14 Febbraio 2018

I giornali non vendono? Ovvio, fanno schifo. Caro Cairo, ecco la ricetta per risollevare la stampa patria. Ovvero: contro l’ipocrisia dello scrivere facile (che piglia per i fondelli il lettore)

Ads (Accertamenti Diffusione Stampa) è l’istituto che da 40 anni certifica tirature e vendite dei giornali in Italia. I dati attuali sono drammatici. Il calo delle singole testate oscilla fra 5 e 20% (15% in meno per Repubblica) e nell’ultimo decennio tutti i giornali hanno dimezzato le copie. Ecco un esempio da brividi. Su Repubblica, nel gennaio 1993: “Il ’91 è stato per i quotidiani italiani un anno difficile… (nonostante ciò, ndr) Repubblica è stato il quotidiano più diffuso: 675.743 copie come media giornaliera, contro 674.344 del Corriere della Sera’”. Da brividi perché oggi sia Corriere sia Repubblica raggiungono a stento le 200mila copie come media giornaliera, insieme al QN; e gli altri, purtroppo, sono nell’abisso. La sintesi la confeziona Nicola Marini, presidente dell’Ordine dei giornalisti, uno degli enti più inutili della storia dell’umanità: “La situazione dell’editoria è devastante, ormai il 65% degli iscritti è precario o disoccupato. Otto su dieci hanno un reddito intorno ai 10mila euro, quindi sotto la soglia di povertà”. La cassa previdenziale dei giornalisti si chiama Inpgi ed è in profondo rosso, a -104 milioni di euro. E secondo la Fnsi (Federazione Nazionale della Stampa Italiana): “I conti non sono in sicurezza. Le previsioni per il 2018-2020, basate su un bilancio attuariale irrealistico, sono inattendibili. E nessuna sostenibilità può essere attesa nel medio-lungo periodo” (e già capiamo perché, se la Federazione Nazionale della Stampa Italiana in un comunicato ha il coraggio di scrivere “attuariale”). Questo, in ogni caso, è il quadro dell’informazione italiana e di chi ci lavora.

C’è poco da fare. Ognuno ha i suoi problemi, direte voi. Certo, è così: edilizia, commercio, nautica, liberi professionisti, imprenditori, giocatori di Serie A, commessi al Senato, eccetera. Con l’aggravante, nel giornalismo, che per decenni, peggio dei parlamentari – anzi, sovvenzionati dai loro intrallazzi –, hanno, in gran parte, tranne lodevoli eccezioni, speculato con i contributi all’editoria. E la crisi atavica non è altro che l’inevitabile somma e sottrazione della legge di mercato, anche perché negli ultimi 30 anni il mondo ha subito le maggiori trasformazioni della sua storia, relegando l’Italia nella periferia della periferia dell’impero, mentre i giornali nostrani sono ancora lì che parlano di Silvio, di marchette economico-culturali delle varie compagnie di giro e di zero informazioni sul vero presente-futuro del mondo. Però resta il fatto che perdere 500mila copie in 30 anni è tanto, troppo.

Cos’è successo? Finora ho citato 3 quotidiani perché sono quelli che ho letto nella mia vita. Sono cresciuto a Bologna – e Rimini – col Resto del Carlino (quindi QN), da tardo adolescente leggevo Repubblica (la cultura era la migliore e pragmaticamente ti dava un tono in certi ambienti ultra-radical-chic come il Cocoricò dei primi anni Novanta) e da quando sono diventato un borghesotto della provincia tosco-romagnola, leggo il cartaceo della Nazione (quindi sempre QN) e il digitale del Corriere della Sera. Ecco, adesso lo dico. Non credo che 30 anni fa ci fosse così poca stima nei lettori come oggi. Mi spiego, appunto, col Corriere. Gramellini è un grande commentatore dei nostri paradossi, solo un po’ paraculo, ma avercene di corsivisti così. Le grandi firme su sprechi e storture sono il top. Milena Gabanelli è l’archetipo del mestiere come lo dipinge la drammaturgia di Hollywood. Poi prendi Sette e sembra che vogliano dirti: no, aspetta, scrivo facile perché altrimenti non capisci. Il successo di Beppe Severgnini me lo spiego in tal modo. E metterlo a condurre Sette lo certifica: siccome perdo 500mila lettori in 30 anni, vuol dire che non mi capiscono. Allora metto uno che la spiega facile. Una volta, per questo, avevano Alberoni, adesso Severgnini. Per piacere alla gente che (per loro) non li capisce.

Con la cultura è ancora peggio. La Lettura dovrebbe essere il punto di riferimento nazionale ma è di una noia mortale. Dai, Cairo, falla dirigere a Davide Brullo, l’ultimo intellettuale rivoluzionario d’Italia, che con Pangea – la migliore rassegna culturale odierna – sta portando avanti un lavoro maestoso, tanto esteso quanto trasversale e dal respiro dannatamente internazionale. D’altronde adesso il critico più lucido è Luigi Mascheroni e Massimiliano Parente è di gran lunga il più godibile tra gli intellettuali non da salotto. Entrambi del Giornale. Chi l’avrebbe mai detto 30 anni fa? Per non parlare dei tg. Al bravo Luigi De Biase, al Tg5, gli fanno intervistare Gentiloni, mentre la sua Volga, newsletter settimanale del venerdì, quasi segreta, è imprescindibile per cercare di comprendere la frontiera orientale d’Europa. E sapete perché tutti questi prodigiosi colleghi funzionano? Perché non scrivono facile. Con buona pace delle strategie dei grandi quotidiani, servono giornalisti difficili per stimolare i lettori di oggi, che non sono stupidi, sono solo annoiati dalla semplicità.

Michele Mengoli

www.mengoli.it

Gruppo MAGOG