11 Marzo 2019

“Gli scrittori di oggi non mi attraggono: Putin, Erdogan sono solo metastasi della grandezza di Napoleone”. Dialogo con Roberto Pazzi

Un libro mica ombelicale, ma magistrale, per fortuna, perché l’ombelico di quell’uomo fu il binocolo del secolo, fu un trono, audacemente vuoto, però, perché egli aveva l’estasi e lo scatto, quell’uomo aveva la fretta dei prediletti e in quindici anni visse quindici secoli, con la stessa impareggiabile furia di Alessandro Magno – “la sua Grande Armata lo faceva sentire davvero emulo di Alessandro Magno” – mirando a misurare le estremità del potere, consapevole che la fine di certi uomini – aureo, corrusco, delicato Giovanni Pascoli, incipit di Alexandros, “Giungemmo: è il Fine” – è la fine di una civiltà, di un’era. Roberto Pazzi, narratore tra i grandi e radiosi – ne cito quattro per tutti, Cercando l’Imperatore, Vangelo di Giuda, La città volante, Conclave, ma è irrilevante il fatto che Pazzi abbia esordito come poeta – sfida la narrativa italiana, in soggezione di fronte ai grandi temi e ai grandi personaggi, raccontando Napoleone. Lo fa ribaltando una cornice letteraria neutrale – Napoleone a bordo della Northumberland, nell’ottobre del 1815, viaggia, finito, sfinito, Verso Sant’Elena (Bompiani, 2019) – in una scorribanda di sogni, di visioni – l’Eugénie risorta dal romanzo giovanile dell’Imperatore, Clisson ed Eugénie – di sketch in cui terzi, nemici, amici, invidiosi, amanti, ne ricordano le gesta – “…l’ho ammirato. E allora mi sono immedesimato nella sua parte, mi sono chiesto che cosa potesse provare davanti a noi uno che nasceva povero, in un’isola selvaggia, con una famiglia di sette fratelli da mantenere, morto prematuramente il padre. Un parvenu che in pochi anni saliva tutta la scala sociale e si assideva su un antico trono, pari a sovrani dinastici, al potere invece da vari secoli”, pensa lo zar, in vigoria onirica, nel Palazzo d’Inverno. Capitoli conchiusi, recinti in una scrittura cristallina, aristocratica e algebrica, per un romanzo che si risolve in meno di 200 pagine – la misura, la misura, il ritmo perfetto, che Pazzi, dopo una ventina di romanzi in 35 anni, conosce molto bene. Lo leggi in un sorso, insomma, rovinando in un’epica allucinata dalla nostalgia – “Il mondo, che è così vasto, così vario, così imprevedibile, si restringe a puro desiderio, a dolce ferita dell’assenza, in una nave addormentata, che dimentica la rotta, quasi alla deriva, fuori dalla Storia” – seguendo la scia di luce di Napoleone, che già prevedeva lo scintillio e il dirottamento, la gloria e l’infamia – “Tutto ei provò”, è la lirica sintesi di Manzoni. Ma spesso tracciare una via nell’ignoto della Storia, fiocinare gli Stati con un concetto e un’armata è meglio che resistere e restare, c’è chi è eroico e chi mette a frutto grammi di nobiltà ereditati da altri. Insomma, finalmente un romanzo fiero di essere tale, senza manette sociologiche o smanettamento sperimentale. Dialogare con Pazzi, a questo punto, è inevitabile. (d.b.)

Napoleone. Da Manzoni a Tolstoj al Pascoli, i grandi scrittori, i sommi poeti sono stati affascinati dal condottiero. Come le è venuta in mente l’idea di un romanzo come “Verso Sant’Elena”, in che contesto, quando, perché?

Ho covato l’idea dai tempi della giovinezza, quando fra le mie letture preferite c’erano le biografie degli eroi, come Alessandro Magno, Annibale, Cesare e Napoleone. Adoravo l’Iliade, allora, più dell’Odissea. I destini alla Achille, di una vita bruciata dalla gloria per poi sparire prima di intristire nella vecchiaia, mi affascinavano. Avevo ed ho ancora alla mia bella età fame di epos. Napoleone, come per Stendhal, era emblematico di tutta questa fame di epicità. Poi vennero le letture di Rilke, con l’Angelo e con gli Eroi che corrono a compiere nella morte il loro destino. Ma questo dopo, sui trent’anni, e tenga presente che le due letture folgorati che mi hanno insegnato la scrittura sono stati Proust a 23 anni da militare (mentre Sereni mi scriveva che cosa dovevo leggere su Proust, appena consegnata la tesi di laurea in estetica su Saba, con Luciano Anceschi) e Rilke appunto, grazie all’incontro con un suo bravo traduttore. Sono poi irresistibilmente attratto dalla tragedia che consacra i Grandi Vinti poiché li purifica dal male… mi aveva fulminato in terza media Il 5 maggio di Manzoni, per mia fortuna imparato a memoria. Vede, io non amo il microautobiografismo che caratterizza i narratori italiani, forse ancora sulla scia di un certo Moravia. Non mi incanta apprendere quel che fanno sotto le lenzuola i personaggi di un libro. L’ho fatto con un solo romanzo, La trasparenza del buio, ma per tutti gli altri 20 (ne ho scritti 21 con questo ultimo) ho cercato altre strade, altre vite. Lei avrà letto La certosa di Parma, ecco io sono stato con Napoleone, un poco come Fabrizio del Dongo che lo cercava sul campo di battaglia di Waterloo, per questo ho scritto del viaggio verso Sant’Elena. Che cosa poteva pensare un uomo così quella notte prima di arrivare? Il romanzo è nato da questa domanda.

Mi sembra molto convincente la struttura narrativa del romanzo, per sketch ‘emotivi’. Sulla barca che lo porta a Sant’Elena, come una chiatta infernale, Napoleone ripercorre e rivede la sua vita (o la leggiamo attraverso parole di terzi). L’impegno documentario, soprattutto, mi sembra imponente perché lei fa parlare diversi personaggi intorno all’Imperatore in disgrazia. Ecco: cosa ha letto, dove ha studiato per giungere a quella particolare forma romanzesca? Intendo, anche, le fonti ‘letterarie’. 

Le mie fonte letterarie risalgono alle favolose letture fatte sotto i 20 anni o giù di lì: Tolstoj, Guerra e pace, I Miserabili di Hugo, Stendhal già citato, Il 5 maggio del Manzoni, e poi le memorie del cameriere personale di N. Louis Marchand che gli chiuse gli occhi quella sera del 5 maggio 1821 alle 17,50, memorie che erano un terribile atto di accusa verso gli inglesi e il governatore aguzzino Hudson Lowe, che pure nel mio romanzo salvo per le ragioni che lei ha letto. Ma soprattutto fondamentale fu la lettura del Memoriale di Sant’Elena, di Las Cases dettato da N. al marchese fra il 1815 e il novembre del 1816. Letto tre o quattro volte nell’arco di trent’anni. Fu un best seller dell’Ottocento. Vendette milioni di copie arricchendo i Las Cases. Mentre scrivevo il romanzo fra il 25 novembre del 2016 e la fine di gennaio del 2017, procedevo così: di giorno scrivevo il libro, la sera leggevo biografie di Napoleone, ne ho lette 15. Le più memorabili quella di Emile Ludwig e quella di Francesca Sanvitale, Il figlio dell’Impero. Ma anche scritti di uno storico russo e la biografia infame di Walter Scott che da buon inglese mostrificava N.

Leggo, nel romanzo, pur sgravato da intellettualismi, una riflessione narrativa sul potere. Quando Napoleone è perduto, riacquista la sua vita, in forma di sogno. È così? Cosa ci affascina ancora di Napoleone?

La chiave di questo libro segreto è la mancanza di Tempo, il Tempo che è scaduto, ma questo umanizza l’eroe, perché è il destino di tutti. Verso Sant’Elena vuol dire per tutti andare verso la fine, giorno pe giorno mese per mese anno per anno. Ho sempre in testa una domanda del re ne Il re muore, di Jonesco: “Perchè sono nato se non era per sempre?”. N. sogna l’altra vita che avrebbe potuto vivere accanto alla donna sulla quale aveva scritto a vent’anni un romanzo d’amore, Eugénie eroina di Clisson ed Eugénie che ho scovato pubblicato in italiano da Sellerio nel 1980 edito in Francia nel 1926. Ho fatto uscire Eugénie dal libro e l’ho fatta diventare il sogno dell’altra vita che N. non aveva vissuto, una vita normale, in una casa in campagna con figli terra da coltivare, animali… la tentazione di viverla arrivato a Sant’Elena, l’altra vita che non fu la sua. E chi giunto alla fine o verso la fine non sogna le altre vite che avrebbe potuto vivere? Mi affascina tutto di N. è difficile scegliere, anche i difetti, come l’arroganza, la presunzione, l’egoità che talvolta lo accecava… Ma erano inezie davanti ai pregi, la fulminea intuizione della manovra giusta sul campo militare, la rapidità dell’intelligenza, l’intuito che aveva sulle persone, l’ascendente straordinario che godeva sui soldati di cui condivideva ogni fatica, la semplicità dei gusti che rifiutava lo sfarzo, l’amore per la sua famiglia che pure lo tradì con l’eccezione di Paolina, lo sprezzo della morte, il coraggio, la fame di gloria, la spinta rivoluzionaria nel suo codice esteso. Goethe lo adorava, anche Hegel ne rimase impressionato. Manzoni alla Scala incontrò per caso lo sguardo magnetico di quegli occhi grigi, “i rai fulminei”. Mi fa soffrire il vuoto storico di oggi, dove ci sono solo delle metastasi della grandezza di N. come Trump, Putin, Salvini, Orban, Erdogan. Tenga presente che N. come Cesare e Alessandro non era solo bravo in battaglia ma era anche un grande politico. Cesare però lo batteva, era un grande scrittore oltre che un grande condottiero. N. ebbe bisogno di un biografo.

Lui è Roberto Pazzi: tra l’altro, è stato per due volte tra i vincitori del Premio Campiello e nel 1999 finalista al Premio Strega

A un certo punto, lei sottolinea l’ossessione di Napoleone per Alessandro Magno. Cosa costringe a suo avviso un uomo, a esporsi verso gli estremi, a esplorare i confini delle sue possibilità umane e di potere? Sembra quasi che queste personalità siano schiave della Storia, dominate da una ferale ossessione…

La fissa di N. l’aveva ereditata da Alessandro, conquistare l’India attraverso il dominio della Russia. Forse perché voleva colpire al cuore l’Inghilterra nel suo dominio di quel grande Paese. Ma forse ha capito questo meglio di tutti Pascoli nel suo Alexandros, aveva un daimon che lo portava a non fermarsi mai. Sant’Elena lo fermò ma lo aureolò del Mito, come un novello Prometeo avvinto alla rupe dell’isola come il titano al Caucaso, vittima delle potenze oscurantiste e reazionarie della Santa Alleanza. Lo sapeva di essere diventato già da vivo mito: la corona più importante me l’hanno data gli inglesi, la corona di spine. Ho dimenticato di dire che questo personaggio viveva già in alcuni capitoli di mie opere precedenti, come La principessa e il drago edito da Garzanti nel 1986 finalista allo Strega, e La malattia del tempo edito da Marietti nel 1987 e poi ristampato da Garzanti nel 1989.

Ultima. Un giudizio sommario sulla letteratura italiana recente. Cosa legge? Le piace? Chi è stato, nella sua vita, lo scrittore – se c’è stato – che considera maestro?

Non sono attratto da nessun vivente, lo confesso, fra i miei colleghi di oggi. A parte Canale Mussolini di Pennacchi vero romanzo epico corale, rincorrono le prime pagine dei giornali, rincorrono il sociale. Oppure parlano dei cavoli loro, ricorrono al microautobiografismo, un esempio per tutti il Fedeltà del già proclamato vincitore dello Strega. Ho amato molto Buzzati, ho il culto de Il deserto dei Tartari, Calvino fino alle Cosmicomiche, soprattutto Il barone rampante e Le città invisibili. Ho amato Landolfi, Palazzeschi narratore, Gadda da impazzire, qualche racconto di Tabucchi che fu al Campiello con me nella cinquina del 1985 quando entrai con Cercando l’Imperatore che da molti amici è appaiato a Verso Sant’Elena, narrando la tragedia degli ultimi Romanov nel 1918. A Damasco, trasmissione radiofonica sui 5 libri prediletti, ho parlato anni fa di: Proust e la Recherche, Memorie di Adriano della Yourcenar, Il deserto dei Tartari, Cent’anni di solitudine di Marquez e Il Maestro e Margherita di Bulgakov… Oggi avrei imbarcato anche Viaggio al termine della notte di Céline.

*In copertina: François Gérard, “Bonaparte, Primo Console”, 1803

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