09 Agosto 2020

Guido Piovene: quattro itinerari per una gita inconsueta. Dalle vipere di Croveo alla Scandinavia sulla Sila

Una volta si voleva raccontare l’Italia. La si voleva raccontare nei pertugi, nelle ombre, nei vani ignoti. Si era, cioè, certi di almeno due cose. Intanto, che l’Italia è mille Italie, che ogni campanile ha vigore a sé, che le città hanno un volto, volitivo, imperiale. Insomma, che l’Italia – fortuna nostra – non esiste (ragion per cui, va scoperta). Poi. Che le città, i paesi, la virtù delle case, le mura e le murature, la forma d’arte e l’artigianato, il sistema urbanistico e quello mistico, raccontano l’uomo che vi vive. C’è un rapporto vitale, consustanziale, tra uomo e luogo, tanto che un tempo si riconosceva il paese di provenienza dai tratti del viso – quella è una ragazza di Mantova, quel tipo viene di certo da Torino… Una città, in sé, porta pure un valore morale, incarna un sistema di valori (ci sono paesi libertini e province puritane, spazi dove il residuo paganesimo non è stato estirpato e altri legati a doppia mano con la cattolicità romana). Ora, un po’ tutto è un pasticcio, tutto è posticcio, turistico, da cartolina, i luoghi esagerano fino al grottesco la propria ‘destinazione d’uso’. Il “Viaggio in Italia” di Guido Piovene, come si sa, è uno dei massimi esempi di quel desiderio di “capire chi siamo” attraverso i luoghi – e le persone che ne costituivano il carisma. Piovene era già scrittore di libri memorabili come “Lettere di una novizia”, quando, “nel maggio 1953”, da Bolzano, “città di fondo tedesco”, cominciò il Grand Tour di un italiano. Il viaggio “finì nell’ottobre 1956”, diventò un libro di successo, esemplare, costantemente ristampato. Piovene proseguì i suoi tour altrove, con inesorabile finezza narrativa: dalla Russia alla Francia, dagli Stati Uniti al latinoamerica. “Viaggio in Italia” restò libro unico: prima un volume ‘attuale’, poi una pagina di Storia patria. Ora, semplicemente, è magistero, è metodo. Da quel libro ho estratto quattro ispirazioni per un viaggio inusuale, tra vipere di monte, monti al Sud, panorami ancestrali. Buona gita. (d.b.)

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Croveo

Non si troverà sulla carta Croveo. Bisogna penetrare nella Val d’Ossola, svoltando però presto nella valle del Toce e arrampicandosi per due chilometri circa sul pendio della montagna. Montagna all’italiana. Prati d’un verde pregno di umide ombre azzurre, forse per la roccia scura che traspare tra l’erba. Molti alberi di noce, chiari, puliti, lucidi nelle foglie, nel tronco, e perfino nell’ombra. La pulizia del noce dà il tono morale al paesaggio. Croci, cappelle, tabernacoli, affreschi paesani; la Vergine che schiaccia il serpente, san Giorgio e il drago.

Il parroco di Croveo, don Amedeo Ruscetta, sebbene vada per gli ottanta, è il più importante viperaio delle Alpi. La sua casa-museo è preceduta da un giardino tagliato in due da un viale. In fondo, dall’alto di una scaletta, mi appare la curiosa figura del vecchio prete, la testa ricoperta da un berretto nero rotondo da antico baccelliere. La prima stanza della casa è riempita di sassi e di animali imbalsamati, e specialmente di serpenti, i maggiori dei quali con la lampada in bocca pendono dalle pareti o dal soffitto per far luce. Don Ruscetta divulga di se stesso una leggenda simile a quella d’Ercole. Bambino, andando a caccia di nidi, trovò in uno tre vipere, le afferrò, ed aprì loro la bocca per vederne i denti. Un’altra volta tornò a casa portando arrotolato al collo un serpentaccio che aveva mangiato un merlo, e con mediocre gusto dei familiari lo aprì per dimostrare che aveva il merlo nella pancia… Non ho descritto don Ruscetta. L’autodescrizione si legge in un’epigrafe dettata e fatta scolpire da lui sulla tomba già pronta nel cimitero del paese: “Sacerdote Amedeo Ruscetta – viperaio, parroco di Croveo – operoso leale faceto ospitale: maestro piacevole di fede e scienza attraverso la natura a Dio portò popoli e fedeli. – L’anima preclara – mover si volse tornando al suo regno”.

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Gubbio

Gubbio è un’altra Umbria; e dell’Umbria, la città più straordinaria. Non è dolce, né amena; ma nessun’altra ha una bellezza così alta. Questa capitale di antichi montanari appenninici, addossata alle pendici del monte Igino, fatta di blocchi di calcare e di mattone dalle tinte smorzate, cui solo nel rinascimento si unì in sordina l’arenaria, ha un colore uniforme, profondo, spento. È triste ed assoluta: è, per rubare la parola a un filosofo greco, del colore dei morti. Dallo spiazzo davanti al Palazzo dei Consoli si contempla un panorama di tetti arsi, con toni quasi africani. Ogni nota gaia o vivace qui sarebbe di troppo… Mi limiterò a notare che Gubbio ha per me un incanto come poche città italiane. Lontane dalle grandi arterie automobilistiche, essa attende che una nuova strada e lo sviluppo degli scavi, insieme con altri richiami religiosi ed artistici, vi portino i visitatori numerosi come ad Assisi. Sarebbe veramente troppo egoistico dire che la preferiamo così, poco distratta, silenziosa ed intensa. L’aspetto di Gubbio non deve però farci credere che l’Umbria sia ancora oggi la terra delle esaltazioni mistiche e delle sublimi follie. Vi si avverte piuttosto una religiosità diffusa, moderata, latente. In taluni individui affiora magari un fondo visionario, ma quieto e dolce.

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San Clemente in Casauria

Il senso dell’Abruzzo si ricava da quel folclore involontario, quasi inconsapevole di sé. Lo si ricava dal paesaggio e dalle vecchie pietre, monasteri e chiesette medioevali: più solenne di tutti San Clemente in Casauria, sperduto in un giardino, con quei re, quei leoni, quei grifoni, quei lupi scolpiti nei bassorilievi, e di sapore quasi assiro. Forse nessun complesso medioevale in Abruzzo mi ha impressionato come le due chiesette sui colli di Bominaco, l’una vicina all’altra nella campagna, dedicata una alla Vergine, l’altra a san Pellegrino. I simboli animali e orientaleggianti, orsi, pecore, lupi, derivano dalla vita dei pastori che forse un giorno sarà estinta, ma non può mutare. Un ciclo di rustici affreschi rappresenta le occupazioni dei dodici mesi dell’anno; qui si apprende che il marzo è destinato alle abluzioni, non consentite dall’igiene durante il freddo dell’inverno. Un contadino segue i visitatori, non accettando mance, solo per imparare dai loro commenti. Uomo privo di studi ha imparato così a discorrere con proprietà di absidi, architravi e amboni.

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Sila

Con la Sila si vede sorgere nel Sud un Nord paradossale. Questo paesaggio verde di boschi e di pascoli è la montagna vera nel senso nordico: ricorda i paesaggi trentini, come l’Alpe di Siusi o addirittura la penisola scandinava, per un misterioso riaffiorare dell’estremo Nord sulla punta meridionale della penisola italiana. Dalle pacifiche distese di prati e d’alberi, variate da piccoli laghi, non emergono, è vero, le punte di roccia o di ghiaccio, che nel Trentino sembrano concludere la visione. Tuttavia quello che resta dei boschi silani, poco per l’economista, abbastanza per il turista, supera certo di splendore i boschi svizzeri o trentini. Regna il pino silano, albero libero, i cui semi attecchiscono anche se portati dal vento; e che noi profani troviamo somigliante a un abete, ma più alto e più snello. Esso forma cattedrali arboree dai tronchi regolari e fitti, che si prolungano talvolta per qualche chilometro, avviluppando anche le cime, e riempiendo perciò la Sila di luoghi segreti. Si direbbe che il Mezzogiorno, costretto nelle forme di un paesaggio nordico, si manifesto sotto il travestimento con un sovrappiù di linfa. La Sila è una fantasia del Nord eseguita con rigoglio meridionale.

Guido Piovene

Gruppo MAGOG