09 Gennaio 2020

“È necessario, è un imperativo, che legga Rabbi Heschel”. Un dono di Cristina Campo

Ammissione di idiozia: non l’avevo sentito prima. Mi sorprende, come sempre, la perentorietà di Cristina Campo. In una lettera del febbraio 1970 ad Alejandra Pizarnik (raspo dal consueto manipolo di straordinari inediti). “Ho qualcosa di molto urgente da dirLe: è necessario, è un imperativo, che legga i libri del Rabbi Abraham Joshua Heschel, un mistico di pura tradizione chassidica che ho conosciuto in circostanze straordinarie (era qui un anno fa). Credo che una grande ricchezza e una grande gioia L’attendano in queste pagine”. Mi sorprende, appunto, la parola urgente, la parola imperativo.

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La Campo continua. “La cosa straordinaria in Rabbi Heschel… è che ognuno vi trova ciò che è destinato a lui… Credo che Rabbi H. sia uno dei 10 giusti sopravvissuti al disastro di Sodoma: quelli che, un giorno, si dovranno riunire dai quattro punti cardinali per salvare le tradizioni minacciate, poiché ‘tutte lo sono’. Fu lui a dirmi quest’ultima parola, supplicandomi di scrivere sulla mia”. Quell’anno, il 1970, la Campo firma una introduzione a un libro di Abraham Joshua Heschel, L’uomo non è solo, per Rusconi. Il testo ha una brillante ferocia, fin dalle prime righe: “Heschel colpisce al primo sguardo per quello che i giapponesi definirebbero un classico portamento hara. Centrato sulla verticalità psichica che regge tutta la persona, eretto e abbandonato insieme, riposante perfettamente in se stesso. La stessa virtù desueta emana dai suoi libri. Noi ci muoviamo oggi in un orbe intellettuale di larve barcollanti, rotolanti da una nell’altra ideologia, da uno nell’altro inganno, meretricio, delirio. È ragionevole che, in un simile contesto, quasi atterrisca l’apparizione dell’uomo la cui mente – ma assai di più, la cui vita intera – ruota, in ardente quietudine, intorno a un centro”.

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Per la Campo la lettura e la letteratura hanno senso se inducono a un salto, se comportano il rigetto o la resa – il diletto è il delitto degli ignavi. Per la Campo, la forma – la scelta dello stile, l’ascesi estetica, la liturgia letteraria – equivale alla statura del contenuto. “Per un lettore cresciuto nei libri del secolo, l’incontro con Heschel è senza dubbio un seguito di percosse mentali dalle quali si rialzerà malamente se non avrà scelto tra l’uno o l’altro dei sentimenti spiritualmente decisivi: la rivolta o la contrizione” (il testo si trova stipato in Sotto falso nome, Adelphi, 1998).

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Faccia rabbinica, Heschel nasce l’11 gennaio del 1907 a Varsavia, discendente di alcuni dei più venerati maestri chassidim, dotato di genio precocissimo. Morirà a New York, due giorni prima del Natale del 1972, come uno dei classici personaggi di un racconto ambiguo di Isaac B. Singer o di un romanzo devoto di Chaim Potok. In mezzo, i lavori dentro la tradizione qabbalistica, lo studio di Maimonide, il riconoscimento di Martin Buber, che lo elegge a erede – e che lui supera –, la fuga, trentenne, negli Stati Uniti mentre i tedeschi invadono la Polonia. Procedo a informarmi. I testi di Heschel approdano in Italia grazie a Elémire Zolla, che scrive di lui nel primo numero di “Conoscenza religiosa” (gennaio-marzo, 1969). “Abraham J. Heschel insegna… la fuga dallo spazio, dove tutto è diviso e dove spadroneggia la volontà del più forte, per raggiungere un tempo consacrato… Il mistico, rammenta Heschel, insegna l’arte del risveglio. Quest’arte va impartita non con le ambigue e opache parole d’ogni giorno, bensì con la forma stessa del risveglio, con lo stile di chi pone un’attenzione intensissima, di piena veglia alle parole che pronuncia o traccia… La qualità estetica è la riprova della veridicità, il timbro testimonia del significato”. Proprio quel tempo consacrato mi affascina – e in quell’arte del risveglio rintraccio una pratica letteraria, una regola.

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Recentemente, con prefazione di Luca Siniscalco, l’editore Iduna ha ristampato Passione di verità di Heschel (già Rusconi, 1977); Garzanti ristampa Il Sabato. Il suo significato per l’uomo moderno. Qui traggo una antologia di brani da Chi è l’uomo (1965; tradotto da Lisa Mortara e Elèna Mortara di Veroli per Rusconi, nel 1971, ripreso da SE nel 2005). Le smagliature nell’oggi sono dichiarate con franchezza, con gli acuti di chi vive in questo mondo respirando l’altro – non semplicemente, aspirandovi – e insegna a rendere il giorno una fiamma. (d.b.)

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Essere uomini è una cosa sempre nuova, non una mera ripetizione o un prolungamento del passato, ma un’anticipazione di cose a venire. Essere uomini è una sorpresa, non una conclusione scontata. La persona umana ha la capacità di creare eventi. Ogni individuo è una scoperta, un esemplare unico. L’essere umano non ha soltanto un corpo, ma anche un volto. E un volto non può essere trapiantato o scambiato. Un volto è un messaggio spesso all’insaputa della stessa persona. Non è forse il volto umano un insieme vivente di mistero e significato? Tutti lo vediamo e nessuno riesce a descriverlo. Non è forse un miracolo che tra infiniti volti non ve ne siano due uguali? E che nessun volto rimanga perfettamente uguale per più di un istante? Chi può guardare un volto come se fosse una cosa ovvia?

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Essere uomini significa essere sensibili al sacro. Le cose considerate sacre possono variare da luogo a luogo, ma la sensibilità di fronte al sacro è universale. L’accettazione del sacro è un paradosso esistenziale: è dire a un no; è l’antitesi della volontà di potenza. Un’affermazione che può contraddire gli interessi e frustrare gli impulsi più profondi.

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L’uomo è debole e incongruo, con tutte le sue brame, con le sue deboli luci nella foschia. Il suo desiderio di essere buono potrà guarire le ferite della sua anima, la sua ansia, la sua frustrazione? È troppo evidente che la sua volontà è la porta di una casa intimamente lacerata, che le sue buone intenzioni approderanno al fango della vanità, come l’orizzonte della sua vita un giorno approderà alla sua tomba. La disperazione, il senso di inutilità del vivere, sono sentimenti la cui esistenza nessun psicologo vorrà mettere in dubbio. Ma altrettanto presente e reale è il terrore della disperazione, dell’inutilità. La vita umana e la disperazione appaiono incompatibili. L’uomo è un essere che cerca l’essere significativo, il significato ultimo dell’esistenza.

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Alla consapevolezza del significato trascendente si giunge attraverso il senso dell’ineffabile. La prova della sua evidenza sta nell’imperativo del timore reverenziale, una reazione universale che avvertiamo non perché lo vogliamo, ma perché rimaniamo storditi e non riusciamo ad affrontare l’urto con il sublime. È un significato avvolto nel mistero.

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L’ancora del significato è posata in un abisso così profondo che neppure la disperazione riesce a giungervi. Eppure, l’abisso non è infinito: il suo fondo può improvvisamente essere scoperto nei confini di un cuore umano o tra le macerie di potenti dubbi. Questa deve essere la vocazione dell’uomo: dire amen all’essere e all’Autore dell’essere; vivere nel rifiuto dell’assurdo, malgrado ogni inutilità, ogni sconfitta; pervenire alla fede di Dio anche malgrado Dio.

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Il mondo mi si presenta in due modi: come una cosa che posseggo e come un mistero che mi sta di fronte. Ciò che posseggo è un’inezia, mentre ciò che mi sta di fronte è sublime. Mi curo di non dissipare ciò che posseggo, ma devo imparare a non perdere ciò che mi sta di fronte. Noi manipoliamo ciò che è disponibile, ma dobbiamo imparare a sostare in uno stato di riverenza dinanzi al suo mistero. Noi oggettiviamo l’Essere, ma siamo anche presenti all’Essere in uno stato di meraviglia e di assoluto stupore. Tutto quel che realmente possediamo è il senso di timore reverenziale e di assoluto stupore di fronte a un mistero che fa vacillare la nostra capacità di percepirlo.

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La vita umana è estremamente banale, comune. La relazione dell’agire, gli stereotipi del parlare ci privano della dignità del vivere. La nostra capacità di conferire una forma al nostro essere dipende dalla nostra capacità di comprendere la singolarità del vivere umano. Non esiste alcuna garanzia di realizzare un’esistenza significativa. È errato credere che l’essere significativo si possa acquisire inavvertitamente, è uno sbaglio lasciar consumare le ore nella speranza di giungere alle mete della vita. La vita è una battaglia per il significato, che si può perdere o vincere, totalmente o in parte. La posta in gioco può esser persa totalmente.

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L’uomo viene sfidato senza scampo, profondamente, a tutti i livelli della sua esistenza. È proprio nell’essere sfidato che si scopre essere umano. Esisto come essere umano? La mia risposta è: Sono comandato: perciò sono. Vi è un innato senso di debito nella coscienza dell’uomo, la certezza di dovere gratitudine, di essere sollecitati a contraccambiare, a rispondere, a vivere in un modo che sia compatibile con la grandezza e con il mistero del vivere.

Abraham Joshua Heschel

Gruppo MAGOG