02 Giugno 2019

“La letteratura è quel qualcuno che puzza d’altro. E io non devo essere impreparato all’inquisizione”: il romanzo di Giorgio Anelli, “Mirabilia Dei”

«Fateci lavorare ‒ noi vogliamo lavorare ‒ io voglio lavorare ‒ ma lavorare veramente, non per darci il contentino». Eccole le parole che fanno nascere le opere. Che mettono in moto l’uomo. Lo allarmano, per costruire qualcosa di buono, per sé e per gli altri. Quando un disabile chiede di poter lavorare, non si dovrebbe più avere il coraggio di opporsi. Perché si aprono infinite prospettive. A partire da quel desiderio, da quella severa richiesta brinata di rose bianche, nascono cooperative. A partire da quella lontana domanda, grazie ad essa, io, oggi, posso avere un lavoro.

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Da una delle mie cento vite, emergono particolari scorretti. Diciotto anni fa ‒ a pensarci, un’altra era, quasi brillo di austerità corrotta ‒, salgo su un’auto guidata da uno che lavora per la tv in Mediaset. La moglie è innamorata persa della scrittura. O, degli scrittori? Siedo dietro, accanto a Davide Rondoni. Siamo a Milano. Ci fermiamo in via Zebedia. Il poeta di Forlì, si siede a un tavolino, di fronte a una chiesa, e beve birra. Se fossi stato più lucido, probabilmente oggi come allora avrei fatto carriera? Ma avere la verità nel sangue ti porta a percorrere altre strade. La verità ti fa il sangue blu. Ecco, cosa intendeva forse mio padre, quando parlava della nostra discendenza.

‒ Questo significa che lo stile della morte è lo stile della vita, diceva Borges a Liliana Heker… Fare letteratura significa aspettare che qualcuno ti venga a trovare durante la notte, mi sussurra Luca Doninelli da epoche lontane, che sembrano pulsare ancora nelle mie vene. Sì. Ho conosciuto questo e quello. E molti altri. E non ho mai ricevuto favori. Anzi. Tante pedate. Ciò che dissi ‒ con orgoglio ‒ a un muratore, tempo fa, si rivelò fondato: io mi faccio da solo. Non ho mai avuto aiuti. In nessuno dei tantissimi lavori che ho fatto nella mia vita; men che meno in letteratura. Anzi, sarebbe un guaio, in letteratura; sarebbe la fine dell’opera… In due parole, morirò scrivendo. Me lo auguro. Come i pianisti più fortunati, s’accasciano sul pianoforte. Si può desiderare qualcosa di meglio? Mio padre è morto mentre stava lavorando. La poesia è il mio centro, io, che centro, come Rilke, non ho. Che folgorazione straordinaria. È la stessa identica cosa che domandare di lavorare. Detto fatto, io lavoro due volte: in cooperativa e per la pagina bianca. Fatemi lavorare, dunque, perché ne ho voglia! Perché ho voglia di conversare anch’io con qualcuno.

‒ Fai ciò per cui sei nato. Sii ciò che scopri di essere. ‒ Mi dice la vocina silenziosa, davanti alla tomba del babbo, in una domenica mattina goffa di vento e zuppa di commozione.

Offro la fatica del mio talento, ogni giorno. La letteratura è quel qualcuno che puzza d’altro. E io voglio essere pronto a riceverlo, questo barbone straniero. Non devo essere impreparato all’inquisizione della tradizione. Sapere di fare la cosa giusta, è l’ostinazione da perseguire ad oltranza. Dico sì, come Pietro, a morire nel deserto. Senza aspettarmi nulla da nessuno.

Sarà meglio scomparire, dunque. Fare arte. Punto e basta. Come mi consiglia il saggio S. Il quale, però, continua ad aprirmi nuove prospettive, tra immortalità, dubbi suoi sulla fede, e presenza pur nella mancanza. Sono un uomo fortunato. Conoscere in cooperativa un nuovo collega e amico, che mi spalanca quesiti cosmici, non è mica roba da tutti i giorni. Al lavoro, dove ormai pare pensino unicamente alla produzione, a fare cassa, a trasformarci in efficienti operai giapponesi ‒ spero si accorgano dell’abbaglio ‒, e sempre meno a parlare con noi (quando invece ce ne sarebbe tanto bisogno), S è un’àncora di salvezza; una boa che galleggia a vista. Ad avercene di amici inadatti come lui. Da grande esperto di cinema qual è, mi dice che: una volta morto il genitore, non ci si libera della sua presenza. Inaspettatamente e con fervore, Ingmar Bergman fa cucù, tra frustrazioni da lavoro, e effervescenti desideri dell’anima di capire dove può portarci realmente la nostra vita, tanto misera e misteriosa da essere ingoiata assieme a un trancio di pizza. Insomma. Una mancanza che si fa presenza. Come il grande assente, nella sommaria cella dove scrivo.

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D’altronde ‒ che epoca stramba, di certo non è l’era del ferro ‒ tutti vogliono che tu, poeta, li raggiunga. Non importa se vicini o lontani. Tutti ti bramano. Basta, ovviamente, la tua presenza, fino alla fine dello show. Poi, puoi anche sparire; anzi, sarebbe meglio, la cosa è ben accetta. Non sia mai che tu ti fermi pure a mangiare una pizza con noi. Perché con noi, ci stiamo solo noi. Fine ragionamento da marchetta: morti impostori, che fingono pure di non averti invitato, con quei fantastici silenzi ammorbano la coscienza. Allora vi apostrofo, gentili signori e dame dei salotti! Siete sicuri di avere un’ombra? No, dico, io ho un’ombra che avvampa come fuoco. Forse voi vi spaventate, quando camminate soli la sera, in quell’attimo in cui la luce te la fa sovrapporre. Cosa? L’ombra! È quando si sdoppia, per ricongiungersi: in quel frangente, si ha paura. Istinto d’altro. L’ombra è la prova evidente per un poeta di possedere, a tratti, la verità. Ne deduco che, avere in destino una vita simile a quella di Giobbe ‒ quello della Bibbia, per intenderci ‒ è un privilegio. Perché tutti, prima o poi, attraversiamo quel qualcosa chiamato malattia. E, avere una morte propria, morire cioè nel solco della pagina bianca, farsi lettera, sarebbe alta onorificenza.

‒ Che tutti vogliono qualcosa da te, poeta, non è mica detto. Tu, invece, cosa pretendi da te stesso? È la domanda che l’ombra di Dino Campana, oggi, sovrappone alla mia impazienza verbosa.

‒ Fateci lavorare! È la risposta. Che come eco risuona in cooperativa ogni qualvolta io vedo S. Un uomo che ha avuto l’ardire di chiedere ‒ cosciente o meno ‒ un compimento alla sua vita. Senza S e tanti altri, che in passato hanno fatto la stessa richiesta, questa storia oggi non si potrebbe raccontare.

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Piuttosto. Se C fosse ancora qui da noi, le cose andrebbero sicuramente meglio. O mendichiamo noi un aiuto, altrimenti parlare dei nostri problemi diventa un problema. Si prova un’assenza inevitabile. C, invece, parlava con tutti. Eccome. A volte ti anticipava pure, da quanto era brava a capire, guardandoti, che qualcosa non stava andando per il verso giusto. Ci conosceva uno ad uno. Amava le nostre fragilità. Fare il nostro bene, era il suo mestiere. Diceva spesso che: spendere una mezz’ora parlando insieme ‒ dopo, una volta risolto o alleviato il problema ‒, ci avrebbe fatto rendere sul lavoro il doppio o il triplo. Ed era vero. Accadeva. Aveva una sorta di poesia, in lei, della quale un giorno, per somma stima, mi fece dono…

Giorgio Anelli

*In copertina: Ingmar Bergman

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