14 Maggio 2020

Contenere l’incontenibile: “Harry l’aratore”, una poesia di Gerard Manley Hopkins tradotta da Andrea Ponso

Harry l’aratore

Graticcio le braccia di dure sbarre, schiumosa dorata peluria
intorno, tremante; rastrelliera di costole; scavato il fianco; tesa corda dei lombi; navata del ginocchio; cilindrico lo stinco
testa e piede, spalla e stinco –
l’occhio con cura, grigio, dirige una ciurma al lavoro;
alla pressione resiste. Grumoso muscolo d’ogni arto tenso, fatica qui incurvata, e là assorbita e affondata –
salita o scesa –
come corteccia di faggi, trova la sua, ecco: chiamata, rango
e funzioni, nella carne, il suo da farsi –
dove deve il rito dei nervi.

Chinandosi, vi s’appoggia, Harry: guarda. Schiena, gomito, si scioglie
il busto, tutto trema nel trarre dell’aratro: la sua guancia sanguigna; riccioli s’intricano e si districano, levatosi il vento, li sovrappone –
vedili al vento come gigli intrecciati;
ruvida grazia, figlia di forza d’uomo, come li tiene o li scaglia –
allargati in rozzo cuoio i suoi piedi rabbiosi, sferzati! Rincorsi con,
in loro, sbalzato ferro sotto e gelide schegge –
di splendore spire come getti di fontana.

Gerard Manley Hopkins

*

Come in ogni traduzione, ma in maniera quasi parossistica nei testi di Hopkins, il tentativo di trasposizione o, meglio, di versione in altra lingua, diventa una sorta di esercizio di invasione non tanto di significati e di immagini ma, piuttosto, di suoni e di rumori, di sganciamenti e gocciolamenti, armonie e dissonanze meravigliosamente e misteriosamente tenute insieme da un mettersi in forma mai sentito prima, che potrebbe addirittura essere paragonato alla scomposizione e alla ricomposizione di certa musica contemporanea.

Ciò che si muove, ciò che letteralmente si fa poiesis, è l’energia sonora e ritmica delle azioni di parola, lasciando apparentemente in secondo piano i significati e le descrizioni delle cose e delle azioni – come se quest’ultime fossero poco più che gli indumenti dai quali traspaiono muscoli, nervi e vene d’energia corporea e significante. Cose e azioni non hanno bisogno di essere rappresentate perché, nella lingua, vengono colte nel loro movimento, nella loro fatica e nella loro gioia tragica.

Il corpo del testo, proprio come il corpo al lavoro che ritroviamo nei versi, è fatto di organi pulsanti, di flussi di sangue e sudore, di ischemie e blocchi, d’ecchimosi e acido lattico: un organismo davvero vivente e non preventivamente organizzato; una forma di vita, il testo stesso, che non si lascia ipostatizzare dalla forma proprio grazie al continuo ascolto delle forme-azioni che lo abitano e lo fanno nascere nel loro divenire. Un corpo comunitario e al tempo stessi unico e singolare, come quello della comunione in Cristo incarnato mediante l’energia rigenerante dello Spirito; un corpo davvero sacramentale nel qui e ora dell’enunciazione e dell’ekklēsia convocata all’ascolto.

Per questo, anche la linearizzazione logico-sintattica viene slogata e medicata continuamente, in un insieme di atti che diventano strappo fisico e ortopedia – verso il miracolo in atto del contenere l’incontenibile. Non c’è nulla, mi pare, di più realistico di questo, di contro alla quieta e fintamente umile rappresentazione in forma bassamente narrativa che tanto spesso ritroviamo nella produzione letteraria contemporanea, spacciata per adesione alla ‘realtà’ ma, di fatto, censoria ed esteriore ad ogni vero movimento vivente.

Andrea Ponso

*In copertina: Carlo Fronara, “L’aratura in Argentina”, 1916

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