08 Luglio 2020

“Quel cuore gli si aprì, prese forma e sanguinò come non aveva più sanguinato da un’intera eternità”: i disegni di Peter Handke, la salvezza in ciò che è piccolo

Il mio amico poeta Antonio Trucillo ha quasi tutti i libri di Peter Handke, ma gliene manca uno, anzi, adesso gliene mancano due, il nuovo è quello che ho sottomano, intitolato Disegni, appena uscito dall’editore Jaca Book. Così Antonio ha telefonato a una rubrica radiofonica di cultura, che svolge il servizio di rintracciare un libro introvabile presso gli ascoltatori, aspettando che qualche anima buona e generosa si faccia avanti e sia disponibile ad offrirlo al richiedente, gratis. Il conduttore del programma ha riconosciuto il poeta e gli ha chiesto il perché della sua ricerca. Antonio Trucillo ha risposto, coraggiosamente, che lui ci vede la poesia nelle opere dell’attuale premio Nobel, che risiede nella poesia la verità dei suoi testi narrativi, i quali suggeriscono un mondo poetico da cui scaturisce la sua vera forza, la sua intensità espressiva.

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Stupisce ed è al contempo originale questa affermazione se pensiamo a quello che si sente dire sulla narrativa di oggi, la sua funzione, a che cosa deve o dovrebbe tendere. Dicono: il lettore cerca una storia, una bella storia, una storia accattivante, non noiosa, dicono, scorrevole, dicono, come l’acqua del rubinetto, penso io, non come un vero libro, insomma l’opposto della poesia, perché la poesia è triste, dicono… Ma soprattutto, dimenticano di dire che quando è significativa, è vera. La poesia ha questa forza, di far entrare la realtà nella pagina! Come i disegni di Handke, che, dai luoghi di passaggio (Salonicco, la Slovenia, la Baia di nessuno, Concord, nel Massachusetts, la Serbia, la Spagna, l’Italia, l’immagine in volo su un aereo che sorvola l’Europa, vista da un finestrino), si traducono in segno, s’imprimono sul foglio, per dire la vita che trascorre sotto gli occhi dello scrittore, e diventano enigma, ciò che appare per un istante e si vorrebbe per sempre, si vorrebbe catturare, fermarne il mistero, o il mistero di me che ci ho visto qualcosa, che ho assistito rapito tutto il mio essere niente, eppure vivo. Provate a leggere questo passo di Handke tratto da un suo romanzo, La notte della Morava, a pag.22: “Già mentre il primo parlatore pronunciava le sue frasi introduttive, lui sembrò annotarsi di tanto in tanto qualcosa, ogni volta palesemente solo una singola parola. Per la prima volta dopo molto tempo noialtri lo vedemmo così, tirare fuori una matita, involontariamente, e scrivere qualcosa. Avveniva quasi contro la sua volontà, perché ogni volta rimetteva subito via l’occorrente per scrivere. Già, per lui era addirittura imbarazzante essere visto così?”.

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E scopriamo che ad Handke piace prendere appunti o disegnare, che i suoi disegni sono un po’ degli appunti, e sono stati esposti per la prima volta nel 2017, alla Galerie Klaus Gerrit Friese di Berlino; quest’anno, 2020, pubblicati dalla Jaca Book. Sono disegni in forma di schizzi, tracciati su fogli volanti, a quadretti, a righe, o addirittura ai margini di una pagina di un libro, come a raddoppiare la parola, o per testimoniare quanto accade leggendo, l’immagine che suggerisce il testo, un determinato testo. Ma che cosa accade?

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È la mancanza che definisce questi disegni. Infatti essi non hanno volume, non hanno proporzioni, non hanno profondità, non hanno luce. Giusto un po’ di chiaroscuro, qua e là, su qualche ciliegia, qualche mela, oppure il colore del pennarello che insiste su una forma, il segno ripetuto della matita che torna più volte sulla linea già tracciata, per definire meglio un contorno, per far risaltare il soggetto: un fiore di tiglio in una tazza di caffè. Sono disegni essenziali, non hanno nemmeno un’impaginazione; probabilmente, penso io, perché scaturiscono dentro l’imprevisto, ecco la verità, sgusciano o spuntano dalle pagine di un libro sovrapponendosi alle parole scritte, e stanno ai margini dello stampato, seppure rappresentano il centro della composizione, o almeno il suo briciolo di significato, che in un certo senso illustrano, e allo stesso tempo sono il punto in cui si mostrano, in quanto vivono come scarabocchi, mostri, mostriciattoli, poesie anche loro, verità anche loro, nonostante siano creazioni molto piccole, incomplete, abbozzate. Viene da chiedersi: perché, la verità non è anche nel microscopico? Non è anche nel punto più piccolo della terra?, che a stento vediamo, o che non riusciamo a percepire, ma esiste, e, proprio perché non visibile a noi, è vero, è segno di verità, dunque non percepibile ad occhio umano. “Scrittura che si fa cosa”, si dice nella presentazione di Agamben, e poi: “…che ha trovato salvezza nel piccolo”.

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Questi disegni, nel loro spirito drammatico, espressionista, infantile, mi sono sembrate delle parodie, intendo dire: sono ironiche nel loro cercare uno spazio, che trovano ai margini di una pagina, e allo stesso tempo lo negano; si negano la cosa fondamentale dell’arte figurativa. Ma nello spazio del già scritto, dello stampato, del margine, trovano una loro collocazione. Questo luogo è la poesia, la cosa esigua, inutile, che è come il prolungamento del braccio, della mano, della testa, fino a raggiungere la sua origine a cui si riferisce, a cui ritorna: il pensiero, il punto da cui sgorga tutto, la verità del vero, la scintilla del percepito, la sensazione originaria e mai afferrata in cui siamo nati, per cui siamo ancora qui, in questo momento, e siamo originati, di cui siamo fatti: il mio mistero, il mio esistere, che è il mistero di tutto, cioè la poesia, l’arte più antica, più desiderata e più voluta del mondo, il punto più piccolo che coglie tutto. La poesia in quanto mistero, enigma che si poggia sulla pagina, come sul fondo degli occhi del lettore, nella sua memoria; immagine interna, mentale, che si nega, che sta nella profondità dei pensieri. Non so perché, io ci ho visto un ricordo degli anni scolastici, nell’abitudine, durante gli anni di studio, d’imbrattare i libri, forse corrispondente a un gesto involontario che vuole agganciare il sapere (le tecniche mnemoniche funzionano per associazioni d’idee), per qualcosa che si perderà, resterà dimenticato, nonostante tutti i diritti, i doveri, le leggi stabilite.

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A costo di andare lungo, di annoiare (chiedo solo pazienza), vorrei citare un altro passo tratto da La notte della Morava (pag.27), che spiega bene il metodo di questo scrittore, aperto alla totalità, cioè al mistero del cuore della vita, per cui dove non arriva la parola arriva il segno, o il senso, la traccia della presenza di qualcosa, quindi non solo il proprio pensiero, bensì qualcuno: “… dalle lettere era passata ai segni. Un altro autore, ah, ne era passato di tempo, una volta gli aveva raccontato che le lettere dei lettori da lui predilette erano i semplici segni. Anzi, no, i suoi visitatori preferiti erano quelli che dietro di sé lasciavano soltanto dei segni, a dovuta distanza dalla sua casa: una penna d’uccello sulla siepe del sentiero che passava davanti all’abitazione; un bastone di nocciolo o di biancospino intagliato dal lettore mentre camminava; una bottiglia di vino; un sacchetto di noci. Ma i segni della donna in questione non erano per niente amabili. Di per sé, osservati alla luce del giorno, forse erano delle inezie: un piccolo riccio morto all’inizio della passerella, un uccellino infilzato su una spina d’acacia, una serpe nel vaso per conserve tra i cetrioli sott’aceto, uno dei libri di lui – a suo giudizio senz’altro uno riuscito male – immerso nel liquame e le pagine incollate con lo sterco, oppure semplicemente un paio di fiori colti in riva a un fiume e scapitozzati, anche uno soltanto, piccolissimo”.

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E a pag.35: “… quel cuore, lo stesso cuore, gli si aprì, prese forma e sanguinò come non aveva più sanguinato, così gli pareva, da un’intera eternità”.

Vincenzo Gambardella

*In copertina: Peter Handke è Premio Nobel per la letteratura del 2019 (la fotografia è tratta da qui)

 

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