10 Aprile 2018

I grandi scrittori hanno bisogno di madri bastarde. Ovvero: la formidabile gita del 1935 tra Samuel Beckett e mammina…

Era uguale a sua madre. “Stessa magrezza, stesso viso spigoloso, stessa rigidità… e quegli occhi azzurri, ampi e glaciali”. Maria Jones Roe. Ovvero. May Beckett. Donna dura, austera, prediligeva gli abiti scuri, prevalentemente maschili. “La sua unica vanità” erano i cappelli alla moda. Sorrideva di rado. Eppure. Siamo nell’estate del 1935, May è vedova e il figlio, Samuel Beckett, vegeta a Londra senza un penny in tasca. Dipende economicamente da mammà e la testa non gli risponde, non c’è il ronzio di un’idea. Samuel ha 29 anni, ha già scritto il saggio su Dante, Vico e James Joyce, ha già penetrato l’opera di Marcel Proust e abbozzato il primo, sfortunato romanzo, Dream of Fair to Middling Women. libroChi li ha visti, in quelle tre settimane di viaggio spensierato, un “tour lampo” in lungo e in largo per l’Inghilterra – da St. Albans a Canterbury, da Winchester a Bath – ricorda mamma e figlio allampanato stranamente sorridenti. Noleggiarono una piccola macchina. Giocarono a volersi bene. “Sono come mi ha fatto il suo amore selvaggio”, ricorderà, due anni dopo, lasciandola, definitivamente, Samuel. Dopo il “placido intermezzo” della vacanza british, mamma e figlio continuarono cordialmente ad odiarsi. Mamma May preferiva a Samuel il primogenito Frank. Più prono e propenso a obbedire alla severa genitrice. Samuel era il figlio ‘sinistro’, obliquo, incomprensibile. Nel 1934 si inginocchiò piagnucolando ai piedi di lei, May, chiedendo soldi per l’ennesimo viaggio a Londra e a Parigi. Da intellettuale nullatenente. Eppure. Come si sa chi odia con ferocia ama con ardore. Quando Samuel si trasferisce a Parigi e nel 1938 viene pugnalato per strada, mamma vola in Francia per andare da lui, in ospedale. “In quei giorni, Samuel dipendeva solo da lei, le era grato, aveva bisogno delle sue cure”, ci dice Dale Salwak, prof di letteratura inglese al Southern California’s Citrus College, autore del saggio Writers and Their Mothers (Palgrave Macmillan 2018, pp.XX+258, $34.99), che scava nell’atavico, nei rapporti – spesso ambigui, enigmatici, tortili – tra gli scrittori e le loro mamme. Altro che Edipo, vien da dire, ammirando queste mamme-vampiro. May Beckett morì nel 1950, in una casa di cura, a Dublino. Beckett “il cui rapporto con la mamma era stato più che tempestoso, si sentì improvvisamente solo”. Sette anni dopo rievocò la morte della madre nel suo lavoro più alto, L’ultimo nastro di Krapp. Va detto che la gita in Inghilterra del 1935, l’unico istante in cui madre e figlio furono uno, fu corroborante per Samuel: a quell’epoca si situa il principio di Murphy, poi pubblicato nel 1938. Come a dire: le mamme crudeli rendono i figli degli scrittori migliori? Così pare. Nel 1977 il poeta Philip Larkin scrive una lettera all’amico Kingsley Amis, di algido cinismo: “Non paga di stare immobile, sorda e incapace di parlare, ora mia mamma sta diventando cieca. Vedi cosa succede a non morire?”. D’altra parte, E.M. Forster, il raffinato scrittore di Camera con vista e Passaggio in India, scrive a un amico che “per trent’anni mia madre ha ostacolato la mia carriera, ha deformato il mio genio, ha incasinato la mia vita… eppure, mi ha dato un ricco terreno su cui sviluppare la mia fantasia”. I grandi scrittori hanno bisogno di mamme bastarde. Ricordate Psycho

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