08 Novembre 2020

“Una marea buia di esseri umani scorreva per le strade della città”. 1832: il colera a Parigi. Il racconto di Heinrich Heine

Ebreo diventato luterano, allievo di Hegel, Heirich Heine è tra i più raffinati poeti tedeschi dell’Ottocento. Dopo il fatidico viaggio in Italia, si trasferì in Francia: frequentò Richard Wagner e Balzac, aveva una verve polemica, fu afflitto da una paralisi progressiva, che lo condusse a morte, nel 1856, a Parigi; è sepolto a Montmartre. Nella primavera del 1832, con particolare acume narrativo, raccontò il colera che seminò il terrore a Parigi. I malati intasavano gli ospedali della città, ridotta a macello: infine si contarono oltre 19mila parigini morti. Il lungo viaggio del colera, in particolare, era cominciato nel 1817, in India, lungo il Gange: da lì arrivò, in virtù degli scambi commerciali in atto, nel Regno Unito, quindi in Europa.

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L’arrivo del colera venne annunciato ufficialmente il 29 marzo, e poiché si trattava del giorno di mezza quaresima e il sole splendeva nel cielo terso, i parigini andavano e venivano febbrilmente sui boulevard con ancor più gaiezza. C’era persino chi portava la maschera, di un bluastro livido o dall’aspetto cagionevole, per caricaturare e ironizzare la paura del colera e il morbo stesso.

Quella sera le sale da ballo erano più affollate del solito: le risa sguaiate sopraffacevano la musica; ci si affannava per ballare il cancan, un ballo tutt’altro che pudico; tutti bramavano ogni tipo di bevanda fredda o con ghiaccio quando, all’improvviso, il più ilare degli arlecchini sentì che le gambe gli si erano intirizzite e si tolse la maschera e, per la meraviglia di tutti, svelò la faccia ormai violacea. Non appena ci si accorse che non vi era alcun trucco, le risate si spensero e molte carrozze iniziarono a trasportare donne e uomini dal ballo all’Hôtel-Dieu, l’ospedale centrale dove, ancora travestiti, morirono. L’onta di terrore fu tale, che le persone iniziarono a credere che il colera fosse contagioso e poiché dall’ospedale si levavano mefistofeliche urla di paura, si dice che molti vennero sepolti così velocemente che non furono svestiti nemmeno delle stravaganti mise che portavano, così ora riposano festosamente in pace.

Ma una diceria iniziò a circolare: alcuni di quelli tumulati più lestamente non erano morti di malattia, ma bensì avvelenati. Si diceva che certe persone avessero trovato il modo di avvelenare ogni genere di vivanda, sia al mercato delle verdure, sia nei forni, nelle macellerie o nelle cantine. Più straordinarie erano queste storie e più la gente ci credeva, e anche i più scettici avranno dovuto ricredersi quando persino il capo della polizia pubblicò un’ordinanza a questo proposito. La polizia – che in ogni paese sembra meno incline a prevenire il crimine piuttosto che a mostrare la sua conoscenza di esso – riguardo alle storie di avvelenamento, vere o false che fossero, si adoperò per distogliere ogni sospetto dal governo. Basti pensare che con il loro infelice proclama, nel quale affermavano inequivocabilmente di essere sulle tracce degli avvelenatori, confermarono ufficialmente le dicerie e perciò gettarono l’intera città di Parigi nel più totale terrore della morte.

“Mai visto nulla di simile!” dicevano i più anziani, che persino durante la Révolution non avevano provato tanta paura. “Francesi! Che vergona!” gridavano gli uomini, con le mani sulla fronte. Le donne, con i pargoli agonizzanti al petto, piangevano amaramente e si disperavano poiché quelle creature innocenti gli morivano fra le braccia. I poveri non osavano mangiare né bere e si torcevano le mani nell’indigenza e nell’afflizione più tragiche. Sembrava fosse giunta la fine del mondo. Le folle si assembravano soprattutto negli angoli delle strade, dove c’erano le enoteche, e di solito era lì che si perquisivano i sospettati, e guai a loro se in tasca gli si trovava qualche oggetto ambiguo. L’orda di gente, allora, si avventava come fanno gli animali o i pazzi sulle proprie vittime. Molti si salvarono per prontezza di spirito, altri grazie all’intervento degli uomini della Garde Municipale, che in quei giorni pattugliavano in ogni dove. Alcuni vennero feriti o storpiati, mentre sei uomini vennero assassinati sul posto senza alcuna pietà. Niente è più orribile di una folla inferocita e bramosa di sangue mentre strangola la sua preda indifesa. Una marea buia di esseri umani scorreva per le strade della città; qui e là, le maniche di camicia dei braccianti guizzavano come creste d’onda di un mare in tempesta, e tutti ululavano e ruggivano; spietati, barbari, diabolici. Su rue de Vaugirard, luogo in cui due uomini furono giustiziati poiché sporchi di una strana polvere bianca, ho visto uno sciagurato che ancora rantolava e una vecchia che si toglieva gli zoccoli dai piedi per colpirlo a morte sulla testa. Era nudo e ferito e livido, così che il sangue gli scorreva addosso. Non gli avevano strappato solo i vestiti, ma anche i capelli e gli avevano tagliato labbra e naso; una volta morto, un uomo ancor più vile gli legò i piedi con un cappio e lo trascinò per le strade mentre gridava: “Voilà le cholera morbus!”.

All’indomani sul giornale, si diceva che gli sciagurati uccisi con tanta crudeltà erano tutti innocenti e la polvere in loro possesso non era che canfora o cloro o qualche altro rimedio contro il colera. Quanto ai presunti avvelenati, erano invece morti naturalmente, sopraffatti dal bacillo. La gente – qui come in qualunque altro luogo – prona all’ira e incline alla crudeltà, divenne immediatamente quieta e si dispiaceva con toccante tristezza delle proprie azioni sconsiderate una volta sentita la voce della ragione. Con la loro opera i giornali riuscirono a calmare e ad ammansire la popolazione, e forse potrebbe essere etichettato come un trionfo della stampa, così celere nel rimediare al malfatto della polizia.   

Heinrich Heine

*La traduzione è di Giacomo Zamagni; in copertina: Luca Giordano, “Apollo e Marsia”, 1660

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