Quest’anno ne farebbe 70. 70 anni. Non ci è arrivato. Denis Johnson è morto due anni fa, è stato un poeta della disperazione, ha scritto il romanzo allucinato sul Vietnam, Albero di fumo ne scrissi, con la consueta tracotanza retorica, così: “Prendi Joseph Conrad, drogalo a dovere, e fagli fare un giro a Las Vegas. Il risultato ti darà Denis Johnson, il Lord Jim della letteratura contemporanea, duce nel sottosuolo del romanzo americano” – ha edificato una Iliade dei reietti, una epica degli alienati, con un talento obliquo che stordisce. L’anno scorso, dai cassetti mortuari, hanno cavato dei racconti inediti di DJ, pubblicati come The Largesse of the Sea Maiden; contestualmente, Einaudi ha fatto ritradurre il libro-culto di DJ, Jesus’s Son, pubblicato in origine nel 1992, diventato film – bruttino – nel 1999, atterrato in Italia nel 2000. Novanta pagine, undici racconti, bellezza che dilania, scrittura come coltello alla gola e iena sul petto, le memorie dal sottosuolo del nostro tempo, come se ti gettassero un leopardo nella vasca da bagno, mentre stai lì, beato, in una Gerusalemme celeste di spuma. A metterci mano, in questa nuova versione, Silvia Pareschi, un fenomeno – ha tradotto, tra le tante cose, Il guardiano del frutteto di Cormac McCarthy, poi molto Jonathan Franzen, Alice Munro, Don DeLillo, la studiate qui, ad ogni modo –, a cui ho chiesto di DJ, per capire. Il resto è quello che scrivo sempre, più una cosa. Primo: Johnson esordisce come poeta – nel 1969, con The Man Among the Seals, nel 1981, per The Incognito Lounge, incassa gli applausi di Mark Strand – e gli resta addosso l’odore di bestia in fuga con la lingua d’argento del poeta. Traducete le sue poesie, cavolo. Secondo: Jesus’ Son era l’altare privato su cui Simone Cattaneo raffinava le sue poesie. Senza Simone, non conoscerei DJ – ora i due, assieme, si berranno San Pietro sciolto nel rum. Una cosa in più. “Da sotto la porta chiusa si è sprigionata una lastra di fulgore, come se, grazie a qualche stupefacente processo, lì dentro stessero incenerendo diamanti”. Primo racconto di Jesus’ Son. S’intitola Incidente durante l’autostop. Così DJ descrive l’urlo di una donna, “magnifica, ardente”, a cui dicono, in ospedale, che il marito è morto. Che devastante e meravigliosa descrizione dell’urlo e del dolore. Il dolore come mucchi di diamanti inceneriti. Onore a Denis. (d.b.)

Denis Johnson. Come si entra in quel linguaggio lucido e cruento? Che valore ‘elettrico’ ha Johnson nella letteratura statunitense contemporanea? 

In una recensione a Mostri che ridono, Joy Williams scrive che DJ si avvicina per sensibilità al grande Robert Stone, anche se di Stone gli manca la padronanza della trama e della struttura. “Tuttavia”, prosegue, “non leggiamo Johnson per il suo metodo, ma per l’effetto perturbante e le luminose sorprese”. Un libro come Albero di fumo, per esempio, alterna pagine a volte sconnesse e oscure a illuminazioni di scrittura potente e cristallina, come il folgorante incipit o la straordinaria morte del sicario raccontata in prima persona. È una scrittura che viene dalla poesia (perché Johnson è stato prima di tutto un poeta), e nella quale meglio si entra lasciando fuori le questioni, appunto, di metodo. Perché DJ era uno scrittore discontinuo, certo, eppure anche i suoi libri meno riusciti vibrano di una voce profondamente e unicamente americana, vivida, spesso intrisa di humor nero e di un’acuta immediatezza fisica ed emotiva, di descrizioni estatiche, di una capacità di osservazione così compressa che in poche frasi riesce a ottenere una qualità visionaria. Ci sono modi alternativi di guardare il mondo, ci dice DJ, e alcuni di essi sono più vicini alla verità di quanto possano esserlo i fatti nudi e crudi.

Certo, tra Jesus’ Son e Albero di fumo, pur in una coerenza esistenziale, si avverte un diverso approccio linguistico: è così? Spiegaci.

Fra i due libri sono passati quindici anni: Jesus’s Son è del 1992 e Tree of Smoke del 2007. Il primo – libro culto della letteratura americana contemporanea – è scritto in una lingua spoglia e luminosa che ricorda per certi versi Hemingway e Carver (il quale era stato insegnante di DJ all’Iowa Writer’s Workshop). È proprio grazie a questa lingua che DJ riesce a trasformare una serie di personaggi falliti e marginali in angeli dannati di proporzioni mitiche. Le loro disavventure sono raccontate con una prosa diretta e disadorna, il prodotto di una mente annebbiata che attribuisce la medesima importanza a ogni cosa, che sia una nuvola o un cadavere. E ogni tanto, in questa prosa imperturbabile, spuntano senza preavviso momenti di intensa poesia. Albero di fumo è un romanzo lunghissimo, ambizioso e caotico, coinvolgente pur nella sua fondamentale mancanza di trama, costruito con segmenti di vita di alcuni personaggi coinvolti nella guerra del Vietnam. Ma al di là della lunghezza trovo che in realtà non sia cambiato molto dal DJ dei racconti a quello di questa epopea psichedelica. La differenza si nota più che altro fra la compattezza dei racconti e la discontinuità del romanzo di cui parlavo prima, ma le caratteristiche della sua scrittura rimangono immutate.

Che libro vorresti tradurre? E poi, qual è stato il libro che hai faticato di più a tradurre. E quello che più ti ha divertito tradurre. 

Uno dei libri più difficili che ho tradotto, che però mi ha dato grande soddisfazione, è La breve favolosa vita di Oscar Wao, di Junot Díaz. In un libro del genere, la ricerca linguistica è la chiave di tutto. Díaz gioca di continuo sull’interazione tra inglese e spagnolo (il cosiddetto spanglish) e cambia continuamente codice, passando dal colloquiale al letterario, creando un melting pot lessicale fatto di frasi caraibiche, gergo dei neri americani, slang di strada. Inoltre alla narrazione tradizionale si mescolano continuamente richiami alla fantascienza ai fumetti al fantasy, con una creatività linguistica davvero vorticosa. Il libro che mi sono più divertita a tradurre è, di nuovo, Oscar Wao. I momenti di massimo divertimento per un traduttore sono quelli in cui può giocare con la lingua, addirittura inventare parole nuove (come nel caso della parola ‘strizzacervelli’, introdotta da Marisa Caramella nella sua traduzione di Paura di volare per rendere il termine shrink, contrazione di headshrinker, restringiteste), e il libro di Junot Díaz pullula di parole inventate, soprattutto parolacce (le parolacce sono un campo molto fertile di invenzione linguistica). Prendiamo per esempio la frase: “He had the worst case of no-toto-itis I’d ever seen”. Toto, nello spagnolo dominicano, vuol dire fica. In italiano, usando l’alfa privativo per dare una connotazione pseudo-scientifica, la traduzione diventa “Soffriva del peggior caso di aficasia che avessi mai visto”. Per quanto riguarda il libro che vorrei tradurre, be’, sono un’ammiratrice di Margaret Atwood da tempi non sospetti, cioè da molto prima della serie Tv che l’ha trasformata da autrice molto nota a fenomeno mondiale (il suo libro che ho più amato è L’assassino cieco). Perciò confesso che sarei molto felice di tradurre il seguito del Racconto dell’ancella.

Cosa si muove, oggi, nella letteratura americana contemporanea? Su quale ‘nuovo’ autore punteresti alto, quello che tra 50 anni sarà un ‘classico’?

Ogni dieci anni, la rivista “Granta” pubblica una lista dei 21 migliori scrittori americani sotto i 40 anni. Come succede ormai da tempo, molti degli scrittori emergenti sono immigrati di prima o seconda generazione, specchio di un paese fatto di molte culture e molte etnie. Penso alla ghanese Yaa Gyasi, all’ucraina Sana Krasnikov, all’indiano Karan Mahajan, all’etiope Dinaw Mengestu, alla nigeriana Chinelo Okparanta. Tra gli scrittori non citati nella lista di “Granta”, vorrei ricordare soprattutto Jesmyn Ward, l’unica donna ad avere vinto due volte il National Book Award (e ha solo 42 anni!), con Salvare le ossa e Sing, Unburied, Sing.

Ultima. Ti piace la letteratura italiana contemporanea? Qual è il libro, da lettrice, che ti ha sconvolto, che ti ha mutato, se esiste?

Confesso di non leggere moltissima letteratura italiana contemporanea. Mi piace Michele Mari, e l’ultimo libro che ho letto e mi è piaciuto è Resto qui di Marco Balzano. Per il resto leggo e rileggo soprattutto i classici del Novecento, da Sciascia a Calvino, da Vittorini a Morante, ma anche Palazzeschi, Busi, Buzzati, Landolfi, Ortese, Brancati… Il libro che mi ha cambiata non esiste, nel senso che ogni libro che leggo mi cambia un po’. È anche per questo che si legge, no?

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