14 Settembre 2018

“Il femminicidio è una delle migliori armi di distrazione di massa”: Davide Scapaticci, in dialogo con Matteo Fais, spiega le ragioni di uno dei più diffusi inganni mediatici

La proposta era indecentemente intrigante: intervistare nuovamente il nemico numero uno delle femministe di ultima generazione, Davide Scapaticci. Parliamo dell’amministratore della pagina Facebook più bersagliata e osteggiata, Cara, sei femminista – neppure lui si ricorda quante volte i democratici abbiano cercato di mettergli il bavaglio. Ma non è tipo da prendersela. Anzi, sghignazza compiaciuto. In fondo, per dirla con Mao: “È bene se siamo attaccati dal nemico, poiché ciò dimostra che abbiamo tracciato una netta linea di demarcazione tra lui e noi. È ancora meglio se il nemico ci attacca con violenza e ci dipinge a fosche tinte e senza un’ombra di virtù, poiché ciò dimostra […] che abbiamo anche riportato notevoli successi nel nostro lavoro”. Avendo già trattato insieme del femminismo e di ciò che rappresenta questa volta abbiamo deciso di aggredire uno dei cardini del pensiero in questione: il femminicidio. Che cos’è? Esiste realmente? È un vuoto nome? Si tratta di una trovata propagandistica? Venite a scoprirlo insieme a noi, con il più terribile eretico e abbattitore di muri ideologici.

Il femminicidio: perché se ne parla tanto? Cos’è che spinge la gente a discuterne e i giornali a trattarne? Cosa c’è di vero e di non vero dietro quel che si racconta?

Comincerei a rispondere dalla domanda finale, cioè cosa ci sia di vero e di non vero. La questione è molto semplice. Di vero c’è il fatto che un certo numero di donne viene ucciso da mani maschili – ci sono uomini che commettono crimini e alcuni di questi vedono come vittime delle donne. La teoria del femminicidio in quanto tale, però, non sostiene unicamente che vi siano delle donne assassinate da uomini. Afferma, in più, che un gran numero di queste vengono massacrate per il solo fatto di essere donne. Ecco la discriminante sottesa al concetto e che le femministe sottolineano. Vi sarebbe, dunque, un senso di proprietà avvertito dall’uomo a causa di una mentalità che pone l’altro sesso in una posizione di subordinazione. Non nego ci siano dei casi in cui, effettivamente, uomini con tendenze violente, o patologicamente possessivi, possano arrivare a uccidere una donna, perché questa si è ribellata, o ha disatteso le loro pretese malate. Allo stesso tempo, però, contesto la catalogazione sotto tale visione di questo genere di fatti. Una certa vulgata vorrebbe farne una questione di numeri. Io preferisco sottoporre al vaglio critico il concetto stesso di femminicidio. Questo, a mio avviso, si caratterizza per un paradosso logico che lo rende di per sé insensato. Tale visione ritiene che sia possibile stabilire a priori l’elemento oggettivo e anche quello soggettivo del reato commesso. Per intenderci, nel caso di un omicidio del tipo analizzato, che un uomo abbia ucciso una donna è l’elemento oggettivo. L’elemento soggettivo consiste nello stabilire le ragioni del gesto compiuto. Ma per trovarle, ovvero, in termini giuridici, per rintracciare il movente, non si può agire aprioristicamente. Questo si stabilisce nelle aule dei tribunali e non a livello sociologico. Peraltro, non sempre è possibile individuarlo in modo netto: anche dopo il terzo grado di giudizio, quando si dice che il tal uomo ha ucciso la tal donna per motivi di possessività, di gelosia o di vendetta, si parla comunque di una verità giudiziaria – non oggettiva, assoluta. Va pertanto relativizzata, ricondotta all’ambito in cui è stata ricostituita. Il concetto di femminicidio risulta quindi logicamente scorretto, perché pretende di stabilire con certezza e arbitraria autorità il movente per cui a una donna sia stata tolta la vita. Nella quasi totalità dei casi, peraltro, quando se ne parla, lo si sbandiera mediaticamente prima che sia stato fatto un processo, cioè ancor prima che una specifica forma di verità, quella processuale, sia stata accertata. Siamo nell’ambito della supposizione che pretende di essere eretta a verità. In sintesi, non contesto che esistano uomini che uccidono le donne, ma che si voglia far passare il femminicidio come un fenomeno specifico emergenziale, quando in realtà non è così, per il semplice fatto che non è possibile determinarlo in termini logici. Per quel che riguarda l’ultimo aspetto, ovvero perché se ne parli tanto, io lo spiegherei dicendo che, all’interno di una società la cui comunicazione è un flusso costante e ininterrotto, va da sé che si abbia sempre bisogno di trovare un trend dominante, che gli apparati di informazione tendono a cavalcare per generare stress. In un contesto sociale in cui si afferma come primario l’interesse verso la donna e i suoi diritti, è chiaro che anche i media sfruttino questo diffuso sentimento nazionalpopolare per mettersi sulla lunghezza d’onda di coloro che usufruiscono poi dei mezzi di informazione. Non credo pertanto che si tratti di una volontà reale di far luce, o di indagare sociologicamente, ma piuttosto di lusingare una vaga retorica vittimistica di chi sostiene e persegue il convincimento della donna sempre oppressa e dell’uomo sempre carnefice.

Io avanzo sempre un dubbio rispetto alla necessità del termine femminicidio, partendo da un paragone con l’Olocausto. Nel caso degli ebrei è doveroso utilizzare un nome specifico per indicare quanto accaduto nella Germania nazista poiché, dietro il loro sterminio, vi era un’ideologia, una visione del mondo. Nella fattispecie dell’uccisione di una donna ci può essere alla base la possessività di un singolo o un qualsiasi altro motivo, ma non un pensiero sotteso e meno che mai un’ideologia. In ultimo: uno torna a casa, trova la moglie a letto con un altro e l’ammazza. Ma non è certo animato dall’intento di far fuori tutte le donne.

Facendo un viaggio a ritroso e un’analisi di altri momenti e contesti storico-culturali e sociali, troviamo esempi di cosa possa essere realmente una persecuzione mirata e ideologicamente fondata. Di certo non possiamo considerare l’uccisione di una donna da parte di un uomo come un qualcosa di basato su un’ideologia consolidata a livello concettuale e politico, come fu invece nel periodo del nazionalsocialismo, quando si manifestò la volontà e la convinzione generalizzata di dover estirpare quella che veniva considerata la radice di tutti i mali sociali, cioè il giudaismo. Le donne non sono mai state vittime di una persecuzione ideologica di tal fatta, nel corso dei tempi. Tuttavia, possiamo dire, facendo una ricostruzione sommaria, che vi sono stati dei periodi in cui effettivamente l’uomo godeva del diritto di vita e di morte nei confronti della propria moglie, come dei figli – questo è innegabile. Qui, però, non stiamo parlando di rivisitazioni storiche, ma di un fenomeno attuale. Personalmente, ritengo che parlare di persecuzione nei confronti delle donne, nell’Italia del 2018, sia un vezzo ideologico che non trova alcun riscontro nella realtà dei fatti. Con ciò non voglio certo negare che i casi di omicidio e di violenza non vadano severamente puniti. Ma sostenere che simili fenomeni vadano ascritti a una sorta di sottocultura maschilista e patriarcale, come la definiscono le femministe, mi pare attenga più che altro al modo in cui l’ideologia vorrebbe piegare la realtà delle cose. Certo, mi si potrebbe obiettare che anche la mia sia un’ideologia. Risponderei dicendo che esiste un qualcosa noto come buon senso comune: l’Italia non è un remoto villaggio, sotto l’egida di una cultura islamica, dove le femmine vengono trattate alla stregua di animali da bastonare. Chi monopolizza il dibattito politico l’ha trasformato in un qualcosa di ozioso. Allora io dico: torniamo alle cose concrete, ad avere uno sguardo onesto sulla realtà.

Ma allora, tutte le donne che si sentono minacciate e credono a questa “distorsione ideologica” del femminicidio sono completamente sceme, o davvero la propaganda è tanto persuasiva? Perché prestano fede a una simile narrazione, perché non hanno questo buon senso di cui tu parli e che dovrebbe portarle a rendersi conto che non c’è alcun astio generalizzato, nessuna volontà di sopprimerle?

Mi verrebbe da dirti, citando Goebbels, visto che prima facevi riferimento al nazismo, che una bugia ripetuta mille volte diventa una verità. Ma non è questo il motivo che spiega l’attuale situazione. Il convincimento che il femminicidio esista, così come viene spiegato e veicolato dalle femministe, non è assolutamente trasversale fra la popolazione femminile europea. Piuttosto, noi assistiamo a quella che è la peggiore commistione fra ideologia femminista, libero mercato e apparato mediatico. Da una parte vi è una élite politica, intellettuale, culturale che promuove un sistema di pensiero per cui crea e porta avanti costantemente battaglie su questioni quali il femminicidio, i diritti delle donne, quelli individuali e della comunità LGBT; dall’altra, però, vi è per fortuna un’utenza popolare. La nuova forma di contrapposizione politica, che non riguarda più la destra e la sinistra, ma appunto le élite e il popolo, ha bisogno di generare e proporre una propria sovrastruttura culturale, di cui il pericolo femminicidio è un elemento. Ma il popolo, se è vero che viene costantemente bombardato da informazioni e slogan che vorrebbero fare attecchire questa visione delle cose, non è così stupido come si può credere. Il potere della propaganda è martellante certo, ma è assodata a mio avviso la capacità della gente di mantenere viva una propria cultura autonoma, una comune decenza, quell’insieme di valori che rimane a livello tradizionale e si tramanda al suo interno. Intellettuali progressisti e femministe ritengono che il popolo vada educato alla tutela delle minoranze, a schierarsi contro la violenza nei confronti delle donne. Tenta, insomma, di promuovere all’interno delle masse tutto un sistema di valori privi di qualsiasi buon senso e di un aggancio alla realtà dei fatti. Ritornando al discorso di prima, non ritengo assolutamente che la maggior parte si senta minacciata, o viva il rapporto con il maschile come qualcosa di pericoloso, né che creda alla vulgata sul femminicidio. La facciata mediatica vorrebbe spacciare l’idea di un’adesione diffusa, ma in realtà si tratta di conventicole di potere molto più deboli numericamente rispetto alla maggioranza.

Io non noto tutti questi maschi aggressivi, di cui parlano le femministe. Anzi, mi pare che la maggior parte, di fronte anche a dei palesi privilegi delle donne, per esempio quelli introdotti dalla riforma del diritto di famiglia, soccomba miseramente senza opporre alcuna resistenza. A tal proposito ti volevo chiedere: esiste, secondo te, una violenza del femminile nei confronti del maschile? Insomma, è possibile che un uomo venga violentato? E, ancora, quali sono, se esistono, le forme di violenza che una donna può esercitare nei confronti di un maschio?

Questo è assolutamente un punto decisivo. Bisogna porre in evidenza come, purtroppo, la violenza all’interno della società e di conseguenza nei rapporti tra esseri umani sia costitutiva, intrinseca alla nostra natura. Noi possiamo punirla. Possiamo trovare leggi che la sanzionino e promuovere una cultura che metta al bando e identifichi come negativa ogni azione efferata e di sopraffazione. Ma ci dobbiamo arrendere all’evidenza: ci toccherà costantemente averci a che fare. La violenza non ha genere. Può essere usata sia da un uomo che da una donna. Una simile ovvietà viene in qualche modo elusa e distorta dal tipo di divagazioni e di costruzioni retoriche tipiche di questo femminismo. Il fatto poi che una femmina, per sua struttura fisica, non possa violentare in senso stretto un uomo, a mezzo di una penetrazione invasiva e abusante, non significa che sia aliena alla possibilità di commettere una qualche forma di sopraffazione nei confronti dell’uomo, o di un infante anche – perché sono tanti i casi in cui, per esempio delle maestre d’asilo, commettono abusi o violenze nei confronti di bambini piccoli a loro affidati, ma stranamente su questi non costruiamo mai un’emergenza. Eppure, se dovessimo seguire la stessa falsariga ideologica, dovremmo dire che tale emergenza esiste e costruire un pensiero che insinui il sospetto verso tutte le maestre d’asilo. Ma un evento o un certo numero di eventi non fanno per forza una tendenza. E, anche qualora la creassero, non necessariamente dietro ci sarebbe chissà quale cultura che orchestra tutto. Semplicemente, brutture e aberrazioni fanno parte da sempre del nostro vivere quotidiano. Per tornare dunque al punto, la violenza femminile esiste e può essere attuata in tante modalità. Può essere fisica, perché non è solo la forza muscolare che determina la possibilità di violenza – si può anche, per esempio, usare un’arma – o psicologica. Mi sembrano cose di una tale banalità che, anche stare qui a ripeterle, può giusto restituirci il grado di distorsione e di lontananza dalle dinamiche reali che il sistema di pensiero analizzato ha raggiunto.

Le femministe obietterebbero al tuo discorso che, se anche può esistere una violenza femminile, questa però è nettamente inferiore, numericamente parlando, rispetto a quella maschile. Le cose stanno realmente in questi termini?

Chiariamo che io non mi contrappongo alle femministe aprioristicamente. Se mi trovassi d’accordo, come avviene per questioni specifiche quali la mutilazione genitale, le forme di sopraffazione in determinate società arcaiche o a noi geograficamente lontane, non avrei problemi ad ammetterlo. Ma, nell’ambito specifico del femminismo liberal occidentale, riscontro unicamente un calderone di retorica e fantasiose argomentazioni unite a rancorose rivendicazioni vittimistiche. In merito all’obiezione che opporrebbero, ovvero che in termini numerici gli uomini commettano più atti violenti delle donne, ci sarebbe da chiedersi: in base a cosa stabiliamo questo? In base a statistiche? Sicuramente ci saranno. Ma le dinamiche di vita non si riducono alle elucubrazioni intellettuali delle élite, né tantomeno ai meri e freddi calcoli di qualche istituto. Nella vita di un popolo, nelle interazioni tra esseri umani, c’è qualcosa che sfugge alla rilevazione matematica. Sono appunto quelle verità di vita, di cui parlavo prima, che vengono conservate all’interno di qualsiasi tradizione o memoria di una comunità. Dunque, non si può negare che un uomo, per come è strutturato e per quelle che sono le sue inclinazioni, può commettere una violenza più eclatante di una donna ed è più portato a vivere una sessualità predatoria, a sconfinare nell’abuso. Ma le forme di sopraffazione poste in essere dalle donne spesso vengono trascurate perché l’uomo non reclama in toni vittimistici – e ti dirò che ne sono ben contento. Perché, se una donna commette violenza, è perfettamente giusto che venga severamente punita tanto quanto un uomo ma, grazie a Dio, i maschi, o almeno la stragrande maggioranza, non ha questa propensione a costituirsi in conventicole di potere per poi accampare diritti o attenzione mediatica. È giusto così. È quando raggiungi un assurdo livello di distacco dalle dinamiche naturali della vita che cominci ad avanzare rivendicazioni simili.

Anni addietro rimasi colpito dalla storia di una qualche Miss del sud, una molto bella, che si accompagnava a un ragazzo, diciamo, non altrettanto gradevole. La massacrò di botte, facendola finire in ospedale e lei lo perdonò comunque. Perché, a fronte di tutte queste rivendicazioni femministe, poi ci sono donne che stanno con uomini simili, anzi li giustificano, li amano e comprendono questi loro comportamenti decisamente intollerabili?

Questo è un punto interessante, anche a prescindere dal caso da te citato. A mio avviso è necessaria una riflessione riguardante la differenza tra l’uomo e la donna nel loro vissuto erotico. Quest’ultima è fondamentalmente un essere totale su quel piano. Se l’uomo è tutto lì, cioè nel suo pene, la donna, non essendo circoscritta entro una zona, vive l’erotismo in maniera totale. Massimo Fini fece a tal proposito un’acuta osservazione, un esempio che può sembrare sciocco ma che ha un suo risvolto significativo. Quando la donna è particolarmente coinvolta sessualmente, dice al proprio partner “sono tutta bagnata”, non semplicemente “sono bagnata”. Questa posizione assoluta nei confronti dell’amante la pone spesso anche in una condizione, razionalmente inspiegabile, di subalternità. Il che non deve mai giustificare l’approfittarsi, o il farsi forti di questa sua caratteristica per attuare una prevaricazione, perché altrimenti si è solo figli di puttana – come quel ragazzo della storia che hai menzionato. Poi, io non so perché lei abbia perdonato. Da esterno non capisco come abbia potuto, invece di riempirlo di mazzate. Ma non ho la pretesa, che sarebbe estremamente autoritaria, come quella del femminismo più agguerrito, di dirle cosa fare. È una donna adulta che vive la sua sessualità, il suo innamoramento, il suo erotismo, come meglio crede e in maniera totale. Ciò l’ha portata a compiere un gesto incomprensibile a me e ai più, ma non sta a noi sindacare.

Volgendo al termine, io direi di indirizzare anche questa volta un messaggio alle femministe.

Il filosofo Wittgenstein diceva che su ciò di cui non si può parlare si deve tacere. Nel nostro caso potremmo trasformare il suo principio in: con quelle con cui, comunque, non si potrebbe dialogare è sempre meglio tacere.

Matteo Fais

 

Gruppo MAGOG