30 Novembre 2018

Hermann Hesse: genio solitario o pappa per pallidi adolescenti?

Il fatto fu semplice, canonico, per così, ma io non mi stanco di ritenerlo squallido. Accadde vent’anni fa, pressappoco, era l’anno della maturità e mi ero innamorato della ragazza del mio migliore amico. Lei, drammaticamente, ricambiava. All’amico volevo un bene dell’anima, da dare la vita, ma all’infatuazione non si comanda. Lei mi regalò un libro, a congedo della relazione, scabra, scrivendomi, “siamo entrambi figli di Caino”. Il libro era Demian, edizione ‘Superclassici’ Rizzoli, traduzione di Francesco Puglioli, del 1995. Il libro – che l’anno prossimo compirà 100 anni – non mi piacque, ma apprezzai l’ardore dell’autore, Hermann Hesse. “Io sono stato un uomo che cerca, e ancor oggi lo sono, però non cero più sopra le stelle e dentro i libri, imparo ad ascoltare gli insegnamenti che il mio sangue mi mormora… La vita di ogni uomo è un cammino verso se stesso, la ricerca di un cammino, la traccia di un sentiero. Mai nessun uomo è stato in tutto e per tutto se stesso; ognuno lotta comunque per diventarlo, uno cupamente, l’altro più luminosamente, ognuno come può”. Mi sembra, ancora, una delle pagine migliori per capire Hesse, la sua perenne adolescenza.

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Secondo fatto. Amo le fotografie di Marco Pesaresi – il fotografo dell’oltranza, della gioia e della tenebra, morto tragicamente nel 2001 – e sono un figliastro della sua mamma, l’indomita Isa Perazzini. Nella biblioteca di Pesaresi, tra un Tolstoj, un Byron, un Dino Campana e un Dominique Lapierre, vedo un libro di Hermann Hesse. Una raccolta di testi sull’arte del viaggiare, di reportage, pubblicati da Mondadori nel 1993 come Il viandante, per la traduzione di Fernando Solinas. “Chi non si vede costretto a risparmiare denaro e tempo e ha voglia di viaggiare, dovrebbe sentire come necessità inderogabile quella di appropriarsi spiritualmente, pezzo per pezzo, dei paesi che affascinano i propri occhi e il proprio cuore, e conquistarsi un frammento di mondo imparando a conoscerlo e a gustarlo lentamente, mettere radici in molti paesi diversi e raccogliere da oriente a occidente le pietre per costruire il bell’edificio di una vasta comprensione della terra e della sua vita”. Hermann Hesse è un uomo in rivolta senza i dolori archetipici di Albert Camus, vive la solarità, sta sul crinale, tra concetti atrocemente banali e la dolcezza della persuasione.

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HesseE tre. In una intervista che gli ho fatto di recente, Stefano Massini, scrittore di teatro tra i più riconosciuti, mi dice che Il giuoco delle perle di vetro è uno dei suoi libri preferiti. È d’accordo con lui anche Philip Hensher, firma dello Spectator, che in un articolo piuttosto appuntito e puntuale – “Hermann the Good German: the mystic life of Hermann Hesse” – riconosce che Il giuoco delle perle di vetro “scritto durante il dominio nazista, è il suo miglior libro, è straordinario, una delle poche utopie rasserenanti della letteratura, un idillio intellettuale in una atmosfera unica”. Secondo me – parere di viandante letterario – Il giuoco delle perle di vetro – che trovate nella versione Mondadori dell’immenso Ervinio Pocar – simboleggia i difetti di Hesse. L’idea è perfetta, il titolo magnetico, il simbolo del gioco e della regione astratta, di intelletti astrali, Castalia, pure. La resa è inesauribilmente imperfetta: il libro è troppo lungo, troppo filosofico, troppo sfilacciato (leggetelo in contrasto al perfetto Maestro di Go di Yasunari Kawabata).

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Gli esempi servono a convalidare un giudizio. Hermann Hesse, baciato dalla buona sorte – spedito in una azienda di orologi, poi in una libreria, a Basilea, scrive nel tempo libero Peter Camenzind, pubblico nel 1904, che diventa subito un bestseller – dotato di un talento schietto, è costantemente amato, da tipi diversi in tempi diversi.

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In seguito alla pubblicazione, da parte della Harvard University Press, della biografia Hesse. The Wanderer and His Shadow, a firma di Gunnar Decker, ‘hessologo’ e Lancillotto del genere biografico – ha scritto di Gottfried Benn, di Vincent Van Gogh, di San Francesco – nel mondo anglofono si è riacceso il dibattito intorno a Hesse: mago del narrare, genio solitario o autore mediocre da dare in pappa, semmai, ai liceali?

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Domanda del non udente: ma cosa interessa, oltreoceano, del tedesco Hesse? Risposta: Timothy Leary, ideologo della psicadelia e del sessantottismo lisergico, ha fatto di Siddharta (1922) e de Il lupo della steppa (1927), la sua Bibbia e il suo Vangelo. Hesse ariete che aprì i bastioni del Sessantotto? Il pio viandante ebbe cura di dire, prima di passare ad altra vita, nel 1962, “mi inquieta ciò che fanno dire ai miei libri”.

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HesseHermann Hesse, in fondo, non piaceva a nessuno. Robert Musil lo riteneva rozzo, Thomas Mann, che pure lo aveva supportato per anni, non si esprimeva in pubblico riguardo al suo talento letterario. Durante il periodo nazista Hesse disse ciò che andava detto (“è dovere dei tipi spirituali restare prossimi allo spirito e non cantare quando la gente inizia a canticchiare le canzoni patriottiche sotto il comando dei leader”), non disse altro (“L’antifascismo? Cosa c’entra con me? Io non posso cambiare nulla. Posso offrire un piccolo aiuto a chi, come me, vuole indebolire l’intero sudicio mercanteggio della lotta per il potere e per la supremazia politica”) e al Nobel per la letteratura – era il 1946 – che non andò a ritirare di persona, inviò una lettera di vacua ovvietà, “La diversità in tutte le sue forme e i suoi colori può vivere a lungo su questa nostra cara terra. Che cosa meravigliosa è l’esistenza di molte razze e di molto popoli che parlano molte lingue” (ottenne il Nobel, in fondo, come maligna Hensher, “perché era stato un ‘buon tedesco’ negli anni precedenti”).

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Una lunga articolessa di Adam Kirsch sul New Yorker (titolo: “Hermann Hesse’s Arrested Development”) dice, sostanzialmente, che “finché un uomo lotta per cercare di essere se stesso, sarà sempre una presenza viva, un esempio – il che è forse meglio che essere un grande scrittore”. Palle. Per uno scrittore sentirsi dire che è un bravo cristo fa l’effetto del ‘sei un tipo simpatico’ pronunciato dalle labbra che vorresti baciare per il resto dei tuoi giorni. Hensher, dopo aver devastato la biografia appena pubblicata, conclude così. “Hesse sapeva scrivere molto male di sé, ma si merita uno sforzo ben migliore di questo. Fu una figura interessante che, rifiutando di riconoscere i propri limiti effettivi, portò qualcosa di nuovo nel romanzo. Mi piacerebbe leggere una biografia degna di lui”.

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Non si può non pensare a Hesse con simpatia – è oggetto di ostilità da parte dei teorici del romanzo, è stato l’ultimo, estremo, goethiano, dilettante. Fu abbondantemente frainteso, ma questo capita spesso a chi è baciato dal successo letterario – ne apprezziamo lo sforzo. Magari lo leggessero i liceali, oggi. (d.b.)

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