03 Luglio 2020

“Tornare spettatori dello sconosciuto”. Dialogo con Giulia Perelli, tra lingue, boschi, bestie. “Quando qualcosa è bello, può salvare chiunque”

Ci incontriamo nell’inedito, nell’inesauribile, dunque, sulla soglia dell’alba, quando i cani fiutano le ombre come fossero creature, carne. Giulia Perelli mi invia un libro, si intitola Attenzioni, sulla copertina c’è il disegno di una volpe, guardiana, forse, “Ebbe a che fare col nulla, con l’essere, col caos e col miracolo. Come tutti, ma se ne accorse”, scrive lei, in una specie di autobiografia su corteccia, su battito di ciglia. Nella nota che allega al suo sito è scritto che “è cresciuta in un bosco”; del viso, in effetti, colpisce ciò che è sbilanciato, sbilenco alla metropoli, proteso al selvatico. Dagli occhi potrebbe dilatarsi un branco. Certamente avete visto Giulia in tivù: fa effetto, con uno sguardo un po’ schizoide, di fianco ad Alessandro Gassmann, in una pubblicità. Dovete vederla, invece, mentre dice Simon, Gangster of Art di Jan Fabre, claustrofobico rito, tra scarabei e ghiacci, pianto, lacrime, riso, denti&occhi esposti, deriva del corpo, assolutezza, pulizia. Soprattutto, Giulia è lì, nei lavori per William Kentridge, Romeo Castellucci (Democracy in America: “I suoi spettacoli toccano in punti nevralgici, come una puntura che crea una scossa in zone contratte di noi stessi”, dice, tra l’altro, di quella esperienza), “a 26 anni, viene scelta da Jan Fabre per la sua compagnia, diventando una ‘guerriera della bellezza’”. Sacrificata al teatro, Giulia scrive: film sperimentali (Un Bel Niente, Nietzsche), parole per la scena, racconti, versi. Mi pare che in tutto voglia arrivare al punto della spoliazione, dello sposalizio con l’annientamento. Prova il linguaggio finché non si strama (con Fine del linguaggio verbale finisce il suo libro), rastrella il corpo perché cada – e di quei frantumi si faccia concime. Se le metti un lenzuolo addosso, è probabile che Giulia Perelli si tramuti in donnola, scompaia in un tremore di api. Per il momento, l’ho interpellata nella sua forma umana. (d.b.)

Scrivi: “talvolta ambisce a creare una lingua nuova”. Cosa significa? Perché talvolta? Che senso ha una lingua nuova?

Talvolta, perché a volte sono senza speranza e non ambisco.

Già da bambina mi insospettì: sentii che mi mancavano delle parole per dire delle cose. Provai a crearne alcune e a svincolarmi dalle altre già in uso, che in qualche modo non mi convincevano.

Lo facevo come esercizio, ho quaderni che attestano questa buffa impresa.

Ora riconosco che era un tentativo interessante di partecipare all’essenza delle cose.

La lingua è un codice, un simbolo che rappresenta “la cosa in sé”.

Le cose esistono nella nostra coscienza quando sono nominate, e danno forma al mondo che conosciamo, come il dio creatore della Genesi, che nomina per creare.

Creare un nuovo linguaggio, significa creare un nuovo mondo.

Quando percepiamo in noi un mondo innominato, vale la pena trovare un modo per farlo esistere. A volte servono altri linguaggi, non verbali.

Dice Edgar Morin che siamo esseri capaci di percepire l’ipercomplessità, e ciò ci rende geniali ma anche impanicati di fronte ad una spaccatura innominata, in cui si vede “l’infinito indefinito”.

Le forme artistiche vivono il caos di questa spaccatura che, come scriveva Rimbaud è un “Sacro Caos”.

Ascoltarlo rende la vita ricchissima.

A proposito di lingua. Il teatro. Come ti accade? Il palco, forse, è come un bosco (selvaggio a cui ritorni). Oppure, il luogo su cui agisce la ghigliottina. Che cos’è il teatro?

Il teatro per me è il luogo dell’esplorazione e della rivelazione, che avviene in un processo rituale, nel mettere in atto un mito. In una condizione di massima intimità, apertura e attenzione, una realtà esterna dialoga con l’interna, si manifestano le idee, i simboli, gli spiriti che vivono in noi, o fuori… Non so quanto sia differente. È lo spazio della massima empatia, dove entro per ricevere, a volte anche un’epifania.

“Tornare al selvaggio” forse è tornare al pre-linguaggio, rivedere spogliati la cosa in sé, tornare spettatori dello sconosciuto. In qualche modo, accade.

Il teatro, e le arti, hanno un ruolo fondamentale per la costruzione di una civiltà.

Ci fanno vedere, e a volte prevedere.

Il teatro porta a riconoscere le dinamiche umane, sé stessi, è una forma di educazione emozionale, è filosofia in azione: dovrebbe essere una materia scolastica.

Diceva Romeo Castellucci che il momento di massima rappresentazione della tragedia ad Atene, è stato quello di maggior fioritura della civiltà greca.

Eppure è un dolore la sofferenza di tutte le arti, in Italia.

È il paese famoso per questo, che gli apporta anche una grande economia, ma il sistema continua a credere che la gente voglia più entertainment.

Non credo sia per questo che ci sono file davanti agli Uffizi. C’è più sete di bellezza.

Gli artisti contemporanei sono valorizzati molto di più nel resto d’Europa.

Serve più coraggio e servono più menti curatoriali.

Giulia Perelli interpreta “Simon, gangster dell’arte” di Jan Fabre

A proposito di lingua. Come entra la poesia, la parola poetica nella tua ricerca? In fondo: cosa cerchi?

La poesia non sa, eppure è precisa. Spacca le parole, ci fa un buco dentro, le apre a quel caos. Sa scrivere il silenzio, la eco del senso. Comprende la musicalità dei versi, che è una forma di letteratura estetica nel senso estatico, più sensoriale, quindi ci tocca, come fa la musica.

La poesia è il lato erotico e spirituale della letteratura.

E non imbriglia in teorie, come sto facendo io adesso, e non vorrei.

Ti definisci così: “Si difese come poté dall’angoscia del divenire. Ebbe a che fare col nulla, con l’essere, col caos e col miracolo. Come tutti, ma se ne accorse”. Cosa vuol dire?

Cerco di leggere la mia vita in chiave simbolica così che sembra di vederne il senso, che credo sia un po’ quello di tutti.

Hai chiamato il tuo libro di scritture e di disegni Attenzioni: perché? Che lato della tua ricerca riguarda?

Perché i testi e disegni che fanno il libro sono frutti di momenti di attenzione.

E credo che sia così che accade “l’arte” e così che ci accorgiamo delle esistenze, con atti di estrema presenza. È più un cahier, ma per ora è ancora qui solo con me, devo ancora riuscire a pubblicarlo.

Nei tuoi disegni ci sono tanti corpi. Che cos’è il corpo?

Il mio lavoro è un lavoro di corpi, per questo li disegno tanto.

Che cos’è il corpo? Oso: il corpo è l’inconscio.

È un indicatore incredibile, una bussola, non va anestetizzato, va estetizzato, nel senso di sensibilizzato. Ne sa più di noi. O almeno, conosciamo davvero qualcosa quando la conosce il corpo.

L’assenza dei corpi, che in questo momento stiamo vivendo, ha qualcosa di tragico. Quanto è invece miracolosa la presenza dei corpi.

La potenza creativa di questo organismo che ce la mette tutta e, allo stesso tempo, è così certa la sua fine, che è di una tenerezza commovente.

Il movimento del corpo riflette la Coscienza della persona. Banalmente, si vede se la persona si permette di esistere, la consapevolezza che ha di sé, dell’altro.

Castellucci in un’intervista ha detto che “il corpo è il destino”. Hillman diceva che il carattere è il destino. Quindi, si può dire che il corpo è il carattere e che, alla lunga, il corpo è il destino. Ma, ce lo insegnano molte discipline olistiche e le arti marziali, che un’idea mentale può cambiare atteggiamento fisico, e un movimento fisico può cambiare un atteggiamento mentale. C’è speranza.

Innamoriamoci dei corpi come della Terra, sentiamo continuamente il pulsare del cuore che come un epicentro fa vibrare tutti gli organi, che ci fanno esistere. Già questo è un bell’omaggio all’esistenza.

Quale incontro ti ha segnata? Quale libro (se c’è)?

Con i miei strumenti di viaggio, quasi mezzi di trasporto: la scrittura, la lettura, il corpo, la voce, l’immaginazione, la macchina, gli aerei.

L’incontro con l’arte, e con ciò che ti porta in uno stato di essere.

L’incontro con la corrispondenza, che è quella che segna e disegna di più.

Poi, circa 10 anni fa, con lo spettacolo Il concetto del volto del figlio di Dio di Romeo Castellucci.

E, in modo elettrico, ovviamente diversissimo con Orgy of tolerance di Jan Fabre. Lì fui spettatrice, poi è iniziata l’avventura totalizzante di lavorare con Fabre ed anni dopo, finalmente, con Romeo Castellucci, che mi ha dato il ruolo più bello, profondo e intenso che abbia mai fatto.

Il testo, un vero “canale”, è di Claudia Castellucci. Sull’esperienza con i loro mondi artistici c’è tantissimo da dire.

Mi hanno segnato gli anni di tournée e i colleghi e gli amici, con cui ho condiviso strati e strati di vita intensa, di ricerca insieme.

È la nostra condizione e il tempo che amplificano le segnature degli incontri.

Libri, tanti… gli autori sono generosi. Ne dico uno: “Porte regali” di Pavel Florenskij.

Che animale pensi di essere, quale bestia, intendo?

Non saprei, forse siamo tutti arche di Noè, comprendiamo tutti gli animali. E i vegetali. Ho molta ammirazione per gli animali e arrivano sempre nei miei lavori, anche da soli, come uno, magico e bellissimo, che è volato in casa mentre giravo il mio ultimo video… vi lascio la sorpresa.

Come vivi nel mondo, tra gli uomini?

Ci vivo poco.

Ma forse non è di nessuno questo mondo.

Ci sono tante realtà, tanti mondi.

Dispiace trovare qualcuno che è imprigionato in un sistema precostituito, e non vede oltre quella forma mentis. Purtroppo sono spesso i più sicuri e quelli che determinano di più la realtà sociale. Questo è un guaio. Però ho fiducia: quando qualcosa è bello, può salvare chiunque.

Raggiungere l’umanità è un bel fine. L’umanità mi piace. Sto molto in solitudine, ma mi piace. Noto che dopo spettacoli, dopo momenti di contatto con l’arte, diventa più umana, si ricongiunge a sé.

Nei miei lavori personali non parto con l’intento di farmi capire, di fare ponti, ma penso di fare un lavoro comprensibile, con diversi livelli di lettura, ma non criptico. Fermo i culmini della ricerca, fermo la rivelazione di un processo, diventa un’opera iconica per me, quando va bene anche per gli altri.

L’icona, l’immagine, ha quel potere di far entrare nella spaccatura, nell’altro mondo infinito e universale. È, come dice Florenskij, una “porta regale”.  

A cosa stai lavorando? A cosa vorresti lavorare?

È appena uscito sulla mia pagina fb e quella del Troubleyn, un ultimo lavoro video, Simon, gangster dell’arte. L’ho girato e montato in una settimana, da sola, col cellulare. Senza budget, senza crew. Jan Fabre mi ha proposto di scegliere un suo testo e fare un reading, per mantenere uno scambio di ispirazione tra artisti, anche in questo momento fermo. Ho scelto un ruolo maschile, di potere e impotenza, complesso, e credo sia forte “giocato” da una donna, senza fingere di essere un uomo. Non c’era bisogno. È un processo creativo di un’attrice e di un’artista, un dialogo tra il suo mondo e il mio.

Ho osato, perché non abbiamo mai parlato del testo.

È stato molto emozionante. Quello che vorrei è realizzare due progetti che sono già pronti al salto, fare collaborazioni, scrivere e riportare in scena Vivere qui, una performance che ho costruito insieme a mio fratello Piero Perelli, un batterista straordinario!

Durante la quarantena mi sono dedicata interamente alle mie opere: ho girato una serie di video di atti performativi, dove la performance sconfina nella videoarte. Fatti tutti col cellulare, cavalletto, in casa o a 200 mt da casa, da sola. Qualcosa è già visibile, e lo sarà fino a fine luglio (2020), alla mostra collettiva  curata da Filippo e Martina Bacci Di Capaci, a Lucca, nella loro Galleria. La mostra, Reaction, ha l’intento di reagire positivamente al periodo di lockdown. La mia serie di lavori l’ho chiamata Dimensioni interiori, sono quasi preghiere, devozioni alla vita.

La quarantena può essere vissuta come un periodo di deserto, di distacco dal mondo di fuori e dai suoi meccanismi ed invenzioni, dal sistema sociale abituale, per fare “ecologia mentale” e scoprire le nostre realistiche necessità, ristabilire i valori, il nostro vero desiderio, il nostro limite, far emergere le risorse e le ricchezze. E, ancora più a fondo, per ricevere un sogno, un’immagine, ricevere una conoscenza. Questo è il senso di ogni ritiro.

Questi video sono nati da un processo di indagine e scoperta sulla natura umana, animale, vegetale.

Da una parte le condizioni e dall’altra le risorse: la capacità di immaginare, la relazione, l’ascolto possibile, la dissoluzione, la sapienza della mutazione, l’occasione continua di conoscere.

È la nostra ricchezza, è quello che abbiamo.

Gruppo MAGOG