09 Giugno 2020

“Oltre a me e a Che Guevara, ho scoperto che il 14 giugno è nato Donald Trump”. Per gli 80 di Francesco Guccini. “Ho scritto un vocabolario del dialetto di Pavana, che altrimenti sarebbe scomparso per sempre…”

Pare a tutti gli effetti una presa per il culo. E ha tutto per esserlo: da un lato due “poeti” che non si sono conosciuti ma che in qualche modo hanno dialogato in una canzone, dall’altro invece il totem dell’opposto. “Oltre a me e a Che Guevara, ho scoperto che il 14 giugno è nato Donald Trump”.

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Guccini fa di nome Francesco e il 14 giugno del 2020 compirà 80 anni. Già da tempo ha smesso di cantare e vive a Pavana. “Oggi scrivo libri gialli e faccio quello che ho sempre sognato di fare”. La scrittura quindi come un fiume. Si scende ma anche si risale. Come certi pesci, i salmoni per esempio. “Ho lavorano un anno e mezzo a La Gazzetta di Modena, prendevo 20 mila lire al mese. Era il 1960. Feci due settimane di ferie e presi 10 mila lire, così lasciai”. A vedere poi com’è andata, si può dire che abbia fatto bene.

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Quanto è conosciuto il Guccini cantautore in lingua italiana, tanto è meno noto quello dialettale. A parte qualche brano saporito – La fiera di San Lazzaro su tutti – la sua ricerca sull’idioma tosco-emiliano si è concentrata quasi tutta nei libri. Prendi Tralummescuro, uscito non da molto: se non sei mezzo bolognese o mezzo emiliano, ti serve il dizionarietto con la traduzione. C’è nel libro, ma at fadiga.

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Dieci anni fa, nel 2010, il Maestrone è passato al Teatro Regina di Cattolica. Non so né come e né perché, ma si era messo a tradurre in pavanese un’opera di Plauto, Mostellaria. Chiedo la possibilità di intervistarlo prima dello spettacolo. Posso, e lo raggiungo nei camerini.

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Che rapporto ha con il dialetto?

“Il pavanese è una lingua vernacolare che ormai parlano solo gli anziani tra loro. I pavanesi sono toscani e quindi hanno sempre avuto facilità a passare dal dialetto alla lingua, eppure c’è un maggior grado di emilianità, a differenza che in altre frazioni vicine. Sono nato a Pavana, il paese di mio padre, vi ho trascorso i primi cinque anni di vita e ogni anno vi tornavo per periodi più o meno lunghi. Nel 1985 ho cominciato la stesura di un vocabolario del pavanese, pubblicato nel 1998 per i mille anni del mio paese”.

Perché un vocabolario?

“Il mio vocabolario aveva un unico scopo: quello di conservare un dialetto come testimonianza di una piccola popolazione, anche se il dialetto poi è trasversale a tante altre popolazioni di quella stessa zona, che altrimenti sarebbe andato perduto, perché ormai questo dialetto è scomparso quasi totalmente, dato che lo parlano solo gli anziani che, per ragioni anagrafiche, stanno scomparendo. Io stesso che bambino non sono più non l’ho mai parlato e così i miei coetanei. Lo ricordiamo, sappiamo parlarlo all’occorrenza, ma parlarlo abitualmente non è mai successo. Quindi, diciamo, è solo servito a tenere fermo un patrimonio che altrimenti, nel giro di pochi anni, sarebbe scomparso del tutto. In quell’occasione sono state organizzare delle manifestazioni, delle iniziative. E io ho curato questo vocabolario. Mi piace il dialetto: ho tradotto tre commedie di Plauto. È buffo questo passaggio dal latino al dialetto pavanese; dialetto che finora non era mai stato scritto. È un’affermazione del dialetto. Siccome non viene quasi più parlato, ecco, ci tengo che qualcosa rimanga. Ho tradotto Plauto in pavanese e non è stato difficile, perché si tratta più o meno della stessa civiltà linguistica. È un dialetto che non si è adeguato al linguaggio corrente e alla realtà d’oggi, è un fossile, dunque è inevitabile che muoia, purtroppo”.

Perché Plauto?

“Di Plauto mi attrae la comicità elementare, la macchina scenica fatta di doppi sensi, gli stereotipi semplici, le situazioni che si ripetono, la familiarità con la nostra società. Plauto rappresenta la vita dei pavanesi degli anni ’30: un bicchiere di vino, una partita a briscola. Si tratta di un dialetto fruibile, orecchiabile. Credo che il pubblico riesca a capire il 99% delle battute. Ivano Dionigi, un grande latinista (ed ex Magnifico Rettore dell’Università di Bologna, ndr), ha trovato la mia traduzione molto divertente”.

Come ha lavorato sul linguaggio?

“Mi affascinano le parole. Darei chissà cosa per sapere come si dicevano ‘buongiorno’ i terramaricoli della pianura padana preistorica. Al di là delle parole, c’era il problema di tradurre le espressioni ‘per Giove’ o ‘per Ercole’ (‘mehercule’ in latino, ndr). Ho optato per un ‘diolài’. Nel piccolo dizionarietto pavanese la ragazza diventa ‘patozza’. ‘Pusignare’ invece significa ‘fare uno spuntino fuori pasto’, spiluccare. ‘Coiò’ equivale ad ‘acciderba’. I ‘burdigoni’ invece sono i grilli. Un esempio: ‘a ‘n n’ tanti burdigoni per la testa’ può essere inteso come ‘non ha tanti grilli per la testa’. E le ‘bùccole’ non sono altro che gli orecchini”.

Cosa rappresenta Pavana per lei?

“Ho vissuto principalmente in tre posti: Pavana, Modena e Bologna. Luoghi che ho raccontato nei romanzi Cronache Epifaniche, Vacca d’un cane e Cittanòva Blues. A Modena ho iniziato a suonare, in principio per imitare il rock ‘n roll. Modena l’ho cantata in Piccola città, Bologna nella canzone omonima, mentre per Pavana ho scritto l’album Radici. E Pavana è il luogo del ritorno che ricerco. Infatti ormai è qui che sono tornato a vivere”.

Alessandro Carli

*In copertina: Francesco Guccini in una fotografia di Isabella Perugini

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