04 Agosto 2019

“Le parole hanno un’anima e sul muro di recinzione dell’ospedale ho letto, Psichiatria Uguale Morte. Bisogna amare gli incompiuti”: il romanzo di Giorgio Anelli, “Mirabilia Dei”

Cara mamma,

cosa devi aver provato dalla mancanza, di una doppia assenza. Mio padre sparito in cielo, e l’esplosione di un figlio a te caro quanto lontano, perché da te incompreso nella malattia e spronato con rabbia fino all’ingiuria di una mente complessa…

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S, dice che si sente vecchio dentro. Nonostante la giovane età, è completamente deluso dagli uomini e dal mondo. Al contrario, dice di me che ho la baldanza del bambino: sempre pronto a stupirmi di tutto e tutti, rapito dalla sete ripida di conoscenza. S, dice che gli ricordo De Chirico. Sarà…

Perché?

‒ Perché sei un po’ spigoloso ‒ dice. Forse non si è nemmeno reso conto che l’altra sera mi ha tenuto una lezione magistrale su come fare cinema, sciorinando esempi su esempi di tecniche cinematografiche e nomi di registi di tutto il mondo. Quello sì che è stato un discorso memorabile sulla tradizione, sullo stile e sulla trama. Il tutto avveniva in mezzo alla baraonda estiva, in una sera colma di gente vuota, dove il vento osava ammaestrare la canicola, svelandoci che camminare è scrivere.

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Dopo tutto, se mi guardo attorno per le strade, il mondo potrebbe benissimo essere una cooperativa a cielo aperto. Vedo Achille, che da bambino in oratorio, s’infiltrava come l’acqua nelle partite di calcetto balilla, e urlava: Chi paga? Paghi tu, o pago io? Eh?! Ora lo trovi davanti ai semafori a chiedere l’elemosina per comprarsi un pacchetto di sigarette. C’è Armida, che vaga da un bar all’altro, parlando da sola, elettrica, con la sigaretta sempre in bocca, gioca al gratta e vinci. Scorgo la biondina, tutta perfettina, che cammina ogni giorno avanti e indietro per la città, senza essere mai stanca. Se guardo dallo specchietto retrovisore dell’auto, spio una sconosciuta che mentre guida ridendo, incessantemente accende sigarette buttandole subito dal finestrino. C’è Marco, il grande musicista, bloccato da una malattia feroce quanto i denti dello squalo tigre. E anche Roberto, che nel mistero della sua esistenza, forse ha scelto di starci accanto, in una città non sua, ma più a misura d’uomo.

E poi, ci sono tutti gli altri. Quelli che si credono normali e magari così normali non sono. Ieri sera ho rivisto ‒ per caso ‒ quegli industriali che mi avevano assunto e abbandonato. Venivano verso di me. Che bella famigliola… Ma la mia attenzione era catturata, piuttosto, da una nuova scritta sul muro di recinzione dell’ospedale che, manco a farlo apposta, recitava: «Psichiatria uguale morte». Non so se quella scritta contenga delle verità. Fatto sta che, non appena ci siamo incrociati, la mia vecchia datrice di lavoro non mi ha nemmeno salutato, facendo finta di nulla (che spessore di donna, che incultura, che classe da imprenditrice…), mentre il marito, unicamente per il fatto di essere un gran borioso superbo, con in braccio la figlia, sì. Chissà se staranno leggendo la storia di G. Non mi interessa granché. Il fatto è un altro: io, come Cyrano, tocco! Mi preme dire, però, che non sono io, sono le parole che si comportano a tal maniera. Escono sullo schermo, dai tasti del computer; oppure sui fogli del taccuino, dall’inchiostro della penna, e sono fuori controllo. Le parole hanno un’anima, attenzione: sono pericolose. Le parole per me sono tutto. Puoi farmi del male, fregarmi quanto vuoi. Ma non puoi fregare le parole. Le parole scritte, la loro audacia, quell’ironia pungente e claustrofobica, sono loro ad attirare l’attenzione. Bada, non sono come Dio. Ma sono delle dee. Non sono idoli. Sono dee, alle quali, se si fa un torto, si vendicano. Come ai tempi dei miti greci.

*

Invece. Lasciando da parte l’urlo e lo sfogo bambino. Per un attimo ritorno signore. Ma chi è questa C? Chi è davvero per me? Cosa è stata e cosa rappresenta ancora nella mia vita? C mi ha prediletto, nel tempo, guardandomi e sfidandomi all’opera. Mi ha accompagnato un passo alla volta nel mio nuovo lavoro. Non era una semplice «tutor», come le chiamano oggi, all’inglese, queste signore educatrici. È invece una donna ‘con le palle’, che approfondiva l’aspetto della persona al lavoro. Mica paglia. Una volta raggiunta una certa confidenza professionale, ho incominciato a scriverle delle lettere. Era affascinante quanto importante, per entrambi, rapportarci nel nostro mondo lavorativo, per crescere insieme, ognuno nel rispetto che il proprio ruolo richiedeva. Ogni tanto la sento ancora. Non lo nascondo. E perché dovrei? È un’amica. Quando le dico che la mia attività letteraria continua; non appena intuisce che l’opera che tento di costruire avanza dignitosamente, lei non perde occasione di ringraziarmi, ma per dire altro: «Caro G, ricordo tutti gli incontri in cui la tua drammaticità di vita “sembrava non avesse un senso”, dicevi… Sono contenta e anche orgogliosa di aver avuto modo di dialogare con te, perché tu avevi la possibilità di esprimere ciò che avevi dentro, compresa rabbia ma anche tanto desiderio di gridare chi eri, e io pure di esprimere e comprendere sempre più il nesso fra la mia esperienza di vita umana e professionale e la realtà che stavo vivendo, nel rapporto con te e altre persone, con le quali approfondivo l’aspetto del lavoro, o, meglio, della persona al lavoro. G, la sfida continua. Volersi bene e stimarsi è la cosa più difficile, ma passo passo la conferma che stai facendo cose grandi ti sta arrivando da più parti… continua così».

Chapeau. Ecco, questa è C. Il mio urlo più nascosto. La mia redenzione passa da lei. Nel suo folle gesto di amare gli incompiuti così come sono. Dare la vita per gli altri, per gli ultimi, per i dimenticati dagli uomini, gli inadeguati di Dio. Il suo esempio, è inebriante testimonianza di verità.

Giorgio Anelli

*In copertina: Giorgio De Chirico nella fotografia di Irving Penn

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