06 Aprile 2018

“Se papà tornasse vivo lo ucciderebbero ancora”. Ho visto gli occhi di Maria Fida Moro, una donna libera e che incute timore. Indagine sul ‘caso Moro’ (parte terza)

Nel reportage si reperta, non si ricorda a spezzoni. Si entra in un corto circuito mentale e sembra che la vicenda accolga una selezione più che un’interpretazione, una ripresa di ambienti e stanze, di luoghi eletti, di persone da individuare e narrare standole accanto. Questa è la forza e la lucidità di chi si muove a tentoni nel caso Moro: smarcarsi dalla situazione dolorosa per accedere in uno spazio di concretezze, di descrizioni non camuffate. Si deve essere segugi che fanno emergere l’accaduto. Moro si è solo assentato e continua a far parlare gli altri di sé muovendosi indisturbato, senza farsi accorgere. Prevale una sequenza molecolare di narrazioni, blocchi di scrittura autonomi in brandelli di verità. Presenze e assenze sono in continua transizione. Il filtro non è solo nel ricordo, ma anche in una corrispondenza ben oltre la fisicità. Dopo tanti anni la vita e la morte dello statista si toccano, combaciano.

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Per capire il delitto Moro bisogna partire dal quadro storico dell’epoca, dalle tensioni sociali e dalla recessione economica, nonché da una crisi endemica dei partiti che si andava progressivamente registrando. Quindi necessita un’analisi tutt’altro che immediata. Erano molte le distorsioni degli anni Settanta: tra tutte la mancanza di una classe politica capace di inglobare la spinta propulsiva della piazza e di capire realmente cosa spingesse i movimenti extraparlamentari alla strategia della tensione, durata più di un decennio. La gestione della cosa pubblica scontentava, come gli atteggiamenti dei dirigenti che non elaboravano un progetto politico riformatore, convincente, profondamente critico a partire dalle strutture interne. Si arrivò a toccare il culmine che sfociava in sollevazioni popolari organizzate prevalentemente dai giovani. Erano lontani gli anni del boom economico, della grande espansione economica determinata dal piano Marshall e dallo sfruttamento delle opportunità date dalla favorevole congiuntura internazionale. Sembrava essersi arrestata l’intraprendenza degli industriali italiani e la potenzialità del made in Italy, la forza dello scambio di manufatti con l’estero, l’apertura dei mercati al fine di farsi apprezzare e di trovare uno sbocco che garantisse ancora produzione e vendite, guadagno. Anche la fine del tradizionale protezionismo aveva garantito linfa al sistema, a cominciare da una fase di ammodernamento che toccò gli stessi usi e costumi degli italiani.

L’insensibilità dei partiti comportava un’opposizione dura nei loro confronti, dislocata nei fulcri nevralgici delle fabbriche e delle università dove era maggiore il malcontento contro la classe borghese. Il Sessantotto non conquistò il potere politico ma ne condizionò le coscienze provocando una vera e propria rivoluzione culturale. Combinandosi con diversi fattori e dando importanti contributi a tutte le battaglie civili, consentì la conquista dello Statuto dei lavoratori, la battaglia sul divorzio, sull’aborto, la riforma della scuola e dell’università. Il Sessantotto è stato dei giovani, come la strategia della tensione e gli anni di piombo, che condussero alla morte violenta, all’orrore, alla destabilizzazione, a ciò che Vittorio Notarnicola nel Corriere d’Informazione, definì “la belva umana”. Ferite su ferite, dunque, con la bombe di piazza Fontana a Milano e la discussione e l’incertezza sulla paternità dell’attentato che costò diciassette morti. Aldo Moro avvertì che non si poteva restare con le mani in mano. Stava mutando l’orizzonte culturale attraverso l’eversione, l’abuso, l’intemperanza e soprattutto l’uso delle armi. Questi eccessi paralizzavano le istituzioni, mentre erano molto attive le prefetture a difesa dell’ordine repubblicano. Tra aggressioni e attentati, gli atti di violenza si moltiplicavano con una rapidità incessante. Il modo di intraprendere la lotta era cambiato completamente, come la protesta rivolta al mondo politico parlamentare, avulso dai problemi reali del paese, ingessato nella burocrazia e nel mantenimento di posizioni di rendita.

Appare significativo un articolo di Giampaolo Pansa su la Repubblica, nel 1977, alla ripresa degli scontri e sulla lotta al terrorismo, nell’indicazione del cammino per il raggiungimento del potere, nell’utopia dell’instaurazione della dittatura del proletariato e della costruzione del comunismo. L’obiettivo doveva realizzarsi attraverso azioni politico-militari e fasi di analisi politica che centrassero gli obiettivi primari mediante un progetto insurrezionale. Scrive Pansa: “Già, i giornali ci parlano di difesa dello Stato dalle Brigate Rosse. Quale Stato? Quello dei processi che non si concludono, dei ministri bugiardi e impuniti, delle liste di uomini d’oro che spariscono dalle casseforti delle banche, dei segreti che coprono chi comanda? E la rabbia giovanile propone domande ancora più semplici e brutali: perché devo prendermela con i terroristi e non con chi mi lascia senza lavoro?”.

Gli anni di piombo tra il 1970 e il 1974 provocarono un’azione organizzata con gruppi che operavano quasi esclusivamente nelle fabbriche e in modo spesso clandestino. Inizialmente agirono nel milanese, successivamente estesero il proprio operato in Piemonte e in Emilia-Romagna. Le Brigate Rosse si strutturarono in gruppi parasindacali che avevano il compito di fare propaganda nelle aziende soggette a piani di ristrutturazione dove la tensione degli operai con il datore di lavoro fosse molto alta. Colpirne uno per educarne cento, dicevano gli estremisti. Si tendeva a creare un vuoto che potesse riempirsi con la partecipazione eversiva, facendo violenza, provocando disordine, alzando gli scudi per far sentire la propria voce mai graduale. La minaccia stessa all’integrità fisica della persone prese campo, come l’esercizio della libertà con gli strumenti che si ritenevano necessari. Ai primi sequestri seguirono i cosiddetti processi del popolo. Il 10 marzo 1978 i brigatisti colpirono mortalmente Rosario Berardi, maresciallo della Polizia, sezione antiterrorismo. Un nucleo armato della colonna torinese delle Brigate Rosse, tre uomini e una donna, uccise l’uomo mentre sostava nei pressi della sua abitazione, alla fermata dell’autobus, in attesa di recarsi al lavoro in commissariato. Berardi era stato impegnato nel contrasto al terrorismo prestando servizio con successo nei nuclei della questura torinese.

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Ho conosciuto di persona la primogenita di casa Moro, Maria Fida: decisa, intraprendente, esigente, invulnerabile. Una donna che ha raccolto l’eredità del padre senza retorica. Una donna libera che non ha mai accettato i compromessi, che non si è arresa alle complicità e alle reticenze. Una donna che incute timore: il volto è segnato dai medesimi tratti del padre, ma i suoi sono più appuntiti, come lo sguardo che fiuta, che non dà scampo. Ho sempre pensato che non riuscirei a sostenerlo, quello sguardo. C’è tutto nei suoi occhi: rabbia e pietà, rancore e bisogno di giustizia. C’è racchiuso il sunto della pretesa, vale a dire la coniugazione della responsabilità giuridica e della responsabilità politica. Un’esigenza imperitura che non è stata mai appagata. Maria Fida Moro ha i capelli cortissimi ed è inglobata in una forma espressiva vibrante, che non si può non notare, anche se non la si conoscesse. Se la incontrassi per strada mi fermerei ad osservare il passo di questa donna che assume le sembianze della persona spigliata come una giovanissima. Il taglio dei capelli è il risvolto visibile della rimostranza, della ribellione. Maria Fida ha la fisionomia di chi ha deciso di darci un taglio, di rompere con il passato, di non adeguarsi. L’eccentricità che nasce dalla parte del bene. Ha avuto sempre ragione, del resto, non solo perché le hanno sottratto barbaramente il padre, ma perché oltre a scandagliare nel giudizio per arrivare a conclusioni certe e disagevoli per l’Italia, è andata oltre. Ha raccontato l’uomo che non conoscevamo, lo ha preso a modello, ne ha tratto l’insegnamento e l’eredità mantenendo vivo il padre di famiglia e il politico. In fondo lo vede con romanticismo, papà Aldo, il “servo di Dio”, per chi potrebbe farlo salire agli onori del culto, della beatificazione. Il tribunale diocesano di Roma, infatti, ha ricevuto il libello che ne attesta la fama di santità, le virtù, riscontrando attraverso una serie di testimonianze, che la sua vita è stata un esempio per i fedeli. Decisiva per l’attestazione canonica sarà la constatazione di un segno prodigioso ascrivibile alla sua intercessione. Il nullaosta è arrivato dal cardinale Agostini Vallini, vicario del Papa. Si vuole verificare l’eroicità di martire laico.

Maria Fida Moro sarà la madrina di suo padre, immagino, perché questo riconoscimento varrebbe più di ogni celebrazione. Nella voce sicura e sbrigativa di questa donna, emerge il carattere di pacificatore attribuito al padre. Ho riflettuto a lungo sull’antinomia che legherebbe la morte di Aldo Moro con la sua vocazione. Una morte violenta bilancia una fermezza pacifica.

Fu equidistante dagli Stati Uniti e dalla Russia come nessun altro. Nessuna sudditanza e asservimento, ma la ricerca della verità illuminante di un popolo e di una nazione, perché si formasse la coscienza comune, condivisibile, educatrice specie per i giovani. Questo, anche secondo Maria Fida, è il motivo intrinseco dell’uccisione. Non il compromesso storico, non le convergenze parallele, non l’ingresso dei comunisti nel governo, ma l’indipendenza serenamente professata dallo statista italiano che sottintende una visione universale. Un’eccezione che avrebbe dovuto essere invece la regola. E se ciò che succede oggi non può più ferire Aldo Moro, certamente il disarmo del terzo millennio è lo specchio di una realtà deformata, violata. Togliere di mezzo il presidente della Democrazia Cristiana, nel 1978, ha voluto dire sabotare un messaggio evangelico, cristiano.

C’è uno scritto straordinario che credo possa essere controfirmato, idealmente, dai figli. È stato pubblicato dal padre sul quotidiano Il Giorno il 6 settembre 1972 e si riferisce alla portata di un’opinione pubblica che scavalca i confini geografici, autocratici: “Eppure, in una fase avanzata nel processo di unificazione del mondo, qualche breccia è stata aperta in questo modo, diciamolo pure, deludente dei rapporti umani. Sono i limiti di un fenomeno che non può comunque essere sottovalutato. Ma sappiamo che c’è ben altro da fare, che siamo solo ai primi passi di un’evoluzione destinata a riconoscere che la condizione umana dei cittadini del mondo non può essere disciplinata in modo esclusivo secondo criteri interpretativi ed interessi dei singoli stati. Almeno per quanto riguarda i fondamentali diritti umani, gli stati non sono sovrani ed hanno un superiore da riconoscere anche nella più gelosa sfera della propria esistenza interna. È un cammino lungo e difficile. Ebbene non può essere contestato che si vada formando, che anzi in qualche modo esista già oggi, un’opinione pubblica mondiale, una coscienza umana con la sua voce. Essa esiste e pesa. Questo è un fatto nuovo nella politica internazionale, ma è soprattutto l’inizio di una nuova civiltà. Bisogna capire e prepararsi”.

Cos’è questo preludio se non un dialogo preparatorio ad una costituzionale extraterritoriale? Non è forse un giuramento di fedeltà per dei tempi nuovi che tardavano a venire e che con la morte di Moro sono definitivamente tramontati? La coscienza umana non è altro che una voce mondiale, uguale per tutti, priva di sesso e di razza, di religione e di lingua.

Il 29 giugno 1969, al congresso della Democrazia Cristiana, Aldo Moro il pacificatore e l’innovatore, diceva: “I giovani chiedono un vero ordine nuovo, una vita sociale che non soffochi, ma offra liberi spazi, una prospettiva politica non conservatrice o meramente stabilizzatrice, la lievitazione di valori umani. Una tale società non può essere creata senza l’attiva presenza, in una posizione veramente influente, di coloro per i quali il passato è passato e che sono completamente aperti verso l’avvenire. La richiesta d’innovazione comporta naturalmente la richiesta di partecipazione. Essa è rivolta agli altri, ma anche e soprattutto a se stessi. Non è solo una rivendicazione, ma anche un dovere ed un’assunzione di responsabilità. L’immissione della linfa vitale dell’entusiasmo, dell’impegno, del rifiuto dell’esistente proprio dei giovani nella società, nei partiti, nello Stato è una necessità vitale, condizione dell’equilibrio e della pace sociale nei termini nuovi ed aperti nei quali in una fase evolutiva essi possono essere concepiti. I lavoratori, e naturalmente innanzitutto i giovani lavoratori, escono finalmente dalle zone d’ombra, dai settori marginali nei quali, senza adeguato potere, erano o si sentivano ingiustamente ricacciati. Al di là della tecnica del sistema economico adottato, essi chiedono che le scelte decisive siano fatte in sede responsabile e nell’interesse generale a che essi vi partecipino, in condizione di dignità e sicurezza, nella fabbrica, nel sindacato, nella programmazione, nei partiti e nello Stato. Non accettano di essere solo parte di un meccanismo, anello di una catena, ma vogliono erigersi a consapevoli protagonisti del processo che crea la ricchezza, la distribuisce, la finalizza verso obiettivi umani. Ed essi, pur nella loro operosità, si sentono non il mezzo, ma il fine. Una società così viva non può che essere una società in sviluppo. Essa non è certo paga della sua opulenza ed ha quindi tutti aperti i problemi della degna condizione umana, della partecipazione al potere, dell’appagamento dello spirito, del primato della persona sull’efficienza del sistema e sui lucidi e ben rodati meccanismi sociali. Essa non è rassegnata certo alle troppe sperequazioni, all’interno ed all’esterno del suo sistema, le quali rendono, perciò solo, la ricchezza intollerabile ed offensiva. Ma è certo una società nella quale l’iniziativa economica deve svilupparsi adeguatamente come premessa di progresso civile ed occasione per porre e risolvere grandi problemi umani. Nella nostra epoca, in presenza di questi stati d’animo e movimenti d’opinione, l’iniziativa economica deve essere rigorosamente inquadrata nella programmazione per ragioni anche tecniche, ma soprattutto sociali e politiche. Ciò comporta la previsione e promozione dello sviluppo, l’indicazione delle politiche da adottare e dei comportamenti da tenere, la mobilitazione di tutte le energie del paese per precise finalità economiche e civili, una generale assunzione di responsabilità, la giusta subordinazione degli interessi di parte al generale interesse della collettività nazionale, una vasta partecipazione delle forze sociali alla formulazione del piano, la verifica della sua validità a livello locale e soprattutto della regione”.

La naturale varietà della vita sociale e le ragioni non solo politiche sembrano, nel 2018, essere state spazzate via, così come sembrano lontane le premesse di Aldo Moro, quando il 14 maggio 1965 si svolge alla Camera dei Deputati un dibattito su interpellanze e interrogazioni riguardo la politica estera italiana, soprattutto a seguito del viaggio di Moro e Fanfani negli Stati Uniti. Moro interviene: “Con la nostra visita all’Onu abbiamo voluto rendere, sì, omaggio ad uomini altamente benemeriti per la salvaguardia della pace nel mondo, ma anche esprimere l’adesione, mai smentita, dell’Italia a questo modo nuovo e più alto di organizzare la comunità internazionale e di garantire la pace. Per quanto lento sia lo sviluppo verso una universale, libera e pacifica comunità internazionale, tuttavia questo sviluppo è in corso ed è dovere e responsabilità nostra di accelerarlo e di condurlo al suo compimento. Se guardiamo i tanti punti di tensione che ancora sono nel mondo, le incomprensioni e le distanze tra le nazioni, le necessità, che ancora sussistono, di presenza, di difesa, di particolari operanti solidarietà, abbiamo certo la sensazione di un lunghissimo cammino da fare. E tuttavia la strada è aperta e tocca a noi, consapevoli dei valori profondi della democrazia che fanno tutt’uno con quelli della pace tra gli uomini ed i popoli, di percorrerla tutta intera. Certo, intanto abbiamo doveri di assistenza e di solidarietà da adempiere e ad essi intendiamo restare pienamente fedeli. Ma non vogliamo perdere di vista la meta verso la quale del resto ci sospinge un’opinione pubblica sempre più vasta, autorevole ed esigente. Muoviamo verso il Parlamento mondiale, verso una sede angusta di giustizia e di libertà per tutti i popoli del mondo. Ogni tappa su questa strada è importante ed apprezzabile. Per questa ragione, nel richiamare con vigore le nostre alleanze e le nostre particolari responsabilità, intendiamo promuovere sulla base della sicurezza ogni utile contatto di comprensione e di pace, ravvivando quelle umane speranze che noi non accettiamo siano affievolite e che vogliamo invece riaccendere con una forte iniziativa fondata sulla fiducia, nella capacità e volontà d’incontro degli uomini e dei popoli”.

Il 22 ottobre 1969 Moro, Ministro degli Esteri, afferma alla Camera dei Deputati: “C’è una realtà politica che deve evolvere ed in qualche misura evolve. Ciò consente una nuova politica degli schieramenti ed al limite, quando venga meno la politica di potenza, la loro dissoluzione. Ebbene, è attraverso una politica di avvicinamento dei blocchi che la guerra è stata evitata ed in qualche modo si è cominciato a costruire un sistema di pace. Rompere l’equilibrio è utile a patto che quello nuovo cui si dà vita sia migliore del precedente, più valido e più umano. Potrebbe però anche accadere che la rottura dell’assetto esistente dia luogo a pericolose incognite. Allora la pace non sarebbe più sicura, né il mondo sarebbe più umano. Ecco perché non posso accettare la prospettiva di immediato superamento dei blocchi e di recesso unilaterale dell’Italia dalla Nato. Posso invece fervidamente auspicare che il processo distensivo continui, che si intensifichino i rapporti tra l’est e l’ovest, che si guardi all’assetto complessivo del mondo avendo presente che esiste un grande popolo non ancora completamente inserito nella comunità internazionale, che si sviluppino iniziative di disarmo a cominciare dall’atteso negoziato per la limitazione degli armamenti strategici fra le massime potenze”.

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Agnese Moro, sociopsicologa, ricercatrice di Scienze della cittadinanza e socia di Asdo, l’assemblea delle donne per lo sviluppo e la lotta all’esclusione sociale, ha dato alle stampe il libro Un uomo così (Rizzoli 2003), con un aggiornamento datato 2008. La figlia di Moro, terzogenita, a proposito della non convenzionalità del padre e della percezione che hanno ancora gli italiani dello statista, scrive: “Queste pagine sono nate dal desiderio di far conoscere ai miei figli qualcosa del loro nonno, che non hanno potuto incontrare in questa vita e che sono abituati a vedere riproposto alla televisione nella terribile fotografia da prigioniero delle Brigate Rosse o cadavere nel portabagagli di una macchina circondata da persone agitate. Volevo farglielo vedere, invece, così come lo avevo visto io e come mi è rimasto nel cuore. Ho raccolto e selezionato dei ricordi che potessero dare almeno un’impressione di lui”.

E ancora: “Non siamo solo produttori di immondizia non raccolta, di criminalità organizzata, di debolezza politica, di prepotenza. Siamo anche un grande paese, che è stato in grado di produrre nel passato, ma ancora oggi, come ho cercato di comunicare presentando la ricchezza umana e sociale che ho incontrato nei miei viaggi, persone piene di capacità e abnegazione”.

Inoltre: “Papà fa parte di questa radice, inattaccabile, che ci portiamo dentro, che ci lega ad una storia di democrazia e di impegno civile, che ci fa lasciare le nostre sicurezze, e costruire e sperare anche quando tutto, intorno a noi, ci scoraggerebbe dal farlo”.

Agnese Moro ribadisce il punto focale della scelta per il bene. Non un bene astratto, ma il bene così come si produce nella storia, nella società, che va sostenuto perché giusto. Aldo Moro, rivela la figlia, teneva molto all’idea che non si perdesse la capacità di guardare il bene. Era un uomo che combatteva la mediocrità, l’apatia, l’essere restii al cambiamento, l’indifferenza nei confronti dei giovani, di una società con una tendenza involutiva. Ma Aldo Moro è anche il padre nella poltrona di casa, col cappello floscio, mentre raccoglie i fichi e sbuccia le arance, mentre si fa la barba. Moro che canta filastrocche alla figlia, che gioca a scacchi con il nipotino, che va al cinema con la famiglia a vedere i film western. E che piange, disperato, alla morte del padre. Nell’album di famiglia di Agnese Moro compaiono i viaggi, i giornali, le preoccupazioni del partito. Il Moro stratega, l’uomo pubblico contornato dal mito del martirio, è assente. Si capisce come la cura degli affetti, l’attenzione per i figli, la sensibilità per gli accadimenti privati pongano in risalto l’uomo alternativo. Agnese Moro pone l’accento sull’intelligenza e sull’amore del padre. Aspetti riversati ovunque, in ogni circostanza, senza lesinare nulla del bene, qualunque occasione potesse essere utile per profonderlo.

Ma c’è di più. L’11 luglio 2011 la terzogenita ha incontrato pubblicamente il terrorista Franco Bonisoli, che aveva già perdonato. C’erano stati, precedentemente, anche incontri privati, ma mai un confronto in una sala gremita di persone. La serata dal titolo “Cercando la giustizia più in là”, inserita nella Settimana internazionale dei diritti, è stata curata da Nando dalla Chiesa per il Comune di Genova. Bonisoli ha ammesso che i brigatisti si sentivano, nel modo sbagliato, missionari che impegnavano completamente loro stessi. Pensavano di risolvere, di affermare il bene attraverso la violenza. Agnese Moro ha dichiarato di essere rimasta colpita dal dolore di Franco Bonisoli. Ha ricordato la grande tragedia italiana e la necessità di capire l’umanità che c’è dietro quelli che si pensavano mostri. Perché la condanna non restituisce giustizia. Entrambi gli invitati hanno parlato di rivoluzione dell’umanità, della loro rivoluzione. L’ammissione di colpa e il perdono sono già gesti eloquenti. Un secondo incontro è avvenuto ad Oristano il 15 giugno 2013. Le domande di Anna Chiara Valle, di “Famiglia Cristiana”, hanno risvegliato di nuovo le coscienze. “Il perdono non è un sentimento, è una decisione”, ha ammesso Agnese Moro.

In un’intervista apparsa sul sito www.memoriacondivisa.it, Lina Pasca intervista la terzogenita dello statista sull’attualità odierna: “La dimensione della politica è una parte indispensabile della vita sociale. E’ la capacità di avere un progetto, di conoscere la realtà, di individuare gli strumenti per cambiarla, e di farlo con il dialogo, il coinvolgimento e il rispetto. Penso che i partiti siano lo strumento che andrebbe profondamente ripensato”.

Su www.romasette.it, l’informazione online della diocesi di Roma, Agnese Moro, intervistata da Angelo Zema, riferisce sulla lezione del padre: “Io credo che, tra le tante cose significative, rimarrà sempre di un’attualità estrema la sua scelta radicale per il bene. Non un bene astratto, ma il bene così come si produce nella storia, nella società, che va sostenuto, aiutato. Lui teneva molto all’idea che non si perdesse la capacità di guardare il bene. Sono certa che ci sia molto più bene che male, ma il bene non lo facciamo vedere e il male strilla forte. Lui si affiderebbe con quell’impegno così semplice e pacato, ma così incisivo, a incoraggiarci verso il bene che c’è dentro di noi, a sostenerlo e a farlo valere”.

Insomma, emerge la lezione dell’uomo e del politico più vivo che mai. Pacificare e innovare per la comunità del bene: la morale di Aldo Moro era profondamente segnata dal valore dei principi evangelici che appaiono, una volta di più, straordinariamente applicati di persona per cambiare lo scenario italiano a partire dagli atteggiamenti comuni, in famiglia, con gli studenti, con gli amici. Non sono posizione ovvie, ma rappresentano uno scossone senza irriverenza, nella consapevolezza della drammaticità della situazione italiana. La prospettiva catastrofica individuata dai brigatisti non fa chiudere gli occhi ad Aldo Moro, che continua a porre al centro dell’attenzione la questione democratica e il prezzo da pagare perché si fronteggino gli anni di piombo con una coscienza ferma e con un’attività che non opprima i più deboli, che sia partecipativa, che tenti di dare un nuovo volto alla politica, che mobiliti le coscienze del bene contro la violenza dilagante. Ma l’azione doveva essere robusta, diffusa perché la speranza del cambiamento convincesse che la rivoluzione sociale, pacificatrice, andasse prospettata e al più presto dagli stessi dirigenti democristiani e da tutti gli altri partiti governativi e non. C’era bisogno di parlare al paese con i fatti. Era il tempo delle riforme, di una correzione del centralismo, delle competenze e dei compiti dello Stato, della mediazione con il mondo sociale e culturale, della formazione e della gestione del ceto marginale. Tutto questo cadeva miseramente nel vuoto, nonostante Aldo Moro spingesse fortemente per la condivisione della novità dall’interno. La sua rivoluzione era nella battaglia contro l’arroganza, l’intolleranza e l’insolenza. L’esame di coscienza doveva essere avviato dalla corporazione dei partiti evitando di farsi ricattare. Evitando i cedimenti, ma accettando un dialogo reale in una libera dialettica e in una trasformazione dell’Italia al passo con i tempi, in una lettura convincente della stagione dei conflitti. Andavano discussi i rapporti internazionali, le riforme, gli investimenti, l’organizzazione del lavoro, la ristrutturazione delle fabbriche, il sistema sanitario con interlocutori che fossero controparti, che non provenissero solo dalla burocrazia statale, non tralasciando il mondo giovanile più responsabile. Aldo Moro non fu seguito.

Giovanni Moro, quartogenito dello statista, rimarca che per gli italiani gli anni Settanta hanno comportato un passaggio epocale all’incrocio di molte speranze e di molte tempeste. Mentre emergevano nuove forme di cittadinanza e si manifestavano soggettività politiche autonome e originali, il paese tentava di affermare la democrazia dell’alternanza. Dinamiche di partecipazione e visioni di riforma parzialmente sconfitte, per un decennio che si chiudeva nella restaurazione e nella violenza. Giovanni Moro ci riporta a quegli anni oltre la dietrologia e il revisionismo, forme gemelle di arroganza del pensiero, come sono state definite, distinguendo tra storia, politica e vicenda giudiziaria. Sociologo, svolge attività di ricerca, formazione, dialogo culturale e consulenza sulla cittadinanza e sui temi ad essa connessi, quali l’attivismo civico nelle politiche pubbliche, le nuove forme di governance e la responsabilità d’impresa. Giovanni Moro è presidente di Fondaca dalla sua istituzione, nel 2001. Insegna Sociologia politica alla facoltà di Scienze della formazione dell’università di Roma Tre e dall’anno accademico 2011-12 è visiting professor alla facoltà di Scienze sociali dell’università Gregoriana di Roma.

Sul padre annota spesso che i fantasmi sono morti che non riposano in pace e che non lasciano in pace nemmeno i vivi, perché continuano a manifestarsi chiedendo loro di onorare un debito o di liberarli dalla maledizione che consiste proprio nel dover ritornare. Il più ovvio e ingombrante di questi fantasmi è quello di Aldo Moro, la cui presenza nella vita pubblica è una costante da allora.

In un’intervista pubblicata da la Repubblica il 14 marzo 1998, Giovanni Moro risponde a Silvana Mazzocchi che lo interpella sulla morte del padre: “La verità è un fenomeno complesso. È a strati. Abbiamo detto che si volle sventare un progetto politico, ma non basta essere d’accordo in tre o quattro, deve diventare la verità di tutti. Molti dicono che Moro era un simbolo. No, era il catalizzatore, per non dire il demiurgo di un’operazione politica. E l’hanno fermato per questo, altro che simbolo. Poi c’è una verità politica che riguarda il comportamento dei partiti. In particolare della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista, d’accordo nella decisione di darlo morto fin dal primo giorno. Ed è la questione principale, ancora tutta aperta. Se non si riconosce questo, se non si riflette su questo, non arriveremo mai veramente alla seconda Repubblica. Non c’è stata alcuna autocritica all’interno della Democrazia Cristiana sui comportamenti di allora, né c’è stata riflessione all’interno del mondo che all’epoca era il Partito Comunista”.

A quanto pare il presupposto di Giovanni Moro non ha trovato una soluzione. A distanza di tanti anni da quell’intervista si può dire che il fenomeno dell’autocritica non si è ancora impossessato dei partiti e non ha portato ad una riflessione sui comportamenti del passato, né tantomeno del presente. L’impegno di Giovanni Moro è attualmente volto al recupero delle energie civiche e all’applicazione del principio di sussidiarietà. L’esempio del padre viene ripreso perché possa essere soppesata una partecipazione attiva nel sistema pubblico, affinché si passi da una partecipazione rappresentativa, mediata dai partiti, ad una diretta, in cui i cittadini possano partecipare liberamente. Nella lettura specifica della società civile italiana, traspare la possibilità effettiva di avere un impatto sulla realtà perché le organizzazioni, specialmente associative, godono di fiducia maggiore rispetto all’apparato partitico. Maggiore è la fiducia pubblica, maggiore è la capacità di intervenire concretamente, minore l’incisività nella definizione delle politiche pubbliche, sostiene Giovanni Moro. Più che un problema con l’amministrazione questo è quindi un problema con la politica, che sancisce una bassa capacità di incidere sugli orientamenti generali. La democrazia partecipata è uno dei capisaldi del pensiero del quartogenito della famiglia Moro e della sua Fondaca. La partecipazione civile racchiude senz’altro una grande energia, oggi come negli anni Settanta, ma non ha trovato una corrispondenza nella realtà operativa del sistema partitico.

Fondaca è un think-tank europeo costituito nel 2001. La sua mission è incentrata sulla cittadinanza intesa come fenomeno plurale e multiforme, in cui hanno luogo e sono osservabili cruciali mutamenti dei sistemi democratici nelle società contemporanee, mutamenti caratterizzati da nuovi luoghi e modalità di costruzione delle identità collettive, da nuovi contenuti di diritti e doveri, da nuovi ruoli dei cittadini nella sfera pubblica. Di tutto ciò, il caso più emblematico è quello, appunto, dell’attivismo civico, ossia la presenza nella scena pubblica di una pluralità di organizzazioni che svolgono un ruolo di attori nel ciclo del policy making e che sono irriducibili alle forme tradizionali dell’associazionismo politico, di quello connesso al mondo della produzione e del lavoro e di quello tradizionale, a fini privati, della società civile.

Sul sito www.fondaca.org è riportato: “Connesso a questo cambiamento di ruolo è in atto un profondo mutamento dei rapporti tra i soggetti dell’arena pubblica e il proprio ambiente operativo, nel quale sono soprattutto i cittadini intesi come stakeholder a influire sulla definizione di priorità, a creare nuovi vincoli, a imporre modelli operativi che comportano una radicale ridefinizione della mission e delle operazioni di pubbliche amministrazioni, imprese private e organizzazioni di cittadinanza attiva. Un’altra focalizzazione riguarda i mutamenti in corso nei sistemi democratici, nei quali attori, sistemi di rappresentanza, luoghi e procedure di decisione e di messa in opera delle politiche, riflettono sempre meno gli standard delle democrazie basate sugli stati nazionali, dando luogo a nuovi rischi ma anche a opportunità inedite di innovazione e di sviluppo”.

Entra in ballo il principio di sussidiarietà che era stato auspicato da Aldo Moro come luogo di ricerca, formazione e divulgazione intorno ai temi culturali, sociali ed economici. Ciò che muoveva lo statista era l’interesse verso chiunque desiderasse cercare la verità e affermare la libertà in un’attivazione di collaborazioni multidisciplinari a livello nazionale e internazionale, che includesse la pubblica amministrazione, i diritti umani, la multiculturalità, l’educazione, l’istruzione, l’impresa sociale, l’economia, il lavoro, la cooperazione allo sviluppo. Ma Aldo Moro sapeva anche, da cattolico praticante, che ogni singola persona è irripetibile e la sua dignità è più grande di qualunque struttura pubblica e istituzionale. Le esigenze di verità e di giustizia non potevano essere sacrificate in ragione di un progetto politico, specie quando l’azione riguardava il mondo dei giovani e i loro fermenti, le loro inquietudini. Quei giovani che Moro conosceva, che trovava intelligenti, sensibili, quindi da ascoltare con attenzione per quel rinnovamento interiore che sapevano trasmettere. Questa coscienza di verità e di giustizia, di bene comune, era per lui un fattore di pace e di sviluppo. Era e rimane ancora il principio che consegue alla centralità della persona di agire criticamente seguendo le esperienze in atto. Ecco che la cultura si connetteva al principio di sussidiarietà perché muoveva dal confronto e non da costruzioni ideologiche precostituite, inamovibili. Moro riconosceva l’importanza del dialogo e del pluralismo.

Tolleranza, dedizione, solidarietà per bilanciare ogni spinta distruttiva, ogni ingiusta contestazione e ogni velleità portata avanti con l’uso della violenza. Aldo Moro malgrado tutto, tesseva la file per unire la nostra storia con quella di altri paesi, per un intento di pace al riparo da ogni minaccia alla sicurezza, tanto che parlò spesso del bisogno di cooperazione e di una via della distensione in campo mondiale. Ricordava che l’Italia doveva farsi promotrice di questa distensione, di un contenuto nuovo e più sostanzioso, per i giovani e con i giovani. Perché non c’è mai un popolo che fa la storia e un altro che la subisce, per cui tutti erano chiamati alla cooperazione per la risoluzione dei gravi problemi del mondo. Guardava oltre i confini nazionali in un clima di fiducia, di impegno e di benessere comunitario, dall’Europa all’America, scavalcando il comunismo stesso, il grande nemico della civiltà occidentale, per una volontà protesa ad includere innanzitutto le coscienze comuni. Bisognava colmare le distanze tra i paesi più sviluppati e quello rimasti più indietro, in vista di un benessere legittimo e razionale, così come doveva accadere in Italia tra il settentrione e il Mezzogiorno.

Moro disse a Udine, durante un incontro pubblico preparatorio al Congresso della Democrazia Cristiana, il 13 aprile 1969: “Il crescere rigoglioso, e sempre più rapido negli ultimi tempi, della società civile, la più larga rivendicazione di diritti e poteri di decisione, l’affermarsi della persona umana con tutta la sua dignità, la più ampia sfera di autonomia riservata alla società la quale condiziona incisivamente il potere politico, sono tutti fenomeni caratterizzanti della nostra epoca. Essi toccano da vicino il modo di fare politica, interpretando e soddisfacendo i bisogni della società. Oggi la radice delle opportune soluzioni si trova piuttosto alla base che non al vertice del potere e dal basso sale non soltanto l’esigenza, ma anche un’articolata ed autorevole proposta di assetto sociale, benché essa debba essere collocata in un quadro generale di rapporti e di equilibri. È una forza enorme dunque che si sprigiona da una società, non solo capace di premere sul potere, ma in un certo senso, e realmente, di parteciparvi. E’ una più vigorosa iniziativa ed un serio, effettivo controllo. È un ricorso più stringato e condizionato alla delega per i compiti di governo. È insieme una più alta responsabilità, anche se non del tutto avvertita, che ricade su tutti e non su alcuni soltanto. Chi vorrebbe, chi potrebbe rinunciare al significato profondo di questo risveglio della coscienza, di questo allargarsi degli orizzonti della democrazia che si fa, se non esclusivamente, più largamente diretta e perciò universale e vera? Questo processo, che è proprio del nostro tempo, è dunque irreversibile nella logica della storia. E parimenti l’immissione di una carica giovanile, ormai determinante, nella vita sociale e politica non può essere né ritardata né sterilizzata”.

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Torno all’omicidio Moro, perché è evidente che il presente nella memoria costituisce il fondamento del caso irrisolto all’ombra del processo innovativo e pacificatore dello statista. Mario Moretti è una nube che si sposta come l’aria. Lo stesso mi dicono di Balzerani, Braghetti, Bonisoli, Faranda, Fiore, Maccari, Morucci e Seghetti. L’Italia è questa: le fonti di informazione vengono spesso precluse. Anche i delinquenti non parlano, eppure scrivono libri. Anche un archivio può essere inaccessibile, eppure qualcuno ci lavora. Tutto può essere bloccato o frainteso, anche quando è lapalissiano. Ma del resto la verità, se è cruda e tremenda, diventa perfino invisibile.

“Se papà tornasse vivo lo ucciderebbero ancora”: è tremenda la considerazione di Maria Fida Moro letta più volte, per la quale, però, c’è una legge del cielo che azzera l’impunità. Il mio tavolo di lavoro è intonso di volumi e carte. Maria Fida difende il padre, quando la chiamo al telefono. Lucida e razionale, affila le armi contro la giustizia conclamata. La spada contro la ragione di stato. I piccoli occhi mortali sono i suoi, adesso. Luminosi, fermi. Occhi che vedono tutto, anche dietro di sé. Occhi che non si spengono, che accendono una luce di speranza, di fiducia. Nessuna illusione, ma una presa di coscienza inflessibile. Non si tratta di una morte definitiva, ma di qualcosa che si muove ancora nel suo insieme, nell’indicibile. Maria Fida apre un ciclo di risonanze per una persona cara: non per l’incombente padre che non c’è più, ma per la solennità. La fedeltà al pensiero è un presentimento, un invito. Ecco quindi che le immagini di Aldo Moro possono riprodurre il sangue, il corpo, il sapore gradevole dell’immedesimazione. Il trasferimento di sé proiettato sul padre è un elemento consapevole, razionale. Siamo di fronte ad una realtà-pensiero incisiva, raffinata, che risucchia la fine e consente la riproduzione ideale della vita. L’affermazione di Maria Fida è un coniugare il tempo del ricordo, mai in un’estraneità dolorosa del passato, mai in una compartecipazione come tormento. Il senso della perdita è uno dei tanti riferimenti: il tempo dissipa le cose e sembra interessare sempre di meno. Proprio perché non figura alcun sentimento nostalgico, alcuna malinconia, ma una coscienza nitida. In definitiva ogni ricostruzione è quella di un’identità in metamorfosi. Il contro bilanciamento si consolida nel travaso da un’esperienza all’altra, da un particolare ad un generale. Nessuna esigenza confessionale fa parte dell’intenzione di Maria Fida Moro: nella sua centrifuga ha messo al centro un acume percettivo privo di intellettualismi.

Moro diceva ai giovani che se gli avessero dato un milione di voti e tolto un atomo di verità, sarebbe stato sempre perdente. Nel nostro tempo c’è come una specie di abitudine maledetta per la quale l’apparire conta più di qualunque parola, di qualunque libro, di qualunque qualifica, di qualunque storia. L’Italia soffre di una male incorreggibile: la dissipazione consuetudinaria. Disperdiamo e dilapidiamo, volontariamente, colpevolmente. Dobbiamo evitarlo, specie ora che i giovani lo chiedono con la protesta, in una situazione politica, economica e occupazionale estremamente difficile. Solo il secondo dopoguerra ha messo di fronte alla necessità di ricostruire in tempi di recessione, di stallo, di fame. Questo, invece, è il tempo del disagio e dello smarrimento. L’insegnamento di Aldo Moro è contro ogni iniquità e ingiustizia sociale. Contro ogni prevaricazione e malversazione.

Domenica 4 agosto 2013, nell’editoriale sul Corriere della Sera, Ernesto Galli della Loggia scrive: “Ci mancano energie, idee, donne e uomini nuovi. Non per nulla, nell’assenza di qualunque soluzione audacemente imprevedibile, di una qualsivoglia inedita, valida vocazione collettiva e personale, e stante l’incapacità sempre più clamorosa dei partiti di essere qualcosa di diverso dal passato, non ci è restato altro, per fare comunque qualcosa di fronte all’emergenza, che ricorrere all’union sacrée di tutto il vecchio. A una versione aggiornata delle convergenze parallele. La verità è che siamo un paese politicamente stanco, sfibrato, il quale troppo a lungo invece di guardare avanti si è perso nei reciproci risentimenti e nella recriminazione universale”.

La scossa del cuore consente di sviluppare un credo che non sarà mai sconfessato, ma anzi setacciato e rastremato di input perché il passato sia presente, un vaso comunicante. Si guarda al mondo travalicando la propria immaginazione a difesa della fatalità che prende corpo dal male della cronaca, dalla degenerazione. La storia è sdegno, è la condizione comune delle colpe e dei rancori, la tragicità nei ritmi sincopati di un uomo, scomposta nella sua angosciosa fine. Il rituale evocativo corrisponde ad un ennesimo annuncio, ad un’ennesima alba. Rimane la necessità di comunicare, di conversare, di ritagliare una conoscenza consapevole.

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È come se vedessi un’immagine sempre in movimento, che non si ferma mai. Aldo Moro cammina, cammina. È pacato, ben vestito. Nel sogno di molti italiani diventa il Presidente delle Repubblica. È il mese di giugno 1978. È un trionfo. Il governo delle larghe convergenze, di solidarietà nazionale è stato attuato. I comunisti sono seduti sugli scranni più alti dell’esecutivo. Moro resterà il capo dello Stato fino alla caduta del Muro di Berlino e oltre.

Scrisse Leonardo Sciascia nella prefazione al libro La casa dei cento natali di Maria Fida Moro (Rizzoli 1982): “Sarebbe bastata un po’ di attenzione alle lettere che venivano dalla prigione del popolo e ai comunicati delle Brigate Rosse per accorgersi che Moro continuava ad essere se stesso; un’attenzione che muovesse però dalla buona fede e che, con una certa sensibilità ed acutezza (non una grande sensibilità, non una grande acutezza), separasse il grano dal loglio: le parole essenziali dalle superflue, nelle lettere di Moro; le spavalde menzogne dalla verità che nascondevano, nei comunicati delle Brigate Rosse. Ma appunto mancando la buona fede quest’attenzione è mancata. Una lettura delle lettere di Moro sotto il segno della coerenza, della dignità e del coraggio che i suoi carcerieri gli riconobbero, è ancora da farsi; così come è da spiegarsi la ragione per cui le Brigate Rosse, che dicevano di volere la trattativa, lo scambio, si siano scagliate contro il solo partito che sosteneva la necessità di trattare e di accedere allo scambio e abbiano stroncato questa possibilità, con l’assassinio dell’ostaggio, proprio nel momento in cui l’opinione di trattare dal Partito Socialista si allargava a una parte della Democrazia Cristiana. Ma è un discorso che abbiamo già tentato di fare, che rifaremo, che sarà fatto e rifatto nella storia di questi travagliati anni del nostro paese. Qui ed ora, di fronte al ricordo del Moro familiare scritto dalla figlia Maria Fida, possiamo dire che non ci sono scarti tra il Moro della vita di ogni giorno in famiglia, tra il Moro docente di diritto, tra il Moro uomo politico e il Moro prigioniero delle Brigate Rosse”.

Leonardo Sciascia accenna alla trattativa mancata, o meglio declinata. Prende in esame il linguaggio di Moro, le parole definite essenziali. Ma soprattutto anticipa il rischio di quando scrisse il libro: la dimenticanza della persona, dell’uomo fuori da quei 55 giorni. La linfa vitale, quella che non può restare fuori dalla società.

Si può parlare di pacificazione in Italia, quando imperversa lo scontro tra la politica famelica e la magistratura censurata, quando i poteri dello Stato non sono solo affrontati con toni fuori luogo, ma addirittura vilipesi? Si può parlare di pacificazione, quando avanza una sorta di referendum sulla possibilità di applicare una legge ad personam a chi è stato condannato dopo tre gradi di giudizio? E cosa dire, nel 2018, di un governo di larghe intese, diviso tutti i giorni tra falchi e colombe, appeso ad un filo anche d’estate, alla libertà e alla salvezza dei diritti politici di uno dei suoi leader?

Gli italiani non credono più alla politica e ai partiti, quindi dimostrano impassibilità, sterilità. Sono stanchi. Votano, ma senza più convinzione. Sale la protesta verso un sistema vecchio, logoro, non rassicurante. Come cambiare, come dare una svolta drastica per ripristinare almeno l’autorità dello Stato e di chi dovrebbe salvaguardare le sue manifestazioni più alte? Non si può essere statisti ed attaccare il potere. Non si può essere parlamentari e accanirsi contro la magistratura. Non serve neppure chiedersi cosa avrebbe detto oggi Aldo Moro, perché siamo arrivati ad un punto di non ritorno, stando allo spirito di pace, di conquista di una nuova civiltà alle quali alludeva l’ex leader democristiano. L’annuncio evangelico rasserenava, equilibrava, pacificava per la straordinaria necessità, nella condizione umana, di conquistare il bene, in quel progetto equilibratore. I personalismi sono sempre contro questo bene comune, come lo sono le fazioni sempre più astiose e sempre più legate ad interessi di parte. Moro sosteneva che eravamo lontani dalla pace per mancanza di intelligenza, senza se e senza ma. Non è forse vero che l’Italia politica di oggi soffre tremendamente la decrescita umana della sua classe dirigente, prima ancora che la mancanza di professionalità e competenze? Non è forse vero che i colonnelli di questo o di quel partito, nella società videocratica e dell’apparenza hanno perso di vista le richieste, le necessità improrogabili dell’uomo, del cittadino?

Moro parlava già da martire, quando era ragazzo. Per fare qualcosa di grande e di buono, e perciò di duraturo, occorreva saper pagare di persona, divenendo attori e partecipi del dramma. Chi fa più riferimento al dramma umano, nel 2018, per un disegno politico superiore? Chi sa coniugare la partecipazione al dolore? La partecipazione politica sembra essere partecipazione ad uno pseudo spettacolo, quindi ai tornaconti esibiti, ai ruoli assegnati in una commedia. La politica dell’io ha sostituito il bisogno stringente della comunità. Moro citava la redenzione dell’uomo. Chi usa più questa parola nell’agire del governo italiano, da trent’anni a questa parte? La storia è deludente e scoraggiante perché non vi è alcun annuncio, direbbe il martire della Repubblica. Forse, nient’altro che questo. E reciterebbe un atto di dolore per il popolo italiano, per tutti.

Dov’è andato a finire il compimento della democrazia, della convivenza civile di tutti i soggetti sociali e di tutte le culture? La prospettiva sostanzialista di Moro prevedeva un progetto di convergenza sociale, non solo politica, dell’Italia. Il fallimento è totale ed ha travolto anche le coscienze, i valori supremi. Manca proprio una formula di coesistenza delle masse, prima ancora che dei partiti politici. Ad una legge elettorale da modificare, fa da sponda una legge morale evanescente, soppiantata dalla disonestà intellettuale. Sono cambiati i costumi e le usanze. Di male in peggio. L’Italia non ha più un contegno, non ha più una reazione, un sussulto, perché è venuta a mancare l’etica pubblica. Non c’è vigore, non c’è anima, ma il diffondersi di un progressivo disincanto e di una rassegnazione indifferente. L’Italia è morta nella sua costruzione, nella sua modernizzazione, nella sua sopravvivenza. Quale futuro?

Scrisse Moro il 13 marzo 1969 in Frammento della memoria per un dialogo sull’Italia e gli italiani, testo pubblicato nel sito www.accademiaaldomoro.org: “Lo Stato democratico, lo Stato del valore umano, lo Stato fondato sul prestigio di ogni uomo e che garantisce il prestigio di ogni uomo, è uno Stato nel quale ogni azione è sottratta all’arbitrio e alla prepotenza, in cui ogni sfera di interesse e di potere obbedisce ad una rigida delimitazione di giustizia, ad un criterio obiettivo e per sua natura liberatore; è uno Stato in cui lo stesso potere pubblico ha la forma, la misura e il limite della legge, e la legge, come disposizione generale, è un atto di chiarezza, è assunzione di responsabilità, è un impegno generale ed uguale. Nelle leggi perciò è sempre in qualche modo un principio di riconoscimento delle esigenza generali, ed in esse dei diritti dell’uomo e del suo posto nella vita sociale. Ma nella legge di uno Stato democratico c’è in più il processo di libertà che l’ha generata, per il dibattito da cui nasce, per la mediata e conquistata prevalenza di opinioni che la caratterizza, per la rispondenza a finalità umane, per la rispettosa adesione alla causa progressiva ed inesauribile della liberazione dell’uomo. Essa ha in sé in sommo grado il diritto di tutti, il valore di tutti, un principio obiettivo, una funzione liberatrice ed assicuratrice. E’ il regno del diritto come sottrazione all’arbitrio e al casuale, del diritto giusto che costituisce il valore, realizza la libertà. Libertà di pensare, di muoversi, di fare, di progettare; libertà d’iniziativa in ogni ordine; potere di assumere la propria responsabilità nella vita sociale in un ordine obiettivo”.

Aldo Moro credeva in una società in movimento, critica, capace di analizzare i problemi con scrupolo. Rivendicava la capacità di trovare in se stessa, il più largamente possibile, la sua guida. Si augurava la nascita di centri di proposta, di decisione e di controllo. Esigeva di partecipare, non una volta tanto, ma dal principio alla fine, ad ogni deliberazione. Invocava l’applicazione di una legge morale tale da esaltare la libertà e la dignità e da rendere possibile, inevitabile una svolta storica verso una società di eguali, una autentica e universale democrazia. Sapeva che l’Italia era un paese disarmonico ma non si arrendeva, perché il progresso istituzionale l’avrebbe portata fuori dalle secche, se seguito da un impegno civile e morale dei rappresentanti politici. Parlava, non a caso, di progresso istituzionale al fianco della capacità realizzatrice della gente comune.

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Manca la visita ai punti cardinali del caso durante i 55 giorni di prigionia, le vie, le strade, gli appartamenti. Il desiderio di Maria Fida è che il ricordo del padre, cristallino, non si dissolva in una nebulosa nello spazio, affinché la gente continui a volergli bene, semplicemente. È il minimo che si possa chiedere, da parte di una figlia. Per un politico, per qualunque osservatore, è basilare sapere che Aldo Moro riconosceva la democrazia non soltanto nella regia della maggioranza, ma nel regime del rapporto necessario, della garanzia permanente di esistenza e funzionalità, ciascuna nel proprio ambito, di una maggioranza e di una minoranza. Bisognava che la maggioranza potesse orientare, dirigere, prendere iniziative e decisioni e che la minoranza potesse con forza e sicurezza operare, secondo la sua funzione di controllo, proporre alternative, permettere eventuali mutamenti nell’orientamento del paese.

Conta l’immaterialità delle cose: la parola si può salvare, solo la parola, nella memoria e quindi nel presente. Questa parola, per dirla con Pier Paolo Pasolini e Leonardo Sciascia, è “adorabile”. A cominciare dalla scuola. Il problema della scuola, per Moro, era più di uomini che di ordinamenti. La scuola andava umanizzata, rendendone il rapporto di insegnamento, ufficiale e non ufficiale, umano, di amicizia nel senso più alto e nobile della parola, nel quale riuscisse, fecondo, per la formazione della personalità, anche il più particolare apprendimento e venisse messa in luce la profonda umanità della scienza. Così lo studio stesso sarebbe apparso caldo di vita, fatto che riguarda il profondo io del giovane. Se il giovane non studiava, per Moro, era perché non sentiva lo studio come cosa sua, centrale, appassionante. Andava dunque aiutato dal maestro per cogliere il senso umano, se il maestro era capace di scendere spiritualmente, e qualche volta materialmente, dalla sua cattedra, per farsi vicino al giovane. Aldo Moro sembra rivolgersi proprio ai giovani, come ogni effetto del dialogo per una società migliore, per un domani più eterogeneo nella proposta e nella condivisione. Farlo uscire da quella Renault 4, come dice Maria Fida, significa devolvergli intelligenza, fedeltà, meditazione e studio.

Aveva ragione Leonardo Sciascia, quando nel suo L’affaire Moro (Sellerio 1978) constatava: “Nella prigione del popolo Moro ha visto la libertà in pericolo e ha capito da dove il pericolo viene e da chi e come è portato. Forse se ne è riconosciuto anche lui portatore: come di certi contagi che alcuni portano senza ammalarsene. Da ciò la sua ansietà di uscire dalla prigione del popolo: per comunicare quello che ha capito, quello che ormai sa”.

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Ho detto a Maria Fida Moro che andrò vedere i posti dei 55 giorni. Non mi ha risposto, perché si acuisce il suo dolore, quando si parla del sequestro.

E se suo padre fosse stato detenuto anche in altre prigioni del popolo e non solo in una? Che certezza abbiamo che lo abbiano condotto immediatamente in via Moltalcini e che ce lo abbiano tenuto per tutti quei giorni? E se Moro fosse stato anche in via Gradoli, dove adesso sembra che i covi siano risultati due se non tre, all’interno di una palazzina in dotazione quasi esclusivamente ai servizi segreti e della quale era fiduciario Domenico Catracchia del Sisde, peraltro amministratore unico e a capo di un’immobiliare? E se ci fosse stata un’altra prigione del popolo tenuta nascosta anche dopo i rilevamenti delle forze dell’ordine in una via di Roma mai setacciata dagli inquirenti e ancora sconosciuta, dopo decenni, anche se visibile, scandagliabile da chiunque volesse farlo?

In via Gradoli si nascondeva il capo delle Brigate Rosse, Mario Moretti, e questa via è tornata alla ribalta con il caso Piero Marrazzo nel 2009, con una vicenda di estorsione a danno dell’allora Governatore del Lazio da parte di quattro appartenenti all’arma dei Carabinieri. Due persone legate alla vicenda sono morte in circostanze non ancora del tutto chiarite e il Governatore è stato costretto a rassegnare le dimissioni. Da un covo di brigatisti, di esponenti dei servizi segreti, perfino di latitanti, a quanto pare, ad un alveare di transessuali. La Roma che non ti aspetti, la Roma degli intrighi e dei misteri.

So che l’asfalto è rimasto lo stesso del 1978, pieno di buche e malmesso in più punti. Per il resto, via Gradoli, simbolo cupo degli anni di Moro, è ormai una via di conflitti tra seminterrati ceduti in nero non si sa bene a chi, e cubature gravate dall’Ici in un’area residenziale. La procura ha aperto un’inchiesta. La strada, a quanto risulta, è tra le più trafficate dai fornitori di bombole a gas. E nel 2009, come se non bastasse, vi fu proprio un’esplosione di gas. Maria Fida mi ha detto che tutti gli alberi, dopo la strage di via Fani e dopo la scoperta del covo di via Gradoli, si sono seccati. Ci è voluto del tempo prima che la vegetazione ricrescesse. Via Fani e via Gradoli dimostrano che anche le cose hanno un’anima.

La storia di Aldo Moro è anche una storia di anima, di anime. Una storia che travalica dalla politica non solo perché si conclude con la morte, ma perché la verità interiore dello statista risulta il punto più alto del suo messaggio politico. Moro sa ancora parlare al cuore della gente, e il suo presente nella memoria indica che la persona è il fulcro di una struttura, mai il contrario. La stessa legge è per la persona, come detto da Papa Francesco.

 Alessandro Moscè

(continua)

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