12 Settembre 2018

Il cellulare mi ricorda ogni volta che sono frustrato, che dovrei lasciare tutto per l’isola deserta. Analisi dei messaggi – sibilanti e sibillini – che ci manda il desktop

Del cellulare so nulla, mi pare una dannazione. Essere sempre ‘reperibile’ è il contrario di una vita sana: bisognerebbe anelare all’irreperibilità, essere sfuggenti – ma non fuggitivi – inafferrabili.

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Il cellulare mi schiavizza con il senso di colpa. Ad esempio. Anche se non ho il computer, posso lavorare su Pangea tramite il cellulare. Questo significa che ogni tot di tempo controllo gli articoli, li posto, li raffino, guardo quanti visitatori si degnano di fare ingresso nella mia alcova giornalistica. La vita è un inferno di doveri e di colpe: anche non devo lavorare, con la scusa di ‘portarmi avanti’ – ma avanti dove? verso la fossa… semmai bisogna percorrere l’esistenza di fianco, fiancheggiando una sommaria onestà – lavoro.

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Ad ogni modo, di cellulare so nulla. Ad esempio, non so come impostare una immagine sul desktop. Non voglio imparare: è insopportabile chi pubblica sul desktop una fotografia dei figli, di sé, del proprio fuggevole amante. Bisogna avere pudore. Ormai fotografiamo tutto, tutti sono fotogenici, ogni singolo istante di questa vita di latta è sputtanato da una immagine. Non abbiamo mai fotografato tanto come in questi anni, in cui c’è nulla da fotografare – bisognerebbe soltanto guardare.

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Per questo, sul desktop del mio cellulare non ci sono fotografie che mi riguardano – ne sono terrorizzato, le fotografie sono l’emblema del tempo, mi divorano come una truppa di pipistrelli. Ogni volta che tocco il tasto per illuminare il cellulare – e vedere se ho ricevuto messaggi o WhatsApp: per abitudine penso che ogni messaggio sia catastrofico, sia l’ambasceria di un dramma – l’immagine del desktop cambia.

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Una volta è una cascata tra due picchi montani, un’altra è un faro su un’isola nordica, sottolineato dall’aurora boreale, un’altra ancora la fotografia mostra una collina sinuosa; in una fotografia c’è il mare, strepitoso, da cui emerge qualche scoglio, nell’altra c’è una capanna caraibica sfrangiata dal sole; se lo accendo, ora, vedo una spiaggia incontaminata, con l’arcobaleno; se lo accendo ora c’è una casa solitaria ai piedi di una montagna innevata. Mi colpiscono due cose. La prima è banale. Sono fotografie ritoccate. Il bosco sul mio desktop è da film, con quel verde uniforme e squillante: non sento il ronzio degli insetti, l’odore delle bestie, il fastidio. Tutto è lindo, pulito, ariano.

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La seconda cosa è più affascinante. Nelle fotografie che si alternano con ritmo assurdo sul mio cellulare – ma quante sono? tantissime – non c’è traccia di umani. Vedo solo paesaggi, pittoreschi, dai Caraibi alle regioni artiche. Non c’è un ritratto, non c’è un volto, non c’è neanche un uomo di spalle.

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Queste fotografie dovrebbero rilassare l’utente – irritano la risposta contraria. Le fotografie sul mio cellulare invocano la solitudine, la fuga dal mondo: raffigurano luoghi alieni, lontani dalla vita comune, dove gli umani sono estinti. Quiete, solitudine, oblio. L’esatto contrario di quello che il cellulare, in sé, propone: contatti, relazioni umane, calca di amici, vita sfrenata, sempre ‘occupati’.

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In sostanza, ad ogni istante, il mio cellulare mi ricorda che sono frustrato. Vorresti l’isola deserta con l’amaca fissa a due palme, vorresti il bosco d’Alaska dove la neve pare il vestito di una sposa… invece, sei assediato da esseri umani, da richieste, responsabilità, rotture di palle. Il messaggio è insistentemente diabolico: non puoi fare a meno del cellulare anche se lo disprezzi.

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Certo, dovrei percorrere le vie della solitudine – che non sono limpide come illudono le fotografie, ma brutali – come i monaci che rifiutano tutto perché sono convinti che una volta, dietro l’angolo, hanno visto la fuga di Dio, la frangia di un divino. Di solito, ci insegnano che la fuga è possibile, ha un tempo, quello della vacanza, e un costo, mediamente alto. La frustrazione alimenta il mercato delle agenzie di viaggi. Se dovessi assecondare il messaggio del mio cellulare, domani – anzi, ora – parto verso il Nord, dopo aver affittato un faro che sboccia sulla foresta oceanica. Ma se parto, devo eliminare il cellulare. Il mio cellulare, forse, è una serpe, sibila utopie, forse è un suicida. (d.b.)

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