabeths di Washington. Quel poeta che non riconosce più il mondo di ieri e che vuole terminare di scrivere il Paradiso del suo poema, ovviamente la sezione più difficile. Nella mia personalissima classifica dei versi poundiani, ci sono i lampi degli ultimissimi Drafts & Fragments. “Non ti muovere/ Lascia che parli il vento/ Questo è il paradiso”. Il poeta è ormai sull’orlo della vita, è stanco, è nel vortice del suo tempus tacendi, eppure continua ad avere nostalgia della bellezza. Quella bellezza così difficile che ha cercato tutta la vita, dagli arabeschi su marmo di Venezia, sino ai manoscritti dei giovani autori che non ha mai smesso di incoraggiare e supportare.

C’è come, in questo ultimo lavoro, la trepidazione della pietà, una misericordia continua. È così? Che valore ha questa misericordia tangibile?

È un tema che mi appassiona e su cui è difficile confrontarsi. Non si impara mai abbastanza sul perdono. C’è sempre da ricominciare. Siamo contaminati da un tempo troppo rapido interessato solo alla logica della prestazione. Per fare un po’ di ordine interiore, mi aiuta sempre ritornare su un passo del vangelo di Luca: quello del buon ladrone. Quella risposta inaspettata, quel gran colpo di scena, “tu stasera sarai con me in paradiso”, è di una tenerezza spiazzante. Un grande conforto. E forse insegna a perdonare.

Spiegami che cosa intendi per ‘via della spoliazione’? Tu, come poeta, anche formalmente, mi pare, intrattiene uno sposalizio con ciò che è spoglio.

Quando si scrive bisogna andare al cuore delle questioni, mettendo da parte le maschere e i giochi. Avvicino il tema della spoliazione a quello del silenzio. Un atteggiamento sempre più difficile da trovare. Sto mettendo da parte uno scaffale della mia libreria sugli autori che amano il silenzio, da Erling Kagge all’inquieto Henry Nouwen, che volle vivere per alcuni mesi insieme ai trappisti per imparare a rileggere il mondo (anche interiore) sotto una luce più intensa. Il tema della spoliazione mi colpì la prima volta visitando la Certosa di Pavia. Mi affascinò (e allo stesso tempo mi spaventò) apprendere che i certosini dovevano rinunciare anche al proprio nome sulla tomba… Un distacco totale…

Ultima. Lavori nell’editoria. In che stato vive la letteratura e la poesia italiana, oggi? Non accetto risposte tiepide.

L’editoria in Italia continua ad annaspare e, sinceramente, non vedo segnali incoraggianti su vasta scala. Naturalmente, il paesaggio è multiforme. Mi fa piacere, per esempio, che la Lettura, l’inserto domenicale del Corriere della sera, continui a essere molto seguita. Sto osservando con interesse la casa editrice NN che ha fatto un esordio sorprendente felice pubblicando Kent Haruf e che propone scelte molto oculate. Resto sempre sorpreso dalla qualità degli autori nordici di Iperborea. Per la poesia, ha meno visibilità, ha sempre meno visibilità, ma forse si trova con più frequenza qualità duratura rispetto ai narratori. Resto sempre ammirato dalla voglia di combattere dei piccoli editori. Qualche esempio di ottimi libri incontrati negli ultimissimi tempi. I Chicago poems di Sandburg usciti per Sedizioni, le Prove dal diluvio di Stefano Simoncelli (Italic Pequod), la Notte di Isabella Serra (Raffaelli), l’auto antologia di Maria Luisa Vezzali per Puntoacapo, la nuova edizione di Fuoco unanime di Daniele Gigli (Joker), la Folla delle vene di Paolo Fabrizio Iacuzzi (Corsiero). Mi piacerebbe che un giorno venissero ripubblicati tutti i volumetti della collana Parsifal, curata da Marco Merlin per le edizioni Atelier. Per me furono tutti indispensabili, ognuno a titolo diverso.

*

Caino sognava una vita nuova:
il senso splendeva sul confine.

Attraversò ustioni e deserti,
poi scelse il respiro dei boschi.

La via della spoliazione,
la voce di Dio sulle acque.

L’eredità era il silenzio,
anticipare i desideri degli altri.

Amare le grammatiche del vento.

*

Un paradiso in frammenti.

Caino ricordava
Adamo sulla pietra di Abele.

Disegnava atlanti e ritornava
alla quiete dei mandorli in fiore.

Ricomponeva il mosaico
se padri dialogavano con i figli.

 

 

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