05 Marzo 2020

“Scrivo contro i libri sfrontatamente consumistici, i libri inventati dall’industria, insomma le monete false”. Sulla salutare ferocia di Giovanni Raboni

«Una stroncatura, pur che abbia un minimo di fondamento, serve alla buona salute della letteratura cento volte di più, non solo del silenzio, ma anche di un elogio infondato». Così scriveva Giovanni Raboni sul Corriere della sera il 25 luglio 1998, e questa convinzione ha guidato anche Luca Daino nel confezionare l’antologia di stroncature raboniane, pubblicata da Mondadori con il titolo Meglio star zitti? – Scritti militanti su letteratura cinema teatro (Milano 2019). Giovanni Raboni poeta (1932-2004) è monumentalizzato nel Meridiano Mondadori del 2006 e in Tutte le poesie 1949-2004 (Einaudi 2014), ma non era soltanto un grande e talora grandissimo poeta: sommo traduttore dell’intera Recherce proustiana, è un esemplare forse irripetibile di critico militante, ed era giusto rendere accessibile anche questo versante della sua multiforme attività.

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L’orizzonte culturale di Raboni è segnato dalla scuola fenomenologica milanese di Enzo Paci, dove ha appreso, come dice Daino, «l’attitudine a “far apparire l’oggetto”, cioè ad ascoltare i testi, a interrogare l’incontro con essi muovendo da una vigorosa attenzione osservatrice e descrittiva». E il criterio di Raboni critico è di distinguere il vero dal falso: nel caso, i libri autenticamente originali dalla profluvie cartacea immessa dall’industria culturale e sollecitata dalle mode. Per esempio, a proposito del bestseller La Compagnia dei Celestini di Stefano Benni, «annoverato fra gli autori che una parte non irrilevante della critica si ostina a considerare barocchi o neogaddiani», a Raboni tali autori «sembrano soltanto mediocri falsari che tentano di dissimulare sotto roselline di stucco, incrostazioni di finta madreperla e glasse colorate la superficie di una scrittura non meno piatta e desolata del retro di un casamento popolare».

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Mi trovo quasi sempre d’accordo con le valutazioni di Raboni, con due eccezioni importanti. La prima riguarda Milan Kundera, del quale Raboni giustamente considera capolavoro Lo scherzo, ma poi avrebbe «abbandonato la strada maestra dell’implicito cioè della metafora narrativa, per il viottolo asfaltato dell’esplicito, cioè dell’aforisma e della struttura a vista». L’insostenibile leggerezza dell’essere segnerebbe poi «la sua resa definitiva alla confezione di lusso, all’esibizione del paradosso, allo smercio dell’intelligenza in pillole». Troppo severo. E dire che Raboni era amico di Kundera fin da quando era ostracizzato a Praga: ma succede di essere più esigenti con gli amici che con gli estranei. L’altra eccezione riguarda nientemeno che Jorge Luis Borges. Raboni ritiene capolavori Finzioni e L’Aleph, ma poi «la produzione di Borges si è fatta smisurata e ripetitiva e, da ultimo, decisamente insignificante». Al punto che «il nostro tempo verrà ricordato, con grave e (speriamo) compassionevole stupore, come quello in cui si è potuto credere che Jorge Luis Borges fosse un grande scrittore». Eh, no. Personalmente, continuerò a rileggere Borges fino alla (lontanissima) fine dei miei giorni, e, del resto, uno che ha saputo definire la guerra tra Gran Bretagna e Argentina per il possesso delle isole Falkland (o Malvinas, 1982) «la lotta di due calvi per un pettine», merita comunque il Nobel. Pienamente d’accordo, invece, con il drastico ridimensionamento di Italo Calvino e di Stefano D’Arrigo, di Gibran e anche di Guareschi. Doveroso (e divertente) lo smantellamento di Umberto Eco romanziere: «Il nome della rosa è l’ingegnosa imitazione in legno di balsa o in polistirolo dei grandi romanzi che una volta si costruivano in pietra e mattoni»; e «un’autentica patacca è l’ultimo romanzo di Eco» (la stroncatura è del 24 febbraio 1990, quindi è da riferirsi a Il pendolo di Foucault).

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Quanto al cinema, «lo stile registico di Alberto Bevilacqua [nella Califfa] appartiene (come d’altronde la sua prosa) al peggior dilettantismo, quello di chi non ha il coraggio d’essere un dilettante e cerca di nascondere la propria insipienza linguistica fingendo ambizioni che non ha». E non si salva neppure le musica di Morricone, che «sembra tolta di peso da un documentario sulla pesca delle anguille». In Aprile, di Nanni Moretti, oltre a «qualche banalità antidiluviana sull’omologazione della stampa, nient’altro che la più trita liturgia della delusione e del disimpegno, la più scontata celebrazione dell’impotenza (il documentario “civile” che si vorrebbe fare e non si riesce a fare), il più infantile, dispettoso, insignificante rifugiarsi nelle delizie del privato». Nella recensione al Satyricon di Federico Fellini, Raboni esprime una sentenza che vale per tutto il lavoro del grande regista: «Un poeta può anche ignorare il significato e la portata della propria visione del mondo; ma non può “impedirsi” di averne una. Mentre con questo film si direbbe che Fellini abbia cercato, più o meno consciamente, proprio questo: “impedirsi” di avere una visione del mondo. Di qui la sua scelta di oscurità, il suo optare per una rappresentazione ciecamente materica, priva di qualsiasi “chiave” e di qualsiasi possibilità di decifrazione».

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Tra le recensioni teatrali, ecco che cosa Raboni pensava di Zitti! Stiamo precipitando: «L’ultima commedia di e con Dario Fo in scena al Nuovo, mi è parsa così sconclusionata, così priva di senso e di mordente da risultare, alla fin fine, persino indescrivibile (…) Va da sé che qualche momento mimico di Fo (affiancato come di consueto da Franca Rame) è comunque godibile; ma è davvero poca cosa in oltre due ore e mezzo di approssimative, farraginose e innocue scempiaggini». La stroncatura di Raboni è del 3 dicembre 1990. Il 9 ottobre 1997 Dario Fo ricevette dal Re di Svezia il Premio Nobel per la letteratura, con la seguente motivazione: «Perché, seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi».

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Ma non si deve immaginare che Raboni abbia scritto solo stroncature: Luca Daino, che ne ha scelte 170, nelle pagine finali dell’antologia ha compilato una corposa bibliografia dei testi critici raboniani. Quando nacque il quotidiano Avvenire – dalla fusione del bolognese Avvenire d’Italia con il milanese L’Italia – Raffaele Crovi, che curava il coordinamento culturale del nuovo giornale fortemente voluto da Paolo VI, decise che Giovanni Raboni fosse il critico cinematografico, e io il critico televisivo, mansione che mantenni per oltre quindici anni, cioè fin quando ci fu la televisione, non l’amalgama di immagini, notizie e pubblicità che a tutt’oggi scorre sui teleschermi. Il primo numero di Avvenire uscì il 4 dicembre 1968 e Raboni oltre che di cinema, si occupò di letteratura e di altri argomenti culturali. Daino ha antologizzato diversi articoli extra-cinematografici di Raboni pubblicati su Avvenire, e mi piace ricordarne due sull’industria culturale e sull’editoria di poesia. Il 22 febbraio 1969 aveva scritto: «I libri da stroncare – ammesso che la stroncatura sia l’arma giusta e sufficiente – non sono i bei libri che non ci piacciono, i bei libri diversi da quelli che scriviamo o vorremmo scrivere; ma i libri sfrontatamente e starei per dire scientificamente consumistici, i libri “inventati” dall’industria, insomma le monete false – gli Arpino, i Bevilacqua, i Castellaneta, tanto per citare le prime tre lettere dell’alfabeto – che l’industria vuole imporci (e di fatto, con il prezzolato e colpevole avallo della critica, ci impone) per vere e sonanti». Tornò sull’argomento il 25 luglio 1971, sempre su Avvenire. A proposito della riluttanza degli editori a pubblicare libri di poesia, accampando motivi e/o scuse come la scarsa vendibilità, la ristrettezza del mercato eccetera, Raboni osservava: «Francamente, credo che i motivi siano più profondi, e ideologicamente più pregnanti. La poesia è, da sempre, uno strumento di conoscenza “oppositiva”, di messa in discussione della realtà costituita, insomma (se mi si vuol perdonare l’uso di una parola così logorata dall’uso) di “dissenso”. Ebbene, le industrie editoriali, che evidentemente fanno parte integrante, come strutture, di un sistema che rispecchia e tende a conservare l’esistente, non hanno certo interesse a favorire la diffusione di ciò che può essere portatore di anticorpi, di dubbi, di elementi non epidermici di discussione. Meglio insomma, dal loro punto di vista, un tranquillo, solido romanzo – magari “di sinistra”, magari “sulla contestazione – che non un libro di poesia dove può darsi che la contestazione sia presente, invece, “all’interno”, come progetto linguistico e come visione del mondo».

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La collaborazione di Raboni con Avvenire si interruppe nell’autunno del 1971, quando il poeta e critico cinematografico, inviato alla Mostra di Venezia recensì con entusiasmo il film I diavoli, di Ken Russell, film profondamente anticristiano, inadatto al pubblico del quotidiano della CEI. Fu una decisione credo consensuale, e comunque inevitabile. Nell’Antologia curata da Luca Daino c’è anche l’intervento di Raboni, sul Corriere del 6 marzo 1994, in mia difesa nella polemica che divampò dopo una mia stroncatura dell’ultima stesura dei Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino. Scrisse Raboni: «Sebbene (l’ho letta e posso testimoniare) la sua [cioè mia] stroncatura palesasse intenzioni e motivazioni esclusivamente letterarie, è probabile che in Cavalleri non si sia visto il critico del quale si mette in dubbio la competenza o non si condividono le opinioni, ma il censore cattolico del quale bisogna respingere l’invadenza: equivoco che, se fosse vero, la direbbe lunga sui complessi di superiorità e insieme di inferiorità di cui la cosiddetta cultura laica continua ad essere alquanto comicamente infarcita». Ho ricordato quel lontano episodio, anche se direttamente mi riguarda, perché dimostra la libertà di spirito di Raboni e denuncia un andazzo della «cosiddetta cultura laica», a tutt’oggi non tramontato.

*L’articolo qui pubblicato è edito sull’ultimo numero di “Studi Cattolici” (Febbraio 2020, n.708) come “Giovanni Raboni: non solo stroncature”

 

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