17 Dicembre 2018

Ha previsto Joyce e influenzato Pasternak: viaggio nell’opera allucinata di Andrej Belyj

Fu personaggio incredibile, non addomesticabile, inafferrato, il fulcro, in fondo, per forza profetica e carati linguistici, della letteratura russa del Novecento. A dire di Nabokov, Pietroburgo, romanzo capitale di Belyj, pubblicato nel 1913 – ora, in Italia, in catalogo Adelphi – è tra i quattro romanzi più importanti del Novecento, di fianco all’Ulisse di Joyce, La metamorfosi di Kafka e la ‘Recherche’ di Proust. In verità, Pietroburgo è la seconda parte “di una trilogia, Est e Ovest”, incompiuta, inaugurata nel 1910 da Il colombo d’argento, romanzo rapinoso, strepitoso, rutilante, dove “si racconta solo un episodio della vita di una setta”, pubblicato meritoriamente da Fazi nella traduzione di Carmelo Cascone, che ho interpellato. Certo, la vita di Belyj è emblema dell’individuo di genio, solitario, che ritiene la Rivoluzione del 1918 non tanto una riscossa politica quanto una “Rivoluzione dello Spirito” e poi ne è scosso, scassato. “Belyj visse il comunismo di guerra, come del resto noi tutti, tra malattie e privazioni. Abitava, in modo estremamente disagiato, presso dei conoscenti, accendeva la stufetta con i suoi manoscritti, soffriva la fame e faceva la coda per il cibo. Per nutrire sé e la madre, ormai vecchia e malata, misurava Mosca da cima a fondo, teneva lezioni al Proletkul’t e in diversi altri posti”, scrive Vladislav Chodasevic nel suo libro testamentario, commosso, violento, Necropoli. Bruciare i propri manoscritti per scaldarsi è il simbolo di quell’epoca, quasi un atto teologico – distruggere un creato per orvegliare nel calore la creatura. “Figlio di un professore di matematica noto all’Europa per le sue opere scientifiche”, bimbo di barocca bellezza (“riccioli d’oro scendevano sulle spalle del bambino dagli occhi azzurri”), tutto sua madre (“Sua madre era bellissima”, omaggiata, “durante dei festeggiamenti in onore di Turgenev” come una tra “le più belle donne di Mosca”), fu amico di Pavel Florenskij, fu seguace – per un tot – di Rudolf Steiner, inventò linguaggi, fu preso a idolo da Boris Pasternak, fu preda della “semifollia” e “di uno stato che confinava con l’irresponsabilità”, scrive ancora Chodasevic, con cruda tenerezza (“egli ha esercitato su di me un’influenza forse maggiore di qualsiasi altra persona che io abbia mai conosciuto”). Angelo Maria Ripellino, nella sua deliziosa e decisiva Poesia russa del ’900, lo descrive così: “Belyj assunse diversi aspetti nel corso della sua poesia, presentandosi sotto le spoglie di mistico, di arlecchino, di cantore della Russia, di antroposofo, di profeta scitico, di ballerino invasato. Ma […] nonostante i molteplici travestimenti, la sua vera effigie è quella del tragico saltimbanco da baraccone, del poeta-clown”. Tentativo, guidato da Cascone, di entrare, danzando, nell’opera del poeta mistico, del poeta impareggiabile. (d.b.)

belyjAndrej Belyj è uno degli scrittori più inafferrabili del Novecento, inventore di linguaggi, autore, con Pietroburgo, a dire di Vladimir Nabokov, di un romanzo che per intensità va posto al fianco dei capolavori di Kafka, di Joyce, di Proust. Il colombo d’argento come può essere definito, da quale sottofondo scaturisce?

Il Colombo d’argento fu concepito da Belyj nel 1907, sul declino dell’ondata rivoluzionaria del 1905. Dopo un febbrile lavoro preparatorio, Belyj si mise all’opera presso la tenuta di Bobrovka, nella primavera del 1909. Il romanzo era parte di una trilogia, Est e Ovest, che fu continuata però solo da Pietroburgo. Al principio del secolo e tra due rivoluzioni. Per meglio comprendere l’evoluzione spirituale dell’autore è indicativo notare come variamente interiorizzò l’esperienza rivoluzionaria nel Colombo e in Pietroburgo: nel primo, la rivoluzione se ne sta sullo sfondo, ci sono solo accenni a disordini nella comunità rurale, mentre in Pietroburgo, l’agitazione si estende dappertutto nel tessuto urbano. Rivoluzione sì, ma non solo, perché il Paese è ancora attraversato dagli echi del conflitto tra occidentalisti e slavofili e dal dualismo tra l’intelligencija e il popolo; questioni mai del tutto risolte, fino a oggi. È questo il tessuto sociale da cui origina il romanzo. Autore affatto enigmatico, Belyj ci ha lasciato un’opera profetica, ammaliante, allucinata, le cui radici stilistiche possono trovarsi nel primo Gogol’, che lo influenzò con Veglie alla fattoria presso Dikan’ka, e in uno dei primi racconti di Dostoevskij, La padrona. E non si può certo tralasciare la componente mistico-religiosa. Il romanzo è pervaso da un vibrante afflato messianico che vive attraverso i riti della setta dei colombi, i cui membri sono in attesa dell’avvento del Colombo-Spirito, redentore del mondo. Belyj stesso dichiarava di essere interessato alle varie manifestazioni del chlystismo, il ramo settario radicale dell’ortodossia russa. Ed è dalle pratiche dei chlysty che trae ispirazione per i suoi “colombi”.

Da traduttore: come è possibile penetrare in un groviglio linguistico così ardito? Quali sono state le sue strategie formali per rendere la lingua di Belyj e quali sono le caratteristiche specifiche, speciali di questo linguaggio?

La lingua di Belyj è un complesso sistema a più livelli che combina dialettismi e neologismi, linguaggio poetico e linguaggio “petroso”, giochi di parole, elementi del racconto popolare, figure sonore, onomatopee, anamorfosi semantiche, iperboli sintattiche. Talora l’impellenza dell’enunciato narrativo esita in un’assidua infrazione alle norme della punteggiatura: non di rado è possibile imbattersi in lunghi periodi disseminati di due punti e punti e virgola che influenzano il testo anche a livello ortografico e visivo. Se ci addentriamo nel dettaglio tecnico, ho cercato di rendere in italiano i riflessi di questo prisma linguistico valutando con estrema cautela ogni soluzione lessicale, nel tentativo di guidare il lettore entro le spirali di una costruzione linguistica che sarebbe potuta apparire a tratti restia a un’agevole decrittazione. In diverse occasioni ho consultato miei colleghi docenti madrelingua, vedendo a volte il dubbio intralciare le loro stesse interpretazioni, particolarmente in un paio di occasioni, e purtroppo non potevamo contattare l’autore e chiedere chiarimenti per ovvi motivi… ma le soluzioni si sono comunque trovate. È stato anche un costante lavoro di tornitura di parole e frasi, al fine di raggiungere un punto d’equilibrio tra il linguaggio e il precipitato narrativo che conservasse il più possibile la potenza dell’originale e allo stesso tempo conferisse una cadenza definita e uniforme alla prosa italiana.

Belyj ha attraversato la grande intelligenza del secolo, è stato amico di Florenskij, seguace di Steiner, sodale di Blok. Come possiamo sintetizzare la sua importanza nel territorio letterario occidentale? Perché era agito dalla necessità di mutare il vocabolario del suo tempo?

All’inizio del XX secolo l’anelito a un cambiamento e la negazione delle vecchie forme linguistiche a favore di nuove strutture espressive era un fenomeno che si osservava non solo in Russia ma anche in occidente. Era necessario evadere dalla reclusione delle vecchie categorie linguistiche, che ormai non bastavano a interpretare il reale. Era l’epoca stessa a richiederlo. È un momento di transizione e di rottura con la tradizione che si manifesta a vari livelli della cultura e dell’arte. Nel Colombo d’argento possiamo osservare questa rottura oltre che nel linguaggio, anche attraverso lo studio dei due emblematici personaggi femminili che orbitano intorno a Dar’jal’skij: Katja, l’“angelica” fidanzata, è metafora della “forma morta” della cultura borghese, è il passato, è l’anarchismo mistico (parodiato anche dal farsesco del personaggio Čucholka, compagno di studi di Dar’jal’skij, che nel romanzo si definisce “anarchico mistico”), è il  ritorno al classicismo, laddove Matrëna, la contadina butterata, raffigura lo slancio vitale verso il nuovo, è il misticismo, è la spiritualità popolare. Belyj, nella veste di romanziere e poeta, è riuscito a ottenere un radicale rinnovamento della lingua letteraria che ha influenzato la prosa e la poesia russa del Novecento e, relativamente all’occidente, ha precorso le innovazioni joyciane; come teorico, nel processo di analisi dell’arte, la sua influenza sui formalisti è innegabile.

Che rapporto ha avuto Belyj con la Rivoluzione russa? Le sue innovazioni linguistiche sono state comprese e riprese dalla letteratura sovietica? Insomma, esistono dei seguaci di Belyj?

Bely accolse con entusiasmo la rivoluzione dell’ottobre 1917, vedendola come una via d’uscita alla crisi di quegli anni, come un elemento vivificante da opporre all’inerzia e alla stagnazione, interpretandola in chiave mistica, come momento di rinnovamento spirituale e religioso; tutte idee confluite nel poemetto Cristo è risorto. È opportuno ricordare che nel pensiero di Belyj la rivoluzione, prima di essere evento storico che sovverte le strutture socio-politiche di uno Stato, è occasione di rinnovamento spirituale del popolo. Purtroppo però, il bolscevismo rinnovò ben poco relativamente alle aspettative dell’autore. Negli anni post-rivoluzionari, fino al 1920, prima di partire per Berlino, tenne corsi di “teoria della poesia e della prosa” presso il “Proletkult” l’Organizzazione Culturale-educativa proletaria che si proponeva di sviluppare e diffondere una nuova estetica della classe operaia, nel rifiuto della cultura borghese. Qui venne in contatto con due allievi che definire seguaci è certo fuori luogo, ma che senz’altro colsero i suoi insegnamenti: Nikolaj Poletaev e Vasilij Kazin. La sua influenza è stata invece notevole senz’altro su Artëm Vesëlyj, per la prosa ritmica, su Boris Pil’njak, per le tecniche narrative, stilistiche e per alcuni temi, e certamente su Pasternak, di cui Lazar Fleishmann ebbe ad affermare, nell’introduzione alle quattro lettere che Pasternak scrisse a Belyj, che “nello studio delle valenze letterarie di Pasternak, uno dei posti centrali dovrebbe essere indubbiamente occupato da Belyj”. Le ragioni a sostegno di questa tesi sono molteplici, e si tratta di un rapporto non ancora indagato abbastanza in profondità. Una delle principali è che Pasternak si vide prossimo a Belyj se non altro per il vagabondaggio spirituale in cui visse e che Pasternak interpretò come uno dei modelli vitali e creativi da seguire. Ma l’influenza non si esaurisce qui: motivi della sua opera esistono fino ai nostri giorni, in Sorokin e Pelevin.

Che idea filosofica, esistenziale forgia il pensiero di Belyj e dunque il suo sforzo letterario?

Belyj, pur non essendo un filosofo in senso accademico, era innegabile che fosse dotato di una brillante intuizione filosofica. Vladimir Solov’ëv e l’antroposofia di Steiner ebbero un ruolo fondamentale nel plasmare il suo pensiero. Solov’ëv si poneva l’intento di modificare la condizione umana attraverso la forma perfetta e unitaria della bellezza. La verità dell’esistenza aveva un fondamento estetico. L’essere materiale poteva introdursi nella sfera della moralità attraverso una forma mediata, spiritualizzata, e questa forma era la bellezza, “la trasfigurazione della materia attraverso l’incarnazione in essa di un principio diverso, trans-materiale”, e ancora: “Cristo rimane l’ideale perfetto di quella bellezza divino-umana che progressivamente, nel processo storico, l’umanità dovrà far propria ed estendere a tutto il cosmo affinché tutto risplenda della Bellezza divina, che tutto sia salvato e trasfigurato e ricondotto all’Unità” (La bellezza della natura). La bellezza è solo il passo iniziale verso il processo di trasformazione della condizione umana; è necessario per l’uomo cogliere questa scintilla e trasformarla in una fiamma, in un fuoco che illumini l’oscurità. Per questo è necessario un uomo-creatore, capace di trasformare la vita. Ed è l’arte il mezzo attraverso cui l’uomo può trasformare l’esistenza. Quest’arte trasformatrice, creatrice, che permetteva all’uomo di accedere al divino, fu definita da Solov’ëv “teurgia”. Questo concetto di mutazione della vita in forma d’arte fu l’oggetto della ricerca filosofico-spirituale dei simbolisti russi. Secondo Belyj il simbolismo non doveva limitarsi a essere solo una forma d’arte, ma doveva creare una nuova visione del mondo e della vita, attraverso cui l’uomo avrebbe potuto avvicinarsi a Dio. Condividendo la “teurgia” di Solov’ëv, per compiere l’impresa di rinnovamento del mondo, l’uomo doveva prima di tutto rinnovare sé stesso, rinascere a nuova vita, scardinare i confini della propria esistenza per partecipare del divino. Il simbolismo diviene così fondamento dell’arte perché è attraverso il processo creativo che la vita si rivela e questo processo può essere espresso solo per immagini e simboli. La vita può essere compresa solo attraverso il simbolo; tutte idee che definiscono la filosofia di Belyj come panteismo. Nel processo creativo, il simbolo è foriero della realtà e la parola s’investe di una valenza magica, epifanica, salvifica. L’arte è un prodotto dell’intuizione e non dell’esperienza. E il simbolismo per Belyj non è solo una delle tante possibilità artistiche, ma è un modo di vivere, è la vita stessa. Non era diventato un simbolista, ma lo era sempre stato, come egli stesso affermava. Da sottolineare, come già anticipato, anche l’apporto dell’antroposofia di Steiner, scienza che voleva “condurre lo spirituale che è nell’uomo allo spirituale che è nell’universo”, secondo le parole dello stesso Steiner. Belyj si recò personalmente a Dornach, presso il Johannesbau, edificio che era il cuore pulsante del movimento teosofico, collaborandone alla costruzione.

A cosa sta lavorando, ora? Che cosa varrebbe la pena tradurre – o vorrebbe tradurre?

Adesso sto lavorando a un romanzo storico ambientato alla vigilia della prima guerra mondiale, nel momento del crollo degli imperi, i cui eventi cardine sono l’omicidio di Rasputin, la nascita del movimento futurista e l’appressarsi del primo conflitto mondiale con le relative trasformazioni sullo scacchiere politico europeo. Si tratta di un romanzo in cui la narrazione storica s’intreccia alla fantasia dell’autore, con Rasputin e Majakovskij personaggi principali. Se torniamo sul terreno letterario, credo che sarebbe interessante tradurre Aleksandr Grigorenko, autore di opere dal contenuto che si potrebbe quasi definire sperimentale, che affondano le radici nel folklore e nel mito delle antiche popolazioni siberiane per interrogarsi sul rapporto tra l’uomo e la divinità, il peccato e la redenzione, il libero arbitrio e la predestinazione, in una trama intessuta di metafore, di elementi magici e razionali, sorretta da perizia ed eleganza stilistiche notevoli. E poi sarebbe auspicabile una maggiore solerzia nella traduzione delle opere di Pelevin (non tutte tradotte in Italia), visionario e acuto autore di culto, e di Sorokin, considerato uno degli scrittori più brillanti della sua generazione. Entrambi gli autori hanno vinto in Russia un premio conferito agli autori che si distinguono per l’aggiornamento e per l’innovazione delle forme di scrittura, il premio “Andrej Belyj”.

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