28 Aprile 2018

Giro del mondo a piedi in 10 anni. Storia di Paul Salopek e del progetto giornalistico più estremo nell’era digitale

La domanda che mi interessa di più è questa. Che durata ha la fede in un compito? Che limite può importi un progetto giornalistico? Fino a che punto lo puoi accettare? Paul Salopek si è dato una risposta. Dieci anni. Abitare giorno e notte un progetto, un’idea, un’ossessione. Per dieci anni. “Dopo vent’anni passati in giro per il mondo su aeroplani e automobili e ogni sorta di mezzo di trasporto, ho capito che muovendomi così rapidamente attraverso le storie avrei perso le storie più importanti, quelle che voglio raccontare”. Paul Salopek ha 56 anni, indossa un nome che rammemora la tenacia (a me fa venire in mente il micidiale corridore ceco Zatopek), è californiano, è stato a lungo inviato per il Chicago Tribune, scrivendo dall’Africa all’Afghanistan, ha vinto due premi Pulitzer, nel 1998 e nel 2001. Insomma, con questi allori e con questa età Salopek potrebbe godersi la vita ‘da scrivania’, fare qualche lezione di giornalismo in giro per il globo, sonnecchiare tra un fottio di cravatte e di happy hour. Invece. A Paul sei anni fa viene una idea formidabile e giornalisticamente controcorrente. L’idea ha un logo riuscito, Out of Eden, e una formula convincente. Salopek intende compiere il percorso migratorio dell’umanità, dal cuore dell’Africa, passando per l’Asia, il Nordamerica, fino alla Terra del Fuoco, a fare bye bye ai ghiacciai antartici. Un viaggio dal sole equatoriale al gelo australe, dalla vita che sorge alla fine, bianca. “L’odissea di 21mila miglia di Paul Salopek è un esperimento decennale di giornalismo lento (slow journalism)”: così racconta l’impresa la pagina specifica di National Geographic, la testata che ha creduto nel progetto. “Muovendosi a piedi, Paul ripercorre i sentieri dei primi umani che migrarono dall’Africa durante l’età della pietra e colonizzarono la Terra. Lungo la strada, racconterà le storie del nostro tempo – dai cambiamenti climatici alle innovazioni tecnologiche, dalla migrazione di massa alla sopravvivenza delle culture – dando voce alle persone che le vivono ogni giorno”. Slow Down, Find Humanity è il claim che dà lo start all’impresa. Paul parte il 22 gennaio del 2013 da Herto Bouri, Etiopia. Ora ha appena superato Lahore, Pakistan. Secondo le stime, il suo viaggio potrebbe finire nel 2023. Tutte le settimane Paul pubblica il suo reportage; spesso dallo spazio twitter ‘cinguetta’ qualche fotografia – l’ultima è di una moschea di Lahore, con le sue puntute poppe al vento di Allah. Paul vive davvero dentro la Storia; siamo noi, semmai, nella clausura internettiana, a essere ‘fuori dal mondo’ – e senza un dio che ci sorvegli e ci ammetta. Nel frattempo, Paul ha raccontato la Terra Santa e la vita trai rifugiati, ha percorso le rotte della Via della Seta – da cui abbiamo tratto il suo scritto – e si sta inoltrando nella terra del grande dio Gange, l’India. “Il Premio Pulitzer che preferisce un giornalismo lento nell’era digitale”, ha titolato, intervistandolo, The Times of India. L’esperimento è affascinante per diverse ragioni. Intanto. Il privilegio – pagato con la moneta del rischio – di incarnarsi in un compito che ti cambia i connotati. Di solito il giornalista frequenta una ‘notizia’, la narra, ma rimane sul trono del proprio pregiudizio. Qui, no. Il viaggio ti cambia. Viaggiare a piedi ti deflagra. Fisicamente. Sentimentalmente. Il nomadismo al posto della famiglia. Il mulo al posto del Suv. L’incontaminata solitudine rispetto alla fama e alla reputazione sociale. Poi. Ci siamo noi. I lettori. Che vogliono ascoltare storie strane dai luoghi più imprevisti del mondo. Come al tempo di Marco Polo. Come al tempo dei racconti intorno al fuoco, vincendo l’asprezza esistenziale. Finché ci sono uomini affamati di storie – e uomini che vanno in capo al mondo pur di trovare storie degne di essere narrate – l’umanità è viva, l’uomo è salvo.

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Salopek
I reportage di Paul Salopek sono pubblicati da ‘National Geographic’. Il giornalista ha cominciato nel 2013 un giro del mondo a piedi

Aqtau, la città dove le strade non hanno nome e i sufi interrano moschee

Il traghetto da Baku, Azerbaijan, bacia la costa calcarea del Kazakistan.

Ventotto turchi e kazachi rimbalzano sulla passerella arrugginita fino al molo. Uomini duri cavalcano molli camion – viaggiatori sulla moderna Via della Seta. I loro cammelli sono vecchie Renault e Volvo e Mercedes che trasportano tonnellate di polli congelati, porcellana, attrezzi per l’estrazione del petrolio, pomodori verdi. C’è stato una specie di baccanale la sera prima, sulla nave. I guidatori hanno gli occhi rossi. Stringono le carte che mostrano a una gigantesca guardia sul confine kazaco. Lei li conosce. Li fissa.

Le prime persone che mi salutano, in Asia centrale: a) un poliziotto in borghese, amichevole, che insiste nel dirmi che non è un poliziotto; b) un giovane ingegnere informatico che mi ha dato una Sim locale con alcuni numeri necessari.

C’è anche il direttore di un ristorante locale – l’amico di un amico di un amico – che si è presentato con una torta con su scritto, in rosso scintillante, ‘Buon Natale’. Il suo sorriso indolente. Il petrolio – la principale fonte di ricchezza in Kazakistan – è sotto i 40 dollari al barile. Il nuovo Holiday Inn, in città, è adornato da un cartello enorme, For Rent. Gli affari vanno male. Qui come in Nord Dakota e in Arabia Saudita.

Il Caspio lambisce le sponde dell’Asia centrale, un nuovo confine sul mondo terrestre.

Una volta sbarcati nel porto di Aqtau, Kazakistan, dal rude Caucaso, il mondo cambia, improvvisamente.

La terra è tirata, piatta. Distesa oceanica di erba piegata dal vento. Camminerò verso est su questa lastra polverosa di clorofilla per 1.700 miglia verso le montagne del Tien Shan, in Kirghizistan. La maggior parte degli esseri umani, qui, ha gli occhi meravigliosamente a mandorla. La pancia dell’Asia è ricoperta da un cielo duro, bianco e blu, un colore simile alla porcellana cinese smaltata.

Aqtau non esisteva fino al 1958. Durante il periodo dell’Unione Sovietica, gli ingegneri costruirono questo porto dal nulla, era strategico avere una ‘città chiusa’ per l’estrazione dell’uranio: Guryev-20. Questa nascita avvolta nell’enigma riecheggia nei nomi delle strade. Non ce ne sono. Tutti i quartieri, le strade, i palazzi, gli appartamenti di Aqtau sono censiti da cifre. Il mio indirizzo temporaneo è: 7-26-63. Oggi il remoto porto marittimo sul Caspio è la capitale della tentacolare regione kazaca del Mangghystau. Questa è l’Alaska del Kazakistan, se l’Alaska avesse moschee sotterranee costruite dai mistici Sufi nel Medioevo, centinaia di necropoli che risalgono all’era del ferro, caravanserragli del XIV secolo, cammelli battriani nati ieri e vertiginose scarpate di calcare sotto i mari primordiali, ai margini del favoloso altopiano di Ustyurt.

Paul Slatopek

Gruppo MAGOG