16 Maggio 2019

“Scrivo per raccontare questa modernità disorientata, senza più legami tra vecchi e giovani”: Halldóra Thoroddsen, scrittrice islandese, dialoga con Matteo Fais

Oggi nessuno vuole essere vecchio, o considerato tale. Nella modernissima e avanzatissima società del progresso – ovviamente progressista –, chi è in là negli anni non ha alcuna funzione. È zavorra. Lo sentiamo ogni giorno anche dal moloch televisivo: “troppe pensioni”. Agli anziani gliela si vuole proprio far pagare se, dopo l’uscita dal mondo del lavoro, non hanno imboccato autonomamente la via verso il cimitero. Con la fine della società tradizionale e l’ingresso in quella della produttività e dei consumi, era inevitabile. Chi non produce, spende e spande, è un morto vivente.

Essendo inoltre parallelamente una società del consumo sessuale, è consigliabile anche essere sempre seduttivi, attraenti, fisicamente prestanti. Praticamente viviamo in un incubo, solo che, come di consueto, qualcuno è riuscito a convincerci che fosse bellissimo.

Non è un caso, pertanto, che gli anziani siano i grandi assenti della letteratura attuale. Semplicemente, sono talmente marginalizzati da non essere più considerati esistenti. Ci ha pensato per fortuna una scrittrice islandese, Halldóra Thoroddsen, con Doppio vetro, il suo primo libro tradotto in Italia e pubblicato da Iperborea Edizioni, a rimetterli al centro della scena. Il romanzo racconta la storia di una vedova, oramai tenuta a debita distanza anche da figli e nipoti, che non vuole comunque rinunciare al suo diritto di essere viva. Attenzione, non si sta parlando della solita grottesca figura di femmina non più giovane ma, comunque, agghindata come una ventenne. La protagonista del libro non vuole far finta di essere ciò che non è. Anche quando riscoprirà l’amore con un suo coetaneo, si tratterà di un amore tra anziani, non più mosso da una passione travolgente, ma da un sentimento non per questo meno intenso. E non si limiterà a ciò la cara vecchia signora: scenderà in piazza, si arrabbierà, vorrà far sentire la sua voce forse meno alta ma non meno ferma di quella dei giovani che si troverà accanto. Dopo aver letto Doppio vetro, conoscere la coraggiosa penna che ha dato vita a una simile storia è diventata una necessità, così siamo andati a rintracciarla nella gelida Reykjavík, la sua città.

Doppio vetro è il suo primo libro a essere pubblicato in Italia. Per iniziare, le chiederei quindi di presentarsi al pubblico dei lettori dello Stivale. Perché scrive? Nella sua produzione vi sono anche poesia e racconti. Ci dica qualcosa del suo lavoro, in generale. Ci piacerebbe proprio sapere chi è Halldóra Thoroddsen.

Quando ero ragazza non avevo minimamente intenzione di diventare una scrittrice, forse perché sono cresciuta in una famiglia con tanti poeti (mia nonna, mio fratello e mio bisnonno). Sennonché, per metà della mia vita, mi sono dedicata all’insegnamento, ho realizzato alcuni programmi radio e fatto vari altri lavori. Il primo libro è arrivato nel 1990, quando ero già quarantenne (si tratta di Saloon poems). Il successivo dopo otto anni (Exact Remarks del 1998). Come potrà notare, insomma, sono una fioritura tardiva come scrittrice. Ma qualcosa si era andato accumulando dentro di me e, dal 2002, ho realizzato altri sei libri. Il motivo per cui scrivo è perché voglio dare qualcosa di mio, sia a livello intellettuale che estetico, alle persone che mi stanno vicino, per non parlare del fatto che la letteratura mi ha sempre affascinata. Noi comunichiamo per mezzo di storie e il ruolo di chi le racconta è sempre stato quello di trasformare le cose in parole, per esempio le emozioni che restano sopite sul fondo dell’animo umano senza riuscire a trovare un’adeguata espressione. A ogni modo, non so se sono esattamente io quella deputata a parlare del mio lavoro, essendo coinvolta in prima persona. Sovente ci si spinge troppo oltre nell’analizzare quelle idee che danno forma alla nostra vita, ma a volte io scrivo semplicemente per far ridere la gente, di sé stessa e degli altri, per il puro gusto di farlo, mettiamola così. No, decisamente non spetta a me dirlo.

Lei scrive solo ciò che risulta essere assolutamente necessario – non per niente il suo libro è piuttosto breve. Non vi sono barocchismi, o descrizioni inutili. Si potrebbe dire che questo è “il suo stile”?

Alcuni ritengono che entrambi i miei romanzi siano eccessivamente brevi e preferirebbero qualcosa di più corposo. Probabilmente tutto ciò dipende dal fatto che lo scrivere poesie ha influenzato il mio stile, spingendomi a ridurre tutto all’essenza, ma in fondo direi che si tratta di una questione di gusto. Ognuno di noi ha dentro sé come una di quelle forme per le torte e la mia produce testi di dimensioni ridotte.

Ho molto apprezzato l’idea di far luce sulla vita degli anziani. Dal mio punto di vista, loro sono i grandi assenti nella letteratura attuale. Nessuno ne parla. Sembra addirittura che siano già morti. Se ci pensa, questo è ciò che sta accadendo loro nella nostra modernità. Dopo il declino della società tradizionale, sono stati marginalizzati. Ma, contrariamente a quel che si crede, esistono, e inoltre vogliono vivere proprio come la protagonista del suo libro. Qual è la sua opinione in merito?

Sono assenti nelle nostre vite e perciò nella nostra letteratura. Nei libri di un tempo, invece, si potevano trovare molti miti e saggi nonni, come dei vecchi scontrosi. Ma nella società moderna questi non hanno più un ruolo. L’anziana signora del mio libro, per esempio, non ha modo di trasmettere ciò che vorrebbe agli altri. Se iniziare una relazione non è esattamente la sua intenzione, resta il fatto che l’amore romantico è per lei l’unica via in questa nostra società senza amore. E, se dico che la nostra è una società senza amore, è altresì vero che potrei definirla “fuori contesto”, in cui tutto sta cadendo a pezzi. Che nome potremmo dare altrimenti a questo indirizzo politico che, nel mio testo, va a impattare sulla nostra anima, sulla moralità, passando per l’ambiente, fino ad arrivare ai vecchi? Nel romanzo provo a scrivere dell’importanza di una vita coerente. Esso riguarda la solitudine, come la perdita del proprio ruolo e la mancanza di un contesto. L’amore è un concetto ampio che concerne ciò che ogni essere umano riesce a donare all’altro. Ci troviamo invece bambini che vivono isolati e vecchi abbandonati ai margini, prevalentemente tra di loro, mentre quelli impegnati nel mondo del lavoro sono occupati a loro volta in un mondo a parte, sennonché la normale continuità generazionale viene meno. Quando la donna occidentale cominciò a lavorare fuori casa, avrebbe dovuto (anche grazie all’aiuto della tecnologia) diminuire il fardello del marito, ridurne l’orario di lavoro, ma in verità sono state inserite nel mercato con l’intento di raddoppiare la produzione che, poi, per la maggior parte ha prodotto un surplus che va sprecato. Io scrivo anche per raccontare questa modernità disorientata che sembra avere come unico intento quello di produrre una crescita smisurata senza tener conto dei nostri reali bisogni, producendo unicamente anime sole e disconnesse. Abbiamo smantellato un edificio che avrebbe dovuto mantenere la sua integrità. La più grande sfida dell’uomo moderno sta nel tenere insieme la rete sociale i cui legami abbiamo indebolito e diviso in compartimenti stagni almeno dalla rivoluzione industriale in poi.

Al di là della faccenda anziani nella società moderna, si potrebbe dire che nessuno vuole invecchiare oggigiorno. Le madri cercano di assomigliare alle figlie e similmente fanno i padri con i figli. Allo stesso modo, nella nostra società la parola “morte” è stata bandita. Contrariamente a tutto ciò, la protagonista del suo libro non vuole essere diversa da ciò che è. Persino nella relazione con il suo coetaneo lei sa bene che, per quanto siano ancora capaci di amare, lo sono in un modo diverso dal passato. Sussiste questo contrasto tra la donna nel testo e il resto del mondo occidentale, o si tratta di una mia errata interpretazione?

Noi veneriamo la giovinezza. Su questo non ci sono dubbi. E ciò è il risultato della marginalizzazione dei vecchi. E sì, certamente abbiamo spinto la morte lì dove non poteva più essere vista, in uno spazio a parte, nascosta dall’armoniosa totalità dell’esistenza. Infatti ci manca quel senso di completezza e di significato. La protagonista del mio testo però tiene ancora un piede in un tempo diverso, lì dove la modernità non ha portato a compimento il suo processo di divisione. Direi che il contrasto tra lei e il mondo occidentale sta in questo. La donna continua ad avere un’immagine altruistica degli anziani il cui ruolo consisterebbe nel ricordare quei tempi andati che loro si portano dentro, nel corpo, negli atti e nelle parole. Tale ruolo impedisce al presente di perdere la sua memoria, inoltre offre ai bambini il necessario stimolo per parlare con qualcuno che ha superato la fase di acquisizione della lingua. I vecchi nel mio libro si cercano e vivono insieme la quotidianità perché lo stare insieme li mette nella condizione di poter parlare di ogni sfida e per questo c’è bisogno di essere almeno in due. Quando mia nonna, che viveva a casa con noi, morì, io avevo cinque anni e la vidi sola nella bara che stava poggiata sul tavolo da pranzo, e mi arrampicai per poterla abbracciare. Mia madre mi fermò e mi promise che la nonna sarebbe stata con me nella bara quando sarei morta. Successivamente capii che mi aveva mentito (anche lei è morta molto tempo fa), ma adesso so che mia madre ci sarà nella mia bara quando verrà il mio momento. Chiedo scusa per questo eccesso, ma io sono tutto ciò che è stato.

La sua lingua madre è l’islandese, ma il libro che ha scritto è stato tradotto in diverse lingue. Che sensazione le dà? Si sente serena rispetto al fatto che qualcuno lavori sulle sue parole senza che lei possa comprendere quella particolare lingua?

Assolutamente, non ho ansie di alcun tipo in merito. Specialmente considerata la mia superba traduttrice, Silvia Cosimini, che ha già trasposto in italiano buona parte della nostra difficilissima letteratura. Di recente, infatti, ha anche ricevuto un premio per il suo lavoro, qui in Islanda. Tradurre è un compito molto creativo, ogni lingua ha il suo contesto, c’è un mondo dietro ognuna di esse. Naturalmente i più, di rado, sono a conoscenza di cosa propriamente comporti tale attività. Io ho un amico che parla cinese e ha letto un libro islandese che è stato tradotto molti anni fa. Sosteneva che fosse un libro su un bravo comunista che sacrificò sé stesso per la comunità. Eppure sappiamo entrambi che non affronta tale argomento. Ma bisogna crederci. La letteratura è, tra le varie cose, un dialogo che si diffonde nello spazio e nel tempo. Noi islandesi, per esempio, stiamo leggendo una nuova traduzione della Divina commedia di Dante. Le opere letterarie, questi lenti ed esplosivi telegrafi, ampliano la nostra comprensione delle persone e delle culture delle diverse parti del mondo, del nostro presente come del passato. Nelle mani di bravi traduttori, la letteratura è una forma speciale di dialogo capace di raggiungere un livello più profondo rispetto a quello garantito dagli altri media che ci permettono di comunicare.

Traduzione dall’inglese di Matteo Fais

Editing di Luisa Baron

Traduzione in inglese delle domande di Isabella Piras

Traduzione dell’introduzione in inglese della Prof.ssa Carla Comberlato

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No one wants to be old, or to be considered old nowadays. In our extremely modern and innovative society in progress – progressive in fact – those who are called “senior” have no roles at all. They are waste. We hear it every day on television: “too many pension schemes”. To elderly want to make them pay if, after leaving their work, they have not taken the road to the cementary on their own. Inevitable, now that the traditional society is over and consumerism is demanded. Those who do not produce, spend and consume are like walking dead.

Ours, is also a sexual consumerism society. It is, therefore, recommendable to be always seductive, charming and physically fit. It is like a nightmare, disguised as a wonderful dream.

It is not a coincidence that the elderly are noticeably unheard of in the present literature. They have just been set aside in order to be considered non-existent.

An Icelandic lady writer, Halldóra Thoroddsen, with her Tvöfalt gler, her first book translated in Italy and published by Iperborea, has brought them back to the center of the attention. He novel tells about a widow, ignored by her own children and grandchildren, who does not want to give up her right to be alive. Mind you, we are not talking about the usual grotesque over middle-aged feminine character , made up like a youngster. She is not pretending to be what she is not. When she meets love again, with a peer, it will be an elderly love, not driven away by an overwhelming passion, but supported by an intense feeling. She will not stop here, the dear old lady: she will become public, she will get angry, she will make herself heard, not so loudly, maybe, but more firmly than the young voices around her.

After reading Tvöfalt gler, here at Pangea, getting to meet the brave writer who has brought to life such a story, has become a real need, so we have traced her down in icy Reykjavík, her town.

Tvöfalt gler is you first book published in Italy. First of all, why don’t you introduce yourself to Italian readers? Why do you write? You also wrote poetry and short stories. Tell us something about your work in general. We’d really like to know who Halldóra Thoroddsen is.

I had no intention to become a writer when I was young, perhaps because I grew up among too many poets in the family (grandmother, brother and grand-grandfather). So I was busy teaching, doing some radio-programming and other jobs, half of my life. I wrote my first book in 1990 when I was fourty years old, (Saloon poems). Then another one eight years later (Exact remarks, 1998). As you can see I am a late bloomer as a writer. But something had stacked up inside me, and since 2002 I have written six more books, so far. I write because I want to give something of myself to people around me, both intellectually and aesthetically, and litterature had always fascinated me. We comunicate through stories and the storyteller’s role has always been to put things in words, emotions that perhabs have been slumbering inside people, without articulation. I am not the best one to describe my works though, I am too involved. They often build on analizing ideas that mould our existence, but sometimes I just write to make people laugh, at themselves and others, for the fun of it. No, it is not for me to tell.

You write, let’s say, just what is absolutely necessary – in fact the book is quite short. There are no baroquisms, no useless descriptions. Can we say this is “your style”?

Some people find both my novellas too short, and want them to be full length novels. Perhaps my poetry-writing has influenced my style of cutting everything to its essence, but it is also my taste. We all have our distinct cake tin inside ourselves, mine produces compact text.

I really appreciate this idea to put a light on the life of the aged. In my opinion, they’re the great absent in current literature. No one speaks about them. They seem like they’re already dead. If you think about it, that is what is happening to them in modern society. After the decline of traditional society, they have been marginalized. But, on the contrary, they exist and, furthermore, they want to live like the character in your book. What’s your opinion about it?

They are absent in in our lifes and therefore also in our literature. In older books we can find many mild and wise grandparents or grumpy elderly. But in a modern society they have no role. The old woman in my book has no platform to deliver her gifts. It is not her first choice to start a romance, but that is her only way in our loveless society, romantic love. I call our times loveless, but I could as well use the phrase ‘out of context’, everything is torn apart. What label should we put on the political policies that encompass: our soul, morality and environment, and thereby also the old people in my story? In the book I try to write about the importance of a coherent life. This book is about loneliness, disempowerment and lack of context. Love is such a broad concept, it is about the gifts we humans give each other. We have isolated children and the elderly in boxes, predominantly with their own cohort, so normal generational continuity is disrupted, while those who are engaged in the labour market are busy in their box. When the western woman started to work out of home, she should (along with new tecnology) have lessened the burden of her husband, reduced his working time, but instead the women were supposed to double the production, mainly to through it away. I’m writing about our disjointed modernity that has to grow and grow without regards for our needs and it creates lonely and disconnected souls. We have torn asunder the fabric that is supposed to be intact. The biggest task of modern man is to glue together the social web which we have been tearing up and compartmentalizing ever since the industrial revolution.

Let alone the role of the aged in modern society, no one wants to get old nowadays. Moms try to look like their daughters and so do fathers with their sons. Also, in our society, the word “death” is forbidden. On the contrary, the protagonist of your book doesn’t want to be what she isn’t. Even in her relationship with the man of her own age she knows they can still love, but in a different way. There’s this contrast between her and most of the Western World, or am I wrong?

We worship youth. No wonder. That is just the result of the disempowerment of old people. And yes, we have put death out of sight, in a separate box, hidden away from the harmonious wholeness of life. We lack the sense of wholeness and meaning. The protagonist in my book, has one leg in a different time, were modernity hadn’t yet finished its segregation fully. So the contrast between her and the Western World lies there. She still maintains an image of the selfless elderly whose role it is to remember former times, which they carry in their bodies, deeds and words. That role prevents the present from loosing its memory, and provides children with the much needed stimulation of speaking to someone that has actually grown out of the language acuisition phase. The old people in my book seek each other out, to spend everyday life together, because togetherness makes them able to tell the story of every task and for that, you need at least two. When my own grandmother, who lived at home, died, I was just five years old and I found her lonely in her coffin. I tried to climb into the coffin that stood on the dining table, to hug her. My mother stopped me and promised that she would be with me in the coffin when I died. Later on I thought my mother had been lying to me (she passed away long ago), but now I know that she will be with me in my coffin when the time comes. Excuse my hybris, but I am everything that once was.

Your mother tongue is Icelandic, but your book has been translated in many languages. How do you feel about it? Are you serene thinking about someone working on your words without understanding its language?

Yes I am perfectly calm. Especially with my superb italian translator Silvia Cosimini who has already translated our most complicated litterature. She has recently received a translator-prize in Iceland. Translation is a creative undertaking, languages have their own backgrounds, there is a special world of ideas behind every language. Of course you seldom know how the translator deals with it. I have a friend who speaks chinese and he read an icelandic book that had been translated many years ago. He said it was a book about a good communist, who sacrificed himself for the community. We both knew that the book was not about that. But you have to have trust. Literature is, amongst other things, a dialogue which spans through space and time. We Icelanders are now for example reading a new translation of Dante’s Divine comedy. Literary works, these slow and explosive telegraphs, widen our understanding of people and cultures from distant parts of the world, in our present time and from the remote past. In the hands of good translators, I think literature is a special form of dialogue that reaches a deeper level than other media that communicate across borders.

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