25 Febbraio 2020

Datemi un verso e vi svelerò il mondo. Sull’arte marziale dell’haiku

Datemi un verso e vi svelerò il mondo. Ossia: il verso, l’unità più piccola della materia, ricava in sé l’intero cosmo. Specifico: l’arte di dettagliare straordinari e vastissimi paesaggi in un chicco di riso è pari a quella dell’haiku. Che sbarcato in Occidente ha fatto (e fa) sbracare i polsi agli scemi, che ci leggono dentro qualcosa di simile a un Mallarmé a cui si è ristretta a misura di bimbo la camicia. No, trattasi di qualcosa d’altro, e gli esempi di haiku all’italiana, una specie di sushi western, di solito fanno lo stesso effetto che fa il pesce crudo al debole di stomaco.

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Anzitutto l’haiku non è propriamente letteratura, verbo sull’orlo delle cose, in bilico tra il dire e il non dire. È recente il passaporto, controfirmato da Masaoka Shiki (1867-1902), che lo ha introdotto nel tempio buono delle lettere. Prima era un gioco che solleticava gli aristocratici, poi una burla dei popolani piena di scurrilità, scandite sul filo di ragno delle diciassette sillabe, non una di più. Con l’inimitabile Basho (1644-1694), si cristallizza, divenendo la sfera magica attraverso cui ottenere l’illuminazione sulla via dei monti, oppure il cantuccio da cui mandare dolenti latrati al mondo. Per alcuni la “rivoluzione” di Shiki avrebbe alterato per sempre il carattere borderline dell’haiku. Di certo non per la curatrice del Grande libro degli haiku (Castelvecchi), Irene Starace, che dedica con scrupolo certosino più della metà delle sue traduzioni all’haiku novecentesco.

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«La poesia, senza ricorrere alla forza, muove il cielo e la terra, commuove perfino gli invisibili spiriti e divinità, armonizza anche il rapporto tra l’uomo e la donna, pacifica pure l’anima del guerriero feroce», recita la prefazione al Kokin Waka shu, antologia di poesia classica giapponese stilata al principio del X sec. (faccio riferimento all’edizione curata da Ikuku Sagiyma, edita da Ariele, Milano 2000), ben prima che la dottrina dell’haiku facesse capo dal suo guscio di sillabe. Ma le cose valgono lo stesso. Specialmente l’ultima porzione della frase.

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Il grande Basho era figlio di un samurai, destinato a battere le strade del padre. Imparò la poesia da un samurai in pensione, ebbe come discepoli un manipolo di samurai che avevano abbandonato il mestiere delle armi. Passati gli anni del grande caos e delle grandi battaglie il samurai depone la spada e si avvinghia al pennello. La pratica non cambia molto. Il monaco girovago, amante della contemplazione, era solito appuntare con degli haiku i suoi brevi referti di viaggio, con sottosuolo zen. Una specie di Giovanni della Croce privo d’impianto razional-teologico, istintivo. Non è un caso che la sua inalterata fortuna lo abbia traghettato felicemente fino a noi: è pubblicato da SE, La Vita Felice, Luni, Vallardi, piccoli diamanti di qualità.

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Ki No Tsurayuki, nobilitando l’antichissima antologia di cui sopra, si prese la briga di spiegare la ragione per cui le poesie sono scandite per sillabe. È con la generazione degli uomini, nel regno della differenza, che accade ciò, manipolando il linguaggio. Prima, «nel Periodo delle divinità possenti […] ci si esprimeva in maniera semplice e schietta e sembra che fosse arduo individuare le sostanze delle cose». Saremmo pure caduti dal mirabolante party paradisiaco: con le parole ci siamo conquistati una a una tutte le cose. E con la letteratura anche il loro sovrappiù.

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La questione sillabica è tanto fondamentale nell’haiku che, nell’atto della traduzione, si rischia d’infrangere tutta la cristalleria. La Starace fa il lavoro dell’equilibrista sulla bava di ghiaccio che unisce due massicci montani, e se a volte, colpa della lingua nostra mica sua, l’effetto haiku sa di sms («Sono costretto a strappare/ le foto di me bambino») o di una incerta banalità («Apro il forno./ Il carbone è freddo/ e il fuoco sta per spegnersi»), quasi sempre ci sentiamo rinfrescati, e anche un po’ ammaccati di sani sguardi sull’abisso. Io, ad esempio, non ritorno più da un tremendo innamoramento per Kobayashi Issa (1763-1827), la cui vita fu tutt’altro che spensierata e costellata da un rosario di morti impressionante (la madre piccolissimo e poi la nonna; in età più tarda tutti i figli e la moglie). Monaco con il nome, per l’appunto, di Issa (il cognome d’origine era Yotaro), cioè “tazza di tè”, sintomo di armonia e serenità, scrisse, all’opposto, haiku strazianti come questa: «Rondini della sera./ Non ho alcuna speranza/ nel domani». Ma è dotato di una visione purissima: «Lampi./ Ad ogni bagliore/ il mondo si purifica». Il fascino dell’haiku è dato dalla sovrabbondanza di senso che, viste le strettoie sillabiche cui è obbligato, carica i versi. I quali lasciano una serie di radi punti che ciascuno completerà come crede. Ecco, più che un grado sotto la letteratura, qui semmai siamo un grado sopra. In terreno intangibile.

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Tra i moltissimi “moderni”, citiamo almeno due grossi nomi. Il primo è Natsume Soseki (1867-1916), uno dei padri del romanzo giapponese del Novecento, che giungerà ai fasti con la triade Tanizaki-Kawabata-Mishima, e che gode di un insperabile successo da noi (pubblicato da Neri Pozza, Beat, SE, Lindau). Grande studioso di cose occidentali, ci consegna un mazzo di haiku particolari, che pigliano quota da alcuni versi di Shakespeare. Così, ad esempio, dal delirio di Lear sorge un merletto meteorologico («Senza pioggia/ cresce in violenza/ solo il vento invernale») e dalla favola da soap dei Capuleti e dei Montecchi scaturiscono sentenze proverbiali («Anche la colpa/ è felice./ Luna velata sui due»).

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L’altro letterato di peso è Akutagawa Ryunosuke (1892-1924), una specie di sfortunato Rimbaud giapponese, maestro indiscusso del racconto breve (si veda La ruota dentata e altri racconti, SE), e morto suicida giovanissimo. Da un suo breve testo, Rashomon (con inizio lirico: «Il sole era al tramonto. A Rashomon, una delle porte della città, un servo aspettava che la pioggia cessasse»), Kurosawa ricavò uno dei suoi capolavori. Questo è l’haiku che scrisse prima della catastrofe (il titolo, che non richiede commenti, è “Disprezzo di me stesso”): «Mi goccia il naso./ Finisce solo/ sulla punta».

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C’è da dire che la costante di quasi tutti questi maestri della poesia in chicco di riso è quella di aver avuto una vita grama. Vagabondi, santi scemi, reietti, naufraghi, orfani e poveracci, questa è la stirpe dei cantori che misero nell’haiku il distillato puro e nudo del loro spirito. Piccoli grani di ambra che raggelano l’anima del poeta. Una consolazione per noi poetastri dell’eternità che facciamo fatica a raggranellare i dobloni per la pappa, martirizzati da tutte le Museo del mausoleo. Per tirarci su il cuore stringiamoci questa conchiglia in versi di Kaneko Tota (1919-2018), il maestro che conclude questa stupefacente antologia, da usare anche come sacro scacciapensieri: «Onde bianchissime s’accostano/ alla foce del fiume. Anche mio figlio/ va verso l’estate». (d.b.)

*In copertina: un samurai nella fotografia del 1860 di Felice Beato

 

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