08 Aprile 2018

“Il ’68 fu un grande show. Ci ha marchiato per sempre”. Giampiero Mughini sui giorni che hanno cambiato la Storia

Dettaglio oracolare. Numero 20 di Giovane critica. “Primavera 69”. Copertina. Faccione oleografico di Stalin, a mo’ di ‘santino’. Dai capelli perfettamente lucidi – degna parrucca di Elvis – s’eleva un fumetto: “Sarei splendido con le basette!!”. Il dettaglio ci dice l’incanto del ‘contesto’. Ragazzi sagaci, che leggono e che sanno (dalla copertina medesima s’innalza, verticale, sulla costa, la promessa dell’approfondimento: “due diverse concezioni della costruzione dell’organizzazione rivoluzionaria”), devoti al ribaltamento dei valori, che spiantano i ‘potenti’ e i potentati – dai politici ai padri, dai parlamenti all’istituto familiare – con un guizzo, direi, ‘dada’, da lingua fuori. Il Sessantotto. Ora. Gli anniversari vanno usati come una cassa di vodka, strabiliandosi di malinconia. Oppure come barattoli di latta sulla testa del vicino di casa: vince chi li disintegra – barattolo&vicino – con una fucilata. Eppure. Ha ragione Giampiero Mughini, che nel suo personale mémoire e reportage a posteriori e anamnesi storica, Era di maggio (Marsilio 2018, pp.128, euro 16,00; indicativo il sottotitolo: “Cronache di uno psicodramma”) esordisce così, “Già trascorsi cinquant’anni, porco mondo. Cinquant’anni che non la smettiamo di ruminarci sopra. Su quelle tre inaudite settimane di un dolce e furibondo maggio parigino”. Nel cuore di quell’inaudito, a Parigi, 50 anni fa, Giampiero Mughini, 27 anni – allora – da Catania – guai a dirgli “catanese” – direttore e fondatore di Giovane critica, “una delle riviste che hanno covato e modellato il Sessantotto” (parole sue), come si dice, c’era. Così, con lungimiranza ironica (esempio: nel capitolo Quando mi arrivò la lettera della Br, per ‘Br’ s’intende “Bionda Ragazza”), senza la marcetta dell’accademico o il valzer del nostalgico, Mughini ci penetra in quei giorni, ne allestisce per noi, con nomi e tensioni e cagnara (tra situazionisti, maoisti, anarchici, “le sfumature di rosso non erano cinquanta ma duecento”), la scenografia. Proprio questa è la parola. ‘Scenografia’. Il Sessantotto francese, in fondo, fu un memorabile coup de théâtre. Mughini insiste ferinamente sulla dimensione ‘teatrale’ dei maggio francese, sulla sua natura di happening – che andava tanto di moda, allora – di mobilitazione free jazz, di colto fancazzismo (un paio di capitoli, Marxisti? Sì, ma alla maniera di Groucho Marx e Non avevamo nulla da dire, volevamo dirlo a tutti i costi, sono piuttosto indicativi). Una fotografia blocca un ragazzo, riccamente vestito, che impugna un sampietrino. La dida di Mughini è esplicita: “Un ragazzo che potrebbe essere un ballerino da quanto è elegante sta lanciando un pavé”. Dalla messa in scena, poi, s’è passati al fenomeno di massa; dalla boutade al tradimento; dal ribaltamento dei valori alla riabilitazione delle poltrone; dalla lotta d’amore alla lotta armata. Anche dentro queste ferite – e sulla distanza tra cosa è diventato il Sessantotto francese e cosa è stato quello ‘all’italiana’ – Mughini penetra, con tenace libertà.

libro mughiniPartiamo dal 1963. “Giovane critica”. La tua rivista, “una delle riviste che hanno covato e modellato il Sessantotto”, scrivi. Perché quel nome? Che cosa avevi in testa a quell’altezza cronologica, poco più che ventenne?

Quanto a “Giovane critica”, doveva essere la metà o la fine del 1963 e ci riunimmo nel salone della casa di mia madre, la stanza dov’erano alcuni mobili appartenuti a un nostro antenato ottocentesco che era stato ministro dei Borboni. In realtà noi costituivamo il gruppo dirigente del locale Centro Universitario Cinematografico a un tempo in cui il cinema faceva da abbecedario della nostra formazione morale e intellettuale. La rivista che avremmo voluto far debuttare era dunque una rivista centrata sulla cultura cinematografica. Da cui il termine “critica”. Fu Francesco Mannino, che aveva un anno più di me, a proporre la dizione “Giovane critica” di cui io fui contentissimo. L’aggettivo marcava il fatto che la nostra era una generazione giovane e nuova. Nuova non per merito suo ma perché le toccavano in sorte i problemi inediti e fiammanti di un mondo che stava cambiando, eccome se stava cambiando. Stava cambiando a tal punto che nello spazio di pochi numeri il cinema perdette il suo rango di argomento principale della rivista. Lo frammischiammo a tutto quello che stava in cima all’onda dei Sessanta. Eravamo anche noi, come i “Quaderni piacentini”, figli naturali dei “Quaderni rossi” che Raniero Panzieri aveva creato all’alba dei Sessanta.

Arriviamo al Sessantotto. In diversi passaggi del libro metti in rilievo la dimensione ‘teatrale’ del maggio francese. Ne cito alcuni. “Che ci fossero delle bellissime ragazze lì nel bel mezzo dei cortei era un formidabile strumento di comunicazione e attrattiva massmediatica”; “Nelle prime settimane di maggio gli scontri e le violenze di strada ebbero a Parigi l’andamento di una pièce teatrale”; “eravamo tutti degli splendidi attori”; “Uno che fra cento anni guardasse quella foto, penserà che si tratti dell’embrione di una rivoluzione socialista o non penserà piuttosto a una perfetta rappresentazione teatrale?”. Allora, cosa è stato il ’68 francese? Una meravigliosa ‘messa in scena’?

È stato innanzitutto uno show, sì, uno spettacolo teatrale sublime e irriproducibile. Lungo quei viali infiniti di una delle città più belle del mondo, scorrazzavamo i 130mila studenti universitari provenienti da tutta Europa. Nei cortei c’erano neri americani alti così, sudvietnamiti piccoli così, tedeschi come Dany Cohn Bendit, italiani che venivano da Torino o da Bologna o da Catania (il sottoscritto), ragazzi e splendide ragazze del nord Europa.

Parole tue. “Di quel pandemonio che vi sto raccontando non rinnego nulla di nulla, né un gesto né una parola”. Ora, però, ti dici “Un liberale che di risposte compatte ai problemi dell’oggi non ne ha nessuna, uno che preferisce tirarsi indietro e sorridere dell’imbecillità talmente diffusa”. Insomma, abiti la contraddizione coabitando con un egotismo antagonista?

Non rinnego nulla delle parole o dei gesti che ho fatto in quelle tre settimane del “joli mai”. Detto questo non sono più uno studente acerbo alla ricerca di un destino e di un’identità e bensì un cittadino repubblicano dell’Italia del terzo millennio che trema d’angoscia per il futuro del suo Paese. Un futuro le cui topografie possibili nulla hanno a che vedere con quelle degli anni Sessanta.

Chi ha fatto il ’68, alla fine? I giovani, i figli di papà, gli operai, i partiti? Tu scrivi: “Le sfumature di rosso non erano cinquanta ma duecento”. Che cosa significa? Chi è il personaggio emblematico del Sessantotto?

Non c’è un personaggio emblematico del Sessantotto francese. Ce ne sono molti. Ci sono i militanti dei “groupuscules” trockisti e maoisti, c’è un Cohn-Bendit per tre quarti anarchico e per un quarto marxista alla maniera della scuola di Francoforte (Adorno, Marcuse), ci sono quelli irrorati dalla cultura e dagli atteggiamenti situazionisti (i cui libri sono i più venduti del tempo), ci sono i tantissimi comprimari quale il sottoscritto, uno cui le giornate del “joli mai” divennero improvvisamente più luminose. Ci sono i figli dei ministri gollisti e ci sono studenti che s’erano guadagnati una borsa di studio e che mangiavano al prezzo di pochi franchi alla Cité Universitaire. E poi ci sono gli operai che lavoravano alla catena di montaggio della Renault, e quello è tutto un altro discorso.

Tu eri più maoista, più situazionista o semplicemente catanese, facente parte a sé?

Io sprezzavo il maoismo, ero abbastanza situazionista senza saperlo e senza avere mai letto Guy Debord. Non sono mai stato “catanese” un minuto della mia vita, sono sempre stato un italiano innamoratissimo del nostro Paese e della sua lingua.

Veniamo a Sartre. “Un nome oggi completamente rimosso (a torto) e di cui in quel momento noi auscultavamo anche i respiri”. Che ruolo ha avuto Sartre nel ’68, qual è la sua importanza (se l’ha ancora) oggi?

Sartre ha scritto una bellissima autobiografia, un paio di libri di racconti di cui nessuno può e deve fare a meno, alcune pièces teatrali sature dello spirito del tempo europeo fra i Quaranta e i Sessanta, ha scritto magnificamente di Baudelaire e di Flaubert. La cosa sua più debole era quella cui teneva di più, fare il guru di una sinistra che non poteva non avere ragione e che doveva centellinare i suoi discorsi critici sul comunismo reale, ossia quello sovietico. Denunciare l’orrore di quel comunismo reale era invece la cosa più importante di una sinistra che volesse essere degna di quel nome.

Passiamo al ruolo di Bernard-Henri Lévy. Tu scrivi che fu “talmente bravo a fiutare la mutata direzione del vento, talmente veloce nell’indossare nuovi abiti ideali come se fossero stati i suoi da sempre”. Mi viene in mente, a questo punto, quello che Sebastiano Vassalli scrive nel 1969 in un articolo intitolato I nuovi travestiti, da poco riedito, contro i ‘contestatori’ di professione, quelli che compiranno una “infrenabile e irresistibile ascesa su per le scale gerarchiche, verso le seggiole, le cattedre, i troni, i seggi, gli scanni, tutto può giovare… Le università, i circoli culturali ‘di sinistra’, gli edifici costosi della ‘top direction’, le sedi dei partiti politici e dei teatrini alla moda ne sono pieni. I loro atteggiamenti sono puramente dettati dallo spirito di conservazione, questo è logico: sono i vecchi arnesi della paccottiglia di sempre, i re travicelli che non affonderanno mai”. Di quanti ‘travestiti’ è popolato il Sessantotto?

Tutti hanno il diritto di cambiare idea, e magari di cambiarla radicalmente. Nessuno degli “insurgés” del Sessantotto è rimasto tale e quale nei decenni successivi. I maoisti francesi hanno lacerato la cappa di quel pensiero integralista e ultimativo e hanno percorso ciascuno i sentieri che contano nella cultura europea moderna. Tanti. Quelli che cambiano casacca per averne un giovamento di reddito o di carriera sono tutt’altra cosa. E non vale la pena parlarne in questo contesto che io e te ci siamo scelti.

Cosa succede dopo il ’68? Tu scrivi che “negli anni successivi non ne venne fecondata in Francia una qualche Armata rossa clandestina capace di azioni omicide”. In Italia accadono le Brigate Rosse: come mai?

È la grande differenza tra noi e la Francia. Da loro il Sessantotto dura tre settimane intensissime e un paio di anni turbolenti. Da noi il Sessantotto, cominciato con gli scioperi operai a Torino su cui puntano il mirino i “Quaderni rossi” di cui avevo detto, dura e si sfrena per tutti i Settanta, indossa le casacche degli assassini che uccidevano magistrati e poliziotti e giornalisti, e fino alla barbarie del massacro del prigioniero Aldo Moro. Quella mattina lì, quando trovarono il Presidente Moro riverso nel cofano di una Renault rossa parcheggiata a metà strada tra la sede del Pci e quella della Dc, quel giorno è finito il Sessantotto italiano. Beninteso, c’è tutta la parte positiva di quell’eredità, la controcultura, la demolizione delle istituzioni manicomiali, l’attenzione alle etnie più disperse e innanzitutto l’insurrezione la più riuscita, quella delle donne. Ma quando dico donne mi riferisco a Carla Lonzi e a Carla Accardi, non alle odierne ragazzuole del “#metoo”.

Senti. Karl Marx compie 200 anni. Chi è stato, chi è ora? Un genio? Un demonio?

Karl Marx è stato un genio in un secolo che di geni traboccava. Com’è fin troppo ovvio, non è stato un profeta che azzeccava il risultato delle partite. Per quello ci sono i ciarlatani che aprono bocca in televisione. E a questo proposito: io non ho mai pronosticato il risultato di una partita che sia uno. È impossibile. Ogni partita è diversa da tutte le altre.

Esiti del ’68. Scrivi, lapidario: “Non uno di noi non ne è stato marchiato per sempre”. Oggi cosa resiste di quel Sessantotto? 

Il Sessantotto ci ha intaccato in ogni particella del nostro essere e del nostro immaginare. Ci ha messo a disposizione una tastiera che aveva duecento lettere in più su cui pigiare i polpastrelli. E come poteva essere diversamente?

Qual è il libro decisivo del Sessantotto? Quello per capire il vortice del Sessantotto.

Ovviamente non c’è un libro che da solo ti faccia capire “il vortice” del Sessantotto. Te ne occorrono alcune centinaia, a decrittare i fatti, i protagonisti, le loro evoluzioni politico/intellettuali. Guai a fidarti di quelli che dicono che sono stati “anni mirabili” e che non la smettono di enfatizzarli e averne nostalgia; guai a fidarti di quelli che dicono che viene da lì tutto l’ingorgo del mondo nostro di adesso. In fatto di lealtà a quello che eravamo stati ma anche a quello che siamo divenuti, il mio Era di maggio è un libro di cui sono orgoglio.

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