18 Febbraio 2021

Soltanto un grande scrittore può inseguire il romanzo della propria infanzia. Sulle tracce di Kim

Il “Times” lo ha onorato con epiteti degni di un’epica: author and adventurer. Gli inglesi, quando stilano definizioni, hanno l’esattezza del cecchino: autore è diverso da giornalista; e non significa precisamente scrittore. Avventuriero, nel paese dei corsari, delle corse in capo al mondo, fin dove nasce il sole, è una medaglia, un segno di gloria. D’altronde, Peter Hopkirk, nato nel 1930 da un prete anglicano che praticava in prigione e da una madre eletta alla letteratura, servì sul massimo quotidiano d’Albione per vent’anni, prima come caporedattore poi come inviato in Medio ed Estremo Oriente. Aveva iniziato sul “Sunday Express”, che nel 1955 lo spedì sul fronte della guerra francoalgerina; scriveva sul “Daily Express”, invece, quando, era il ’61, era di stanza all’Avana, fu arrestato dalla polizia segreta cubana con l’accusa di spionaggio, in seguito a quanto accaduto alla Baia dei Porci. Rischiò la fucilazione, non gli tremavano le gambe. Piuttosto, uomo d’aria e di vasti spazi – nel 1949 aveva servito nel King’s African Rifles, il battaglione inglese nei possedimenti coloniali d’Africa –, soffrì di vertigini entrando nei leggendari uffici del “Times”. “Scrivi come sai; semplicemente, allunga del doppio i paragrafi”, lo aveva tranquillizzato un collega. A Peter Hopkirk, che fu giornalista dal piglio conradiano – nel 1974 era su un volo partito da Beirut e dirottato dai palestinesi: da leggenda la sua fermezza nell’imbastire un dialogo coi terroristi, fino a convincerli alla resa – dobbiamo uno dei grandi libri degli ultimi decenni, Il Grande Gioco, pubblicato da John Murray nel 1990 e tradotto in Italia da Adelphi nel 2004. Fu, quello, l’iceberg eccezionale di una bibliografia scintillante che conta Diavoli stranieri sulla Via della Seta (1980) e Alla conquista di Lhasa (1982; entrambi editi da Adelphi). Hopkirk continuava a ripete, “è straordinario come la Storia si stia ripetendo: alcuni giocatori cambiano, ma il Grande Gioco continua”. Nella prefazione del 1997 a quel libro scrive, “Nel bene e nel male l’Asia centrale fa di nuovo notizia, ed è probabile che continui a farla per molto tempo ancora”. Fu facile profeta lungo le contrade d’Oriente: da tempo il Grande Fratello è realtà, è scontato ribadirlo, in pochi sanno mappare i nuovi confini del Grande Gioco.  

Volitivo, affascinante, con lo sguardo incendiato dal fato, non dissimile da quello di T.E. Lawrence, ha avuto quattro figli da tre mogli. Aveva il genio del dettaglio, l’acribia dello storico – perfezionata razziando l’India Office Records alla British Library –, una scrittura schietta – opposta a quella di Bruce Chatwin – e meridiana, che coglie l’avventura mentre avviene, che corre. Chi ha letto Il Grande Gioco sa che il cuore esoterico del libro è Kim, il “classico racconto di spionaggio” di Rudyard Kipling, da cui è estrapolata una frase come esergo, la chiave per comprendere gli eventi. Hopkirk era devoto a Kipling e a Kimball O’Hara, Kim, la sua creatura: in qualche modo la sua vita – si va all’avventura, dando carisma alle gesta, con avventatezza ingenua, segugi della propria, pur ideale, infanzia – ne è la replica. Hopkirk – troppe K nel nome fanno una fratellanza – è una sorta di Kim adulto. “È stato proprio Kim, non riesco neppure a ricordare quanti anni fa, a introdurmi per la prima volta nel mondo intrigante del Grande Gioco”, attacca Hopkirk nel suo ultimo libro, testamentario, remoto, straordinario, Quest for Kim (1996), pubblicato ora da Settecolori come Sulle tracce di Kim. Il Grande Gioco nell’India di Kipling. “Infine, inseguì l’eroe della sua infanzia, Kim, da Lahore a Varanasi, fino all’Himalaya…”, scrive l’articolista del “Times”, e io mi dico, c’è modo più bello, commosso, serio di sigillare la propria vita se non inseguendo gli eroi della propria giovinezza?

Sulle tracce di Kim, così, oltre ad essere un atto d’amore nei riguardi di Kipling, autore vilipeso da tempo – per via del white man’s burden –, lettura anticonvenzionale, è un elogio della lettura come gesto eversivo, che pretende un destino. “La mia lettura giovanile di Kim… mi ha anche aperto gli occhi su tutto un universo nuovo, colmo di promesse: il misterioso Oriente… Fu così che durante le vacanze scolastiche, mentre altri ragazzi s’impegnavano in occupazioni più convenzionali, io andavo nelle piccole librerie di cose orientali vicino al British Museum. Queste botteghe esotiche (o così sembravano a me) erano gestite da uomini dall’aspetto sapiente, coi capelli bianchi e nomi vagamente centroeuropei… Io lì affondavo gli occhi tra le pagine di volumoni intimorenti, capendo poco o nulla di ciò che leggevo, convinto magari che, in qualche modo, forse per osmosi, avrei assorbito un po’ dei loro segreti”. Un libro, ecco, lo si vuole agire, per permettere ai paragrafi di sfatarsi in vita.

Hopkirk maneggia Kim come una mappa, cercando i riferimenti del romanzo nella realtà del proprio tempo. Il gioco dona così al viaggio una tensione fantastica più che una nervatura nostalgica: tutto, va da sé, è diverso da come lo ha raccontato, allora, Kipling, ma è in questa disparità, nell’alcova dell’inesattezza, il romanzesco. “La Frammassoneria era largamente diffusa nell’India britannica, e costituiva in effetti l’unico centro in cui gli intellettuali e gli uomini di successo di tutte le razze solevano incontrarsi e parlare. Kipling ci dice che vi era entrato grazie a un hindu, con l’approvazione di un musulmano e gli ammaestramenti di un inglese, ciò in una loggia che comprendeva anche ebrei e altre minoranze… Dovrei forse aggiungere che la ‘grande Jadoo-Gher azzurra e bianca’, la ‘Casa della Magia’, come Kipling chiama il vecchio tempio massonico di Lahore, si trova ancora lì oggi. Non è più tuttavia un luogo d’incontro di massoni, dove musulmani, hindu, ebrei ed europei potevano associarsi sullo stesso piano. Persi per sempre sono l’arredamento in legno scolpito dei tempi di Kipling, la preziosa biblioteca e la fine vetrata istoriata raffigurante Salomone. Perché non tutti i governi, in particolare quelli islamici, accolgono la Frammassoneria, e perché la ‘Casa della Magia’ è stata da tempo requisita dalle autorità per il proprio uso secolare”.  

Kim sa muoversi tra gli uomini con la stessa destrezza con cui Mowgli – l’altra creatura di Kipling – addomestica le bestie della giungla. Nella giungla del mondo, Kim è l’amico di tutti e “l’Amico delle Stelle” (è orfano della terra, ma parto prediletto del cielo), è la cometa, il cospiratore del sogno, il bimbo perenne, estatico. Crocevia di dispacci segreti, eretico tra gli enigmi, Kim accompagna il Lama sulla via dell’illuminazione. Il Grande Gioco non è diverso dalla Ruota del Dharma: c’è chi è avviluppato dalle ambizioni e chi si districa, con la scaltrezza di un koan, mistico nonsense. Soltanto un grande scrittore può frugare un romanzo fino a fugare la più infima traccia di realtà: ce ne consegna la pura spina, il sogno scorticato, che freme. (d.b.)

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