10 Maggio 2020

“Infiammava la mia fantasia, questo crudele e impietoso Paradiso, con il suo feroce brulicare di creature”: una lettera di Horacio Quiroga a Ezequiel Martínez Estrada

Misiones, marzo 1936

Caro Ezequiel [Martinez Estrada],

Tu hai il genio di non accettare nulla, io infine accetto tutto – ma fino a che punto, e per quanto? – perché, sadicamente, amo l’uomo nel suo punto schifosamente più debole. Ma non sopporto le vittime, i mentecatti del ricatto.

Nella mia vita, dopo aver letto tutto quello che avevano scritto gli altri, dopo aver preso notizia di tutte le soluzioni, ho provato un senso di profonda desolazione. Sono stato testimone del vicolo cieco a cui sono giunte molte delle cosiddette civiltà evolute, con la guerra impietosa contro tutto quel che è terreno. Una contesa millenaria? Nel corso dei secoli, ho visto questi spregiatori della terra scrivere, e azzardare senza la minima vergogna, paralleli impossibili tra uno scrittore o un poeta che ammiravano e la potenza animale, una lince, un’aquila, una “narrazione felina”, e in realtà erano agli antipodi. E ancora oggi è così. Per dio, quale presunzione! Rido, rido di tutti loro. Non solo si sono spinti fino a dichiarare lo smisurato potere di parola di un essere umano, ma lo hanno ammantato della forza e bellezza animale, di una linfa quasi atmosferica, geologica che non ha mai posseduto, non possiede e mai possiederà. Immagina all’opera, Ezequiel, l’antinatura e la sua vana pretesa di scalzare la natura, nell’illusione di scipparle fascino e potenza, con l’ausilio di una perversione intellettuale in seno al gioco delle idee, dell’arte. E disprezzo questo complesso di inferiorità sfoggiato come una forza che eguaglia la potenza animale con la pretesa di elevarla, nobilitarla, sfrondarla dal suo residuo volgare.

Questi creatori, che coltivano la sovranità nel chiuso di una stanza e, seduti alla loro scrivania, immaginano un’infinità di mondi, vivono nella virtualità dell’immaginazione, nella completa astrazione, nel feticismo delle parole, perché il mondo che attraversano, qua giù, in fondo non li riguarda. Loro, che sprofondano nel fascino dell’Idea e, nell’atto di volgere il proprio sguardo al di là del reale, che disertano, si dedicano a quell’altrove che si rivela sempre meglio del qui. Tutto quello che si cela alla vista li seduce, il mistero è la loro teologia, e la realtà solo un punto di partenza per nuove “straordinarie avventure”, quando fanno dell’assenza un mito. Del regno animale, se ne facessero ancora parte, rappresenterebbero gli esemplari più delicati.

Questa ascesi dilagante è deludente, la domesticazione della posa. E la posa è una gabbia, una delle più vili, quella che umilia ogni spontaneità, quando finiamo per farci prendere a schiaffi da una donna esasperata che vuole farsi fottere da noi, mentre tentenniamo in quel sofisticato erotismo tutto mentale che paralizza i nostri atti. A tutti coloro che troppo amano riflettere sul mondo, prima o poi è accaduto, anche a me, nei giorni in cui sono minato dall’umore di nero vestito, questo impietoso compagno, più che dall’amore per i libri. Apprezzo, infatti, che tu altrove abbia parlato di “eleganza ma non raffinatezza”, perché la prima è innata, naturale… così anche un lupo è elegante, mentre la seconda è figlia di ciò che è coltivato, artefatto e dunque umano troppo umano.

In una nostra lettera, mi sono definito un lupo preistorico, iperbole non lontana dal vero – non mi è estranea, come lo è al contrario per coloro che tu elogi ammantandoli di metafore animali… “gli occhi come un lupo che divora galassie”, hai scritto, ahimè, di un uomo che “rare volte accondiscese all’azione e che visse dedito ai puri piaceri del pensiero”. E sono analogie che perdono solo a te, alla tua sensibilità di rango, io, che da ragazzo sono cresciuto tra gli animali, in vaste terre, circondato da cani, gatti, papere, conigli, tacchini, galline. Allora me ne andavo per le valli che cingevano la nostra terra per giornate intere, tra mucche, tori, asini, pecore, fagiani e volpi che pascolavano e vagavano in libertà, e senza contare gli animali che vanno sempre temuti. Scrostavo le cortecce degli alberi per trovare gli scorpioni, che prendevo a mani nude. Salvavo belanti agnellini caduti nei crepacci, abbandonati a se stessi, calandomi con le corde, per poi portarli a vivere con me. Un giorno tornai a casa con un colosso nero, un grande terranova che si era smarrito, e una plateale entrata nella tenuta a cavalcioni sulla sua schiena, io ero piccolo e lui immenso e docile. Allora mi immergevo in fiumi agitati da acque limpide, insinuati in stretti canaloni che percorrevo trascinato dalle correnti. Scalavo alberi immensi, dalla verticalità imponente, come un redivivo Cosimo Piovasco, vissuto nel Settecento. Nessuna casa, persona o rumore disturbava l’avventurosa quiete di queste mie passeggiate. Da grande, in una tenuta, da quel mio vecchio amico che sai, là dove incontrai l’orso, fui ospite con una donna che lavorava nella moda – aveva quarant’anni, era una lesbica dal tenore molto maschile, che pretendeva di fare la dura e aveva la deludente ansia di essere più seducente dei maschi, di fottere meglio di loro, e quando sul bordo erboso del ruscello trovai un serpente di un metro e mezzo che strisciava e lo presi per la coda con la noncuranza di un fanciullo divino – lui, che tenacemente voleva mordere la mia innata capacità di maneggiarlo – e tentai di avvicinarmi a lei, per farle ammirare da vicino quella misteriosa creatura, scappò via a gambe levate, goffa, isterica, lanciando una sequela di striduli urli, femminili, molto femminili, anzi, proprio come quella femminuccia che pretendeva di non essere. Quel giorno non mise più piede nei pressi del corso d’acqua. Ma le donne, non sono più radicate nella vita degli uomini, come si dice e pretendono? In ogni caso, la spontaneità, l’ingenuità, la natura, anche quella più cupa e feroce, a me hanno sempre parlato più profondamente di qualunque diafano verbo. Ho ammirato da vicino l’onça, il giaguaro amazzonico, ho avuto tarantole giganti sul braccio, boa sul collo e le spalle, ho cavalcato cammelli, cavalli e rincorso nella sabbia del deserto un cobra fuggito dalla gabbia, mentre tutti riparavano sui tetti delle macchine e io al contrario ne seguivo da vicino le tracce per raccogliere in una scatola vuota di Malboro le rovine della sua muta iridescente, la pelle scorticata. Ma questa è la pura follia di allora unita a una rovinosa fascinazione per la figura dell’animale.

Ho scritto sull’Amazzonia, la zona di Diamantino, famosa per le sue riserve di diamanti, se non altro perché lì abbiamo posseduto terre immense – nessuno lo sa – di quindicimila ettari, vaste come tutta la nostra regione, e il nostro vicino, altro proprietario terriero, era una grande compagnia di automobili tedesca – non ho mai capito cosa ci facessero con quelle terre – eppure, una volta che le perdemmo, come tutto il resto, anni dopo io volli andare a vederle dal vivo, desiderai di calpestare quello sterminato mare verde, annusarlo, quel continente di alberi sperduto che infiammava la mia fantasia, questo crudele e impietoso Paradiso, con il suo feroce brulicare di creature, per ricordare il tempo in cui era stato nostro, ma solo formalmente, per la Legge degli uomini, perché la Natura non si lascia possedere, ma solo distruggere dalla nostra follia, quando non è lei ad annientarci.

Io amo le foreste, le stelle, gli elementi non per etica ecologica o eremitica… sono una chiamata allo sprofondare, come le gambe aperte di una donna, in altro modo.

A tal proposito… mi scrivi di Tiziana. Lei ha un talento autentico, soprattutto da dietro, ma è più imperdonabile. Paga alcune tare originarie, la necessità – deprecabile in una femmina piena di talenti – di dimostrarsi intelligente, arrivata, consapevole, piena, di sfoggiare l’abuso del tono poetico, quei suoi inutili riferimenti filosofici, intellettuali. Mi ricorda Monica, la famosa attrice, che in ogni caso è una presenza, una donna capace di sedurre con un gesto e uno sguardo, a comando, alla sua età. Il difetto totale è quando, anche lei, vuole ostentare coscienza intellettuale, competenza letteraria, sapienza politica. Lì precipita nella mediocrità dell’ovvio. Perché non le basta essere una presenza? Perché si vergogna di sapere – e lo sa, lo sa – che le basta dire una sciocchezza per schiavizzare le orde, ed è quello il suo unico genio, quel carisma primordiale, muto, privo di intelligenza. Invece, lo disfa, dandosi al ‘dibattito’, all’orrore dell’astrazione.

Ti abbraccio, amico mio.

Horacio [Quiroga]

*In copertina: Horacio Quiroga a Misiones, 1926

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