04 Febbraio 2020

“Nel punto d’estrema solitudine”: Giorgio Caproni, il nostro Enea, il super classico

Né inquietudine né questione s’incunea, tranne rari episodi, nella poesia italiana di oggi. Non c’è la tortura della tradizione, sostituita da un tradizionalismo spiccio – proprio di chi cita i grandi sperando di assurgere a quella grandezza – oppure, semplicemente, la scandita ignoranza – in nome, a volte, di una ‘semplicità’ che è statuaria ignavia.

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Così, dopo decenni di napalm letterario – da un lato: ideologia da realismo socialista; dall’altro: apocalisse dello show – che legame hanno, ora, gli scrittori, i poeti con i ‘classici’? Sintetizzo brutalmente: se ragioni di Bibbia sei preso per un neoconvertito bacchettone (ignorando che lì è la bottega editoriale formidabile, ineludibile); se parli di Virgilio ti pigliano per un fascista, per un nostalgico della Roma imperiale; Dante han finito di leggerlo al liceo, ma lo citano ai convegni, fa tanto colto. Così, lasciamo la discussione dei ‘classici’ al resto della letteratura che conta, continuamente – sul rapporto con Virgilio, ad esempio, s’è fortificato Thomas S. Eliot, è scaturito il romanzo più grande di Hermann Broch, ha perfezionato il verbo Seamus Heaney. Il ‘classico’ deve entrare con muso di tigre, vivo, biologicamente in atto nell’opera, non come mausoleo di blabla, cimitero di marmi, utile per versi fotogenici, da cartolina sotto il Partenone.

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Il Novecento è il secolo segnato da Ulisse, da Joyce a Saba a Kirk Douglas. Enea ci appare laterale, epica obliqua, devoto al destino, imberbe alla ribellione. Ulisse si perde per tornare, è il trionfo della curiosità; Enea è in esodo: parte da una patria per fondarne un’altra, senza ritorno, all’amore preferisce il dovere, alla gloria la compassione. La Terra Promessa è il luogo in cui Ungaretti si dilegua in Virgilio. Nei Cori descrittivi di stati d’animo di Didone Ungaretti assolutizza il mito, ponendolo in una fattura esistenziale, che ribolle. “Viene dal mio al tuo viso il tuo segreto;/ Replica il mio le care tue fattezze;/ Nulla contengono di più i nostri occhi/ E, disperato, il nostro amore effimero/ Eterno freme in vele d’un indugio”. Di Virgilio, Ungaretti estrae il cristallino – in Recitativo di Palinuro declina al neoclassico.

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La Terra Promessa esce nel 1950 per Mondadori; nel 1956 Vallecchi pubblica Il passaggio d’Enea di Giorgio Caproni. Sul “Corriere Mercantile”, nel 1959, Caproni spiega dove nasce quella poesia. “Fu un’estate del primo dopoguerra ch’io, trovandomi a Genova per una visita, m’incontrai la prima volta (e si capisce mentre meno me l’aspettavo) con Enea figlio di Anchise. Me lo vidi di soprassalto davanti, in piazza Bandiera, e sebbene fosse un Enea di marmo, cioè quel monumentino a Enea che tutti i genovesi sanno, la mia emozione non fu minore di quanta ne avrei provata incontrando Enea in carne e ossa”. Conclude così, Caproni, “Io ho girato molte altre città d’Italia, ma Enea non l’ho incontrato altrove. Perlomeno, non ho incontrato l’unico Enea ammissibile: l’unico Enea veramente vivo nella sua solitudine, amaro simbolo della nostra. L’unico Enea, insomma, che meritasse un monumento in mezzo a una piazza, emblema di tutti noi in questo tempo, mentre ci troviamo veramente soli sopra la terra, con sulle spalle una tradizione che tentiamo di sostenere mentre questa non ci sostiene più, e per la mano una speranza ancor troppo gracile per potercisi appoggiare, e che pur dobbiamo portare a compimento”. L’Enea di Caproni è carnale, vivo, privo di ‘moto d’animo’, è qui, ci stringe. Ora, si dirà, senza tradizione sulle spalle e speranza al fianco, siamo, di Enea, soltanto l’allucinazione, la demenza.

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Non c’è altra indagine, forse, che indugiare sul frammento di un mito, specchiarsi lì, riconoscere che siamo nati tra le mura del labirinto, nella svolta di un tradimento, in un viaggio mediterraneo tra Troia e l’avvenire, esentati da moltiplicare il futuro, scampati al mattatoio di Gerico, all’egida dei Giudici, al massacro dei primogeniti ordito dagli Achei, dagli dèi, sempre, per impetrare buona caccia, buona morte.

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Del Passaggio d’Enea estraggo una lassa:

Nel pulsate del sangue del tuo Enea
solo nella catastrofe, cui sgalla
il piede ossuto la rossa fumea
bassa che arrazza il lido – Enea che in spalla
un passato che crolla tenta invano
di porre in salvo, e al rullo d’un tamburo
ch’è uno schianto di mura, per la mano
ha ancora così gracile un futuro
da non reggersi ritto. Nell’avvampo
funebre d’una fuga su una rena
che scotta ancora di sangue, che scampo
può mai esserti il mare (la falena
verde dei fari bianchi) se con lui
senti di soprassalto che nel punto,
d’estrema solitudine, sei giunto
più esatto e incerto dei nostri anni bui?

Raccogliendo, come conchiglie, dall’estro del testo, alcune parole – sangue, catastrofe, schianto, gracile, funebre, fuga, falena, incerto, bui – è chiaro l’oggi, la domanda che solo dall’“estrema solitudine” si avvera: di cosa puoi incaricarti, cosa puoi portare sulle spalle, a chi puoi prendere la mano? E verso dove – perché non basta l’affetto, ci vuole l’afflato di un destino?

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Proprio come scrive Alessandro Fo, Il mio Enea (Garzanti, 2020), nato in concomitanza con i 30 anni dalla morte di Caproni, a rivelare i legami tra il poeta e Virgilio, “è anche un libro necessario. Necessario per chi voglia comprendere a fondo l’umanità ferita e fraterna del poeta Giorgio Caproni, ma anche i traumi profondi della sua epoca e i destini generali di fronte a cui si è trovata… E necessario per chi (come me, come noi) crede fermamente che l’antichità abbia ancora un importante ruolo da giocare nell’oggi”. Letteratura, in effetti, significa eseguire il sussurro degli antichi, di chi non passa – il passato è sempre il nostro: l’immutabile muta ringiovanendo –, non esiste altra esigenza di novità.

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Così Caproni in un testo del 1963: “Attraverso il suo Enea, Virgilio ha saputo darci dell’uomo (di noi) una rappresentazione che ancor oggi è quant’altre mai attuale. Dico d’un Enea meno arma che vir (meno eroe che uomo), il quale, scampato alla totale distruzione della sua città, cerca di portare in salvo, sulle spalle, una tradizione che cade da tutte le parti e non lo sostiene più, mentre per la mano ha un domani ancora incerto… Quale altro poeta, mai, ci ha offerto uno specchio così preciso anche della tremenda solitudine e responsabilità dell’individuo d’oggi, diviso tanto dolorosamente fra identità da salvar nel salvabile, e speranza d’una nuova città da fondare, la quale ancora non può difenderlo ma anzi vuol essere da lui difesa contro tutte le furie?”. Da sempre la tradizione è a pezzi, l’uomo è in esilio, scambia dio per il porco d’oro, ha bisogno dell’amore inaudito e sospeso, di vedere il viso dei morti, tentando qualcosa a cui votarsi, che lo impegni nella morte – cioè, nella vita.

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Pier Paolo Pasolini – fin dal 1952, replicando il pensiero in un articolo del 1956, pubblicato su “Il Punto”, in concomitanza con Il passaggio d’Enea – riteneva Caproni “uno degli uomini più liberi del nostro tempo letterario”. A volte leggo Caproni, di più quello de Il Conte di Kevenhüller, come un oracolo.

Mi piacciono i colpi a vuoto.
I soli che infallibilmente
centrino ciò ch’enfaticamente
viene chiamato l’Ignoto.

C’è il tiro di dadi in versi che, senza cautela, sbrana le verità, ti getta ridendo nel circense del mistero. La goliardia e il distillato del ‘classico’ tornano, come un evento, sulle labbra di Caproni. Dovremmo chiamarla sequela, questa cosa, e aderirvi. (d.b.)

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