12 Dicembre 2017

“Con gli occhi immersi nella paura”: la storia di Stefano Carini, il campione di snowboard che ha fotografato l’orrore in Iraq

Dieci anni fa era tutta un’altra storia. Stefano Carini, torinese, classe 1985, si faceva chiamare ‘Kinder’ ed era un fenomeno dello snowboard. Il ragazzo ha talento da vendere, doma la neve come chi fa shopping sul dorso di una tigre. Poi la vita prende parabole vertiginose, improbabili. Tre anni fa, nel 2014, Carini si trova nel luogo più pericoloso del pianeta, quello dove non vorresti essere mai, nella bocca dentata del Cerbero.

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Su tutte le immagini pubblicate ©Stefano Carini / DARST

Carini, viso virile e sguardo d’acciaio, ha mollato la tavola per la macchina fotografica, la passione di sempre. Si fa le ossa come photo editor per l’azienda fotografica Noor Images di Amsterdam. Ad Amsterdam incontra un fotografo iracheno, Kamaran Najm, che gli offre di lavorare con la sua agenzia, la prima agenzia di fotografi iracheni. Nel 2014 è a Sulaymaniyah, nel Kurdistan iracheno. Non è lì a fare l’eroe. Quando sbarca, in Iraq è ancora epoca di calma apparente. Solo che quando Carini atterra in Iraq, un mese dopo, cambia il mondo, cambia la Storia. L’Isis avanza come una piovra, Mosul è accerchiata e sconfitta, il suo amico, Kamaran, viene rapito, e non se ne saprà più nulla. Un altro avrebbe girato i tacchi per tornarsene nella placida Europa. Carini no. Resta. Afferra la macchina fotografica. Si strappa le pupille e le getta nel golfo dell’orrore. Fotografa. Lavora. Insieme ad altri fotografi s’inventa il progetto Map of Displacement, in cui, passo per passo, scatto per scatto, si testimonia l’avanzata dell’inferno in Iraq. “I diciotto mesi che ho trascorso in Iraq sono stati i più intensi mesi di tutta la mia vita, pieni di eventi incredibili, tragedie, dolore, guerra, successi, amore, leggerezza e follia”, scrive lui, presentando il suo libro fotografico, il diario dell’incredibile, La Donna, la Luna, il Serpente, realizzato in forma indipendente, tramite un progetto di crowdfunding divulgato da ‘produzionidalbasso’ (trovate tutto qui). Dalla tragedia alla leggerezza, dal dolore all’amore. Emerso dagli inferi iracheni, Carini, che abita in Sicilia, ma mi parla da Torino e ha una testa zingara che vaga nel resto del mondo, ha fondato insieme a Dario Bosio l’atelier fotografico digitale Darst, che è poi un opificio creativo nato con lo scopo, vertiginoso, di dare avvio a “una rivoluzione culturale nel modo di produrre e consumare le immagini”. Con micidiale dedizione e audace vitalità, Carini continua a dare voce e volto agli ultimi, a chi ha attraversato l’inferno per costruire il proprio spoglio paradiso su questo mondo.

Spiegaci il tuo amore per la fotografia. Come nasce. Che studi fai. Dove vai.

“Ho sempre avuto la fotografia intorno a me, in forme diverse, in diversi contesti. Mi ha sempre affascinato il processo fotografico, e tutto ciò che ci sta intorno, in particolar modo l’approccio dell’essere umano al momento fotografico. Da bambino strisciavo sui prati in alpeggio per avvicinarmi alle marmotte, agli stambecchi, ai camosci e poterli fotografare meglio. Ho fatto molti anni di snowboard da professionista: lavoravo spesso con i fotografi, ma stavo io dall’altra parte della camera. Ho poi scoperto solo più tardi le capacità della fotografia di raccontare storie, eventi, vite. Ho avuto la fortuna di vivere in molti posti diversi, di conoscere molta gente che viveva con la fotografia e di scegliere sempre come e dove lavorare, collaborando con alcuni dei migliori al mondo. Così è nata la passione/ossessione per l’immagine e per la cultura visuale”.

Hai lavorato in Iraq, dal 2014. In che circostanza, come mai? Hai vissuto in prima persona la catastrofe di Mosul, degli sfollati. Raccontaci l’episodio più atroce, quello più bello.

“Mi sono trasferito in Iraq nel maggio 2014, dopo aver conosciuto Kamaran Najm, fotografo iracheno e fondatore di Metrography, la prima agenzia di fotografi irachena. Andavo in un paese in pace a lavorare con i fotografi iracheni come project manager e photo editor dell’agenzia. Carini 2Il 10 giugno, un mese dopo il mio arrivo, Mosul è caduta nelle mani dei militanti di ISIS (Islamic State in Iraq and Syria) che in tre giorni sono arrivati alle porte della capitale Baghdad, conquistando centinaia di km di territori, sfollando più di un milione di persone e causando una delle più grandi catastrofi umanitarie dalla Seconda guerra mondiale. Inoltre il 12 giugno, il mio capo, la persona che mi aveva portato in Iraq, è stato rapito dai miliziani. Di lui non abbiamo mai più avuto notizie. La mia decisione di rimanere per mandare avanti il lavoro dei fotografi è stata immediata, semplice e non ha avuto nulla di eroico. Per me non c’era altra soluzione se non fare ciò che sapevo di poter fare e, in parte, di dover fare. Gli episodi sono tanti ma sicuramente l’incontro con i bambini sfollati è stato molto forte, molto difficile. Ricordo in particolare l’incontro che ha dato il via a un progetto fatto con i fotografi, Map of Displacement. Tornavo da Duhok verso Erbil nell’agosto 2014. Sono sceso dalla macchina, fradicio di sudore mi sono caricato le borse in spalla e mi sono incamminato, ma non sono potuto andare oltre. Avrà avuto cinque o sei anni, non di più; pelle e capelli bruciati dal sole. A piedi scalzi mi è corso incontro, tenendo le braccia tese e le mani unite davanti al petto. Mi guardava insistendo con la mano e pregandomi con gli occhi immersi nella paura; erano occhi quelli che avevano visto troppo, la cui innocenza era stata strappata, improvvisamente. Tutto intorno a noi polvere e caldo. Le strade di Ainkawa stracolme di gente; ogni angolo, ogni strada, ogni pezzetto di ombra era diventato un rifugio. Il più bello invece è sicuramente l’incontro con l’amore. Ma di quello è difficile dire”.

Quale è stata la fotografia che è stato più difficile scattare, se c’è stata, e perché?

“Non credo ci sia stata una fotografia veramente difficile da scattare. Forse i ritratti sono i più difficili, quando parli con qualcuno a lungo, e poi viene il momento di scattare quel ritratto, in atmosfere alle volte molto strane, delicate, intime e surreali. Sei lì a bere del tè con una persona che hai conosciuto da magari due o tre ore, a volte meno. Questa persona ti ha già fatto entrare in casa sua, offerto il suo cibo, aperto le sue porte. Non contenti, noi chiediamo ancora di più, e scattiamo. È bello e strano, ambiguo e misterioso, ma assolutamente eccitante e ossessionante”.

La tua vita, fatta, narri, anche, di “amore, leggerezza e follia”, è raccolta nel libro La Donna, la Luna, il Serpente. Perché questo titolo? Spiegaci meglio questo progetto bibliografico. 

“Io in Iraq non ero andato a scattare foto. Tutt’altro. Volevo lavorare con i fotografi, guidarli nella produzione di storie personali, e di un grande progetto collettivo. Sono poi successe molte cose, che mi hanno portato a fare anche tanto altro. Ho mandato avanti l’agenzia fotografica praticamente da solo per mesi senza sosta, 15 ore al giorno. Carini 3La fotografia è diventato un mio esercizio per obbligarmi a staccare dal computer: passeggiare e fotografare per la città mi aiutava a schiarirmi la mente. Alla fine in quelle foto ho visto un racconto, diverso da tutto quello che conoscevo, e ho pensato che magari poteva essere interessante anche per altri. Scrivere è stata una necessità sentita dopo un anno dalla mia partenza dall’Iraq, per capire un po’ meglio cosa fosse successo. Questo libro è il mio modo di mettere ordine in quel vortice pazzesco durato 18 mesi che è stata la mia vita in Iraq. È un incontro personale con una terra costantemente intrappolata nella guerra e la sua gente, ma è anche un diario che racconta la mia vita intima, le mie riflessioni, gli aneddoti in un tentativo di condividere un’esperienza eccezionale ed irripetibile in un susseguirsi assatanato di eventi, incontri e situazioni. Il titolo, La Donna, la Luna, il Serpente riprende tre simboli molto forti di cambiamento, fertilità ed evoluzione, tre simboli che sono ritornati spesso nella mia vita in Iraq e che ritornano molto nelle pagine del libro e che rappresentano un po’ la speranza”.

Mi ha colpito la piattaforma ‘artistica’ Darst, di cui sei protagonista e direttore. Cosa significa nomadic art studio?

“Significa che per ora siamo nomadi alla ricerca del nostro posto, del nostro spazio e delle nostre radici. Io vivo a Scicli con mia moglie Anwar, il nostro piccolo Dario e presto una bimba. Il mio partner Dario Bosio, un grande amico ed eccellente professionista, invece fa base a Torino, ma sta in giro per l’Europa ed il Medio Oriente gran parte del tempo. Nel frattempo però, al nostro rientro dall’Iraq, volevamo continuare a lavorare insieme e avere una nostra piattaforma per la ricerca, per la produzione e per la divulgazione di progetti ibridi, fatti di immagini si, ma anche di molto altro. E quindi ci piace definirci uno studio nomade di arte documentaria. Siamo abituati a fare tutto da un portatile: dal montaggio video alla post produzione passando per il design di libri. Siamo un po’ zingari, ma credo che getteremo una buona base nel Mediterraneo, uno spazio largo dove poter lavorare in pace, magari invitando altra gente a collaborare su progetti che riteniamo urgenti, scomodi, che magari offrano diversi spunti di vista rispetto alle tendenze più dominanti”.

Nel progetto Darst tu denunci, chiaramente, di voler costruire “una rivoluzione culturale nel modo di produrre e consumare le immagini”. Cosa intendi?

“Viviamo in un’era molto affascinante, anche per quanto riguarda il mondo delle immagini, questo mezzo di comunicazione così onnipotente. Siamo inondati da miliardi di immagini ogni giorno, su ogni supporto possibile ed immaginabile. Lo sviluppo della tecnologia a me pare non andare di pari passo con lo sviluppo e l’evoluzione della coscienza umana, della nostra cultura, e della nostra capacità di assorbirne di nuova. Noto un uso delle immagini da parte di consumatori, ma ancora più dei produttori, sconsiderato, dannoso e pericoloso. Il mio obiettivo, attraverso DARST, è di spingere per una produzione, ma anche per un consumo, a misura d’uomo, mirato all’informazione, alla condivisione, all’arricchimento della memoria visiva collettiva e sicuramente ad un’educazione all’immagine per i più giovani che possa dar loro i mezzi necessari per leggere e usare le immagini in modo più profondo, consapevole e partecipato”.

Come vivi con la fotografia? Vendi le tue fotografie? A chi?

“Vendo fotografie mie ai giornali, vendo fotografie di altri ai giornali, produco e vendo libri, curo mostre mie e mostre di altri, ideo, produco e curo progetti collettivi, dirigo workshops e progetti educativi, collaboro con molti artisti, e vado in giro a parlare della mia esperienza. Insomma, faccio tutto ciò che serve per perseguire i nostri obiettivi, ed evitare di rimanere per strada. Ma non faccio pubblicità né lavori commerciali, e raramente scatto foto su commissione. Sono fortunato, sono libero e sono totalmente indipendente”.

E ora? A cosa stai lavorando? Cosa stai fotografando? Che cosa hai intenzione di fare nel prossimo futuro?

“Mi piace lavorare su più progetti contemporaneamente quando possibile. In questo momento sto ultimando il mio libro e organizzando una serie di presentazioni in giro per l’Italia per promuoverlo; poi sto preparando la proposta educativa di DARST, con workshops, seminari e corsi particolari; sto cercando di spostare la mostra Over My Eyes, stories of Iraq dal Centro di Arte Contemporanea di Praga verso l’Italia; faccio ricerca fondi per alcuni progetti già in fase esecutiva e ricerca di base per alcuni progetti che invece vorremmo realizzare nel 2018. Fotografo poco in questo periodo, in cui mi sono dedicato ad altro come il design di libri e di mostre, la scrittura e la famiglia. Da due anni sto lavorando al racconto fotografico del processo di integrazione di una famiglia di amici palestinesi/siriani nella società svedese. Ci siamo conosciuti in Iraq, mentre loro erano sfollati da Damasco. Siamo diventati amici, e quando loro hanno deciso di andare in Svezia, attraversando mezza Europa, ho deciso di raccontare la loro storia perché vi ero così vicino e coinvolto che sarebbe stato un racconto bello ed intenso. La prima parte è fatta, ma non è che l’inizio, e vorrei riuscire a seguire questo progetto negli anni a venire per trasformarlo in una serie di pubblicazione e in una mostra”.

Gruppo MAGOG