03 Marzo 2020

“Nessuno sapeva niente dei posti in cui dovevo andare; sembrava fossero per sempre scomparsi dalla testa della gente e dalle cartine stradali”. Geografia dello smarrimento in Gianni Celati e Luigi Ghirri

Però in fondo a quelle pianure, sta il limite, la morte; e poco prima di quel confine, in un luogo quasi occulto, dimenticato dalle mappe, in una piega della terra, sta l’introvabile. Il luogo materno, cui non è consentito l’accesso. Luogo da cui siamo stati tagliati, che possiamo solo guardare da fuori. Luogo vuoto. O meglio svuotato dal tempo e dall’atrofia dell’esperienza e dell’immaginazione. Ma luogo. E se c’è il luogo […], ecco che la peregrinazione diventa pellegrinaggio. (Schilirò, 2005)

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La produzione di Gianni Celati, che, negli anni Ottanta, viene significativamente influenzata dall’inizio della collaborazione con il fotografo modenese Luigi Ghirri – tanto quella di carattere narrativo (Narratori delle pianure, 1985) quanto quella più specificamente diaristica (Verso la foce, 1989) – è lo specchio di un disorientamento, di uno smarrimento percettivo caratterizzante il postmoderno. Il mondo qui rappresentato, dalle sparute case tutte uguali gettate sulle pianure della valle del Po alle metropoli contemporanee in costante trasformazione, ha perso ogni traccia di sacralità, di mito, rendendo illusorio qualsiasi tentativo di identificazione con lo spazio circostante da parte dei personaggi che lo abitano.

In un paesaggio anti-idillico come quello descritto da Celati, fatto di interstizi, di residui, di carcasse dimenticate della modernità, Luigi Ghirri opera un sistematico affrancamento dalle tendenze dominanti della fotografia italiana del tempo: è proprio da là, dove sembra che non ci sia nulla da osservare (figuriamoci da ritrarre, tanto su un taccuino quanto su pellicola), che comincia un viaggio di ripulitura dello sguardo che si serve, da una parte, preliminarmente, della distruzione dell’immagine “da cartolina” che veniva pubblicizzata di un paesaggio italiano ormai contaminato, dall’altra, del vagabondaggio – insolito caso di flânerie in coppia – come strumento di indagine e  motore del raccontare.

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Viaggio in Italia e il «nuovo paesaggio italiano»

A noi pare di poter dire almeno questo, che il tipo di descrizione, esito del costante prendere appunti davanti alla scena, ci pare avere in comune con la fotografia il fatto di farvi entrare tutto, senza una preselezione, le cui parti, una volta entrate, è come se mostrassero il proprio senso, se mostrassero di averne uno, indipendente cioè da quelli che gli attribuiamo noi da fuori. (Grazioli, 2012)

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Per la nuova generazione di fotografi riunitasi attorno a Luigi Ghirri, stanca di quelle cartoline “unte di colombi” simbolo della disneyzzazione del paesaggio, l’atto del fotografare coincide con il ritagliare una porzione isolata del reale attorno alla quale si staglia il mondo circostante, che non ha bisogno di alcuna esegesi, ma chiede di essere apprezzata in virtù delle sole apparenze.

Così quando Ghirri, sul finire del 1981, si mette in contatto con Celati per proporgli di scrivere un testo che descriva il «nuovo paesaggio italiano», questo abbandona i toni grotteschi tipici della prima produzione per intraprendere, da contemporaneo flâneur, un viaggio attraverso la valle del Po, devastata dall’industrializzazione e dal boom economico. Il pellegrinaggio assume fin da subito i caratteri di una quête senza scopo, di attesa di una rivelazione impossibile, di «attraversamento d’una specie di deserto di solitudine». Dalla collaborazione fra i due nascerà la mostra intitolata Viaggio in Italia, per il cui catalogo, edito nel 1984, Celati scriverà un testo, Verso la foce. Reportage, per un amico fotografo, nonché la gran parte dei racconti raccolti in Narratori delle pianure (1985), le Quattro novelle sulle apparenze (1987) e i diari di Verso la foce (1989).

In occasione dell’inaugurazione della mostra a Bari, un giovanissimo Marco Belpoliti si reca a Formigine per intervistare Ghirri per il manifesto, e definisce così l’esperienza di Viaggio in Italia:La mostra di Bari non è una collettiva di fotografi, ma il primo tentativo di fare punto sull’immagine dell’Italia prodotta dalle mutazioni degli anni ’60 e ’70. Non è neppure una mostra documentaria, l’ennesima rassegna di fotoreporter, ma un viaggio nell’immaginario visivo del nostro Paese. C’è, nel lavoro di Ghirri e compagni, anche il tentativo di non proporre esclusivamente un punto di vista fotografico, ma di ricercare altri strumenti rappresentativi accanto alla fotografia. Per questa ragione uno scritto di Gianni Celati (Verso la foce. Reportage, per un amico fotografo), compreso nel volume, è stato impaginato insieme alle fotografie e si stacca nettamente dalla introduzione di Arturo Carlo Quintavalle. L’Italia di questo viaggio non è l’Italia settecentesca ed ottocentesca dei grandi viaggiatori. È – dice Ghirri – un’Italia possibile, la ricerca di una identità, un punto di arrivo e di partenza per una immagine possibile”.

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Ben venti fotografi sono coinvolti nell’impresa, due dei quali, Luciano e Reinhart, accompagnano Celati nelle peregrinazioni che daranno vita al testo che correda le fotografie. Il punto di contatto fra scrittura e fotografia è esplicitato proprio dalla forma del reportage. A proposito di ciò, Celati (2008) scrive: «andando in giro con Ghirri per le campagne, ho imparato a prendere appunti su quello che vedevo, sulle voci, sulle case, sui posti. […] Mi ripetevo: “Questo non è letteratura, non è letteratura, è un reportage sulla visione che abbiamo dei posti”». Il progetto, dunque, porta a compimento quel rinnovamento dei modi dello sguardo e dei mezzi espressivi che tanto lo scrittore quanto il fotografo cercavano di operare in prospettiva di un diverso dialogo col fuori. La rappresentazione del luogo geografico, così, si svincola dall’immutabilità dello scatto e della parola scritta: lo scopo non è catturarne l’immagine per imprigionarla in una rigidità troppo spesso illusoria, ma «riaprire la via di una conoscenza affettiva, di un rapporto diverso con gli spazi del mondo» (Sironi, 2004). Ma come? Per Ghirri, occorrono nuove strategie di rappresentazione che, tenendo conto tanto del mondo esterno quanto dei «mondi interni», tanto del fotografo-scrittore quanto dell’osservatore, siano in grado di attraversare l’immaginario soggettivo e quello collettivo per costruire «una propria strada tra gli indefiniti contorni mentali della memoria» (Belpoliti, 1984).

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«Il mondo rappresentato diventa mondo osservato»: le fotografie di Atlante e la carta delle pianure

Nel 1973, ben prima dell’incontro con Celati, Luigi Ghirri realizza e rilega personalmente un album contenente le 34 fotografie che costituiranno Atlante, frutto di una riflessione intorno ai codici di rappresentazione dello spazio geografico e alla concezione della realtà come “fotomontaggio” (non a caso il volume esce in diverse edizioni in cui a cambiare è soltanto l’ordine di assemblaggio delle diverse sequenze fotografiche, prassi piuttosto comune fra gli artisti concettuali).

Fra le pagine dell’atlante geografico immortalato, Ghirri rintraccia «il luogo nel quale tutti i segni della terra, da quelli naturali a quelli costruiti dall’uomo, sono rappresentati: monti, laghi, piramidi, oceani, città, villaggi, stelle, sole». Ogni elemento è riportato secondo convenzioni universalmente accettate, compresso in «confini entro cui lo spazio si rappresenta» (Cortellessa, 2018). La tecnica adottata è quella della macrofotografia, grazie alla quale è possibile compiere un viaggio ideale sulla superficie del mondo, scatto dopo scatto. Solo cinque anni dopo, nell’introduzione di Kodachrome (1978), viene esplicitata la premessa concettuale del progetto, che affonda le sue radici nella dialettica che sta alla base di tutta la produzione del primo Ghirri, ossia quella fra rappresentazione segnica e riproduzione diretta del mondo. “Tutti i viaggi possibili sono già stati descritti e gli itinerari sono già tracciati. […] il solo viaggio possibile sembra essere ormai all’interno dei segni, delle immagini: nella distruzione dell’esperienza diretta” (Ghirri, 1978).

Gianni Celati e Luigi Ghirri

Ghirri, dunque, considera le pagine dell’atlante alla stregua di un qualsiasi oggetto della vita quotidiana e, pertanto, può permettersi di accostarvisi in maniera personalissima, così che le minuscole porzioni fotografate, al di là dei riferimenti spaziali reali, si riducono a mere immagini. Tuttavia, quelle immagini continuano a rimandare a qualcosa, a delle tracce che affiorano in superficie e che rinviano necessariamente a referenti esterni.

Atlante, dunque, si configura come raccolta di «immagini di immagini, descrizioni di descrizioni: ingrandimenti delle tavole di diversi sistemi cartografici, che ne evidenziano i rispettivi toponimi e sistemi di coordinate» (Cortellessa, 2018).

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Sembra difficile, dunque, immaginare cosa accomuni questa prima produzione, così intrinsecamente legata alla rappresentazione dello spazio geografico nella sua materialità cartacea, ai successivi sviluppi della fotografia di Ghirri, caratterizzata dagli scenari quasi evanescenti tipici di Paesaggio italiano o Il profilo delle nuvole (1980-1989), culminando in quella serie di scatti alla nebbia contenuti nel suo ultimo rullino. Il filo conduttore è l’interesse per quella che lo stesso Ghirri, in Lezioni di fotografia (2010), definisce come «una zona di mistero, una zona insondabile» che si cela dietro ogni piega del reale, il fascino di luoghi dimenticati, di «paesaggi agricoli uniformi, dove non esiste il pittoresco naturale» (Celati, 1997), un’estetica del luogo geografico che, per la prima volta, può permettersi di prescindere della bellezza.

Sono questi i luoghi delle peregrinazioni dei due amici, dei fotografi, della “famiglia allargata” di Strada provinciale delle anime. Sono luoghi dalla non-bellezza, dalla non-simbolicità, e proprio per questo vale la pena di rappresentarli: in virtù del loro solo far parte dell’esistente. Le fotografie di Ghirri, insomma, «non documentano niente di preciso, soltanto «ti fanno vedere». Ma in questo «farti vedere» anche le cose più insignificanti, meno fastose, danno alle cose la dignità dell’essere» (Celati, 2004).

È «la dignità dell’essere» che distingue i luoghi della valle del Po da quelli che Marc Augé, nel celeberrimo saggio del 1992, chiama nonluoghi. Ciò che definisce un nonluogo, in opposizione ad un luogo, è un basso o pressoché assente «grado di socialità e di simbolizzazione di un dato spazio», originato, secondo Augé, dalla «surmodernità» che, per l’appunto, sarebbe per suo statuto produttrice di «nonluoghi antropologici». Trovo sia particolarmente calzante, ai fini di questa mia indagine, ricordare un breve passo del saggio in cui leggiamo che “Oggi gli urbanisti e gli architetti, al pari degli artisti e degli scrittori, si trovano forse condannati a ricercare la bellezza dei «nonluoghi», resistendo al tempo stesso alle apparenti evidenze dell’attualità. Artisti e scrittori vi si dedicano cercando, per certi versi, di ritrovare il carattere enigmatico degli oggetti, delle cose disconnesse da ogni esegesi o istruzione per l’uso […]”.

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È quel «carattere enigmatico degli oggetti» che ci permette, ad esempio, di qualificare come autentici, per quanto desolati ed agghiaccianti, i luoghi di Giovani umani in fuga rispetto all’aridità degli aeroporti in cui solo i «viaggiatori o turisti perpetui» possono sentirsi a casa. Sono spazi in cui «tutto è sotto il segno del caso, del puro accadere», che esistono e resistono.

Sono i luoghi in cui Celati ascolta e raccoglie racconti, i luoghi tracciati sulla carta delle pianure, cornice invisibile di tutti i racconti e cerimoniale d’apertura della raccolta. “Posta in apertura del nostro “novellino padano”, la mappa individua una “regione”; esibisce lo spazio delle pianure a cui appartengono i narratori del titolo, come pure le storie che dalle loro voci il narratore ha appreso. La si direbbe un modo di dichiarare una geografia implicita o sommersa, di cui l’indice della raccolta non rende conto – emergenza d’un tracciato le cui linee si dispiegano solo per annodare e tenere insieme i trenta racconti che compongono il libro” (Sironi, 2004).

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Come le fotografie di Atlante, la carta delle pianure è un tentativo di «adeguamento della forma del libro a quella dello spazio», connette indissolubilmente i luoghi dei racconti e i luoghi del mondo in un itinerario ideale che muove simultaneamente, fra realtà e scrittura, verso la foce. Più che una vera e propria carta geografica, ci ricorda quelle mappe abbozzate e incomplete che, attraverso un percorso tutt’altro che lineare, conducono il nostro protagonista alla conquista di un tesoro o (perché no?) della maturità. La carta non tiene di certo conto di tutti quanti i luoghi citati nei racconti, ma ciò che conta è che l’itinerario delineato, «traccia o segno di un’erranza destinale», unisce lo scrittore-camminatore, i suoi personaggi e gli stessi lettori in una peregrinazione comune inevitabilmente votata allo smarrimento esistenziale. “Scrivere, sembrano suggerire i racconti di Celati, è in qualche modo tracciare itinerari, aprirsi percorsi possibili dentro uno spazio che è, insieme, quello della pagina e quello del mondo. È sempre un viaggio (vicino a quello del leggere) che comincia mettendosi in cammino, che ci invia, e per questo procede senza sapere la sua meta” (Sironi, 2004).

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Novelle e panoramiche

L’impianto narrativo di Narratori delle pianure è di tipo squisitamente novellistico: del resto, della novella Celati tesse un Elogio in cui ne evidenzia la natura polimorfica, da «bazar», e polifonica, in quanto in essa l’atto del raccontare si configura come un’«attività pratica», uno scambio di storie che appartengono a tutti, ma che qualcuno sa raccontare meglio di altri.

Alla luce di ciò, quale sarà lo statuto dello scrittore? “La figura dello scrittore si fa dunque prossima a quella dello scrivano, dello scriba che, illuminato da una luce fioca, si dedica a trascrivere nella sua oscura stanzetta le voci che si presentano irruente, al modo di accidenti esterni, e piega il proprio corpo […] all’influsso perturbante del linguaggio” (Sironi, 2004).

Racconto, ascolto e scrittura si configurano così come interdipendenti, l’uno esiste solo in rapporto all’altro: il testo diventa bazar, accogliendo le più svariate voci ed esperienze. Celati si rifà alla metafora della «storia scritta su suggerimento di una mano estranea», ridimensionando di netto l’apporto di colui che scrive concretamente la storia a favore di chi, invece, la racconta, guidandone invisibilmente la mano. Scrivere significa, dunque, «tentare di stabilire un contatto, una sintonia, col mondo sommerso», riportare in maniera fedele la vivacità e la sonorità del parlato.

Del resto, Celati aveva iniziato già negli anni Settanta, con Comiche e Lunario del paradiso, a sperimentare sull’imprevedibile eccentricità del linguaggio dell’oralità, sull’intonazione della voce narrante e i cambiamenti di registro linguistico, sulle qualità mimiche di una lingua che possiede un corpo il cui senso di fisicità va restituito attraverso la parola scritta. Non dimentichiamo che Celati è uno fra i maggiori studiosi e traduttori di Louis-Ferdinand Céline, inventore del linguaggio scritto dell’oralità. La scelta di adottare uno stile tanto eterogeneo contribuisce, insieme alla vaghezza spazio-temporale, a suscitare nel lettore un senso di spaesamento direttamente proporzionale a quello provato, da una parte, dallo scrittore-camminatore nel corso del suo surreale pellegrinaggio, dall’altra, da personaggi storditi dalla fatiscenza che li avvolge, dall’orrore-stupore di fronte alla metropoli contemporanea, da una condizione esistenziale che si fa tanto più opprimente quanto più ci si spinge verso la foce, verso forze ineluttabilmente più grandi di noi. Il tempo verbale adottato è, non a caso, l’imperfetto delle fiabe dei fratelli Grimm o, al massimo, il passato remoto, che si alternano apparentemente senza alcun criterio, «creando così uno spostamento della voce narrante da un livello generale, rigorosamente anonimo, interrotto, che è quello dell’imperfetto […], all’irruzione di qualcosa di frammentario, di effimero, ma individuale, che è tipico del passato remoto» (Belpoliti, 2016). Il particolare statuto della novella, infatti, permette di svincolarsi dalla fissità dei piani scenici tipici del romanzo borghese tradizionale per adottare un piano panoramico che permette di partire non «da una focalizzazione precisa ma da una vaghezza» (Celati, 2011). Ancora una volta, dunque, è il concetto di panoramica ad accomunare la produzione celatiana e l’opera di Ghirri. Sempre in Belpoliti (2016) troviamo che “anche nella fotografia di Ghirri c’è la presenza dello spazio aperto, soprattutto nelle immagini di paesaggio, che può essere definito come un «piano panoramico» analogo a quello scelto da Celati per i suoi racconti, Nella fotografia di Ghirri si tratta del ricorso alla dimensione «mondo sospeso», a quel tipo d’inquadratura e dimensione spaziale colta nello scatto, che s’impernia sul «remoto», una lontananza non misurabile e non riferibile a un tempo e a uno spazio determinati. […] fatte le debite differenze tra linguaggi diversi quali fotografia e narrativa, questa temporalità estesa richiama la favola, il racconto orale e la novella tradizionale”.

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La presenza di questo «mondo sospeso» è indubbiamente il tratto distintivo delle fotografie del secondo Ghirri. Egli stesso, infatti, afferma: “La cancellazione dello spazio che circonda la parte inquadrata è per me importante quanto il rappresentato ed è grazie a questa cancellazione che l’immagine assume senso diventando misurabile” (Ghirri, 1978).

Pertanto, così come la presenza del mondo esterno all’immagine è appena intuibile grazie a sparuti segnali – il fotografo sostiene di aver costruito la sua «geografia sentimentale» grazie alla rappresentazione di una «cartografia imprecisa, senza punti cardinali» – allo stesso modo Celati costruisce i racconti di Narratori delle pianure mantenendo una sorta di consapevole dissolvenza fra quelli che Calvino avrebbe definito «mondo scritto» e «mondo non scritto»: l’estrema vaghezza dei riferimenti, sia spaziali che temporali, unita all’adozione di un piano panoramico rispetto alla fissità dell’inquadratura, suggerisce al lettore che attorno a quei racconti si staglia qualcos’altro, che grazie all’immaginazione è possibile riempire i vuoti del narrato. Solo che non sempre ci è dato sapere cosa sia, quel “qualcos’altro”.

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Il ritorno del viaggiatore e Giovani umani in fuga: analisi di uno smarrimento

[…] nessuno sapeva niente dei posti in cui dovevo andare; sembrava fossero per sempre scomparsi dalla testa della gente e dalle cartine stradali. (Celati, 1985)

Il ritorno del viaggiatore, ventiduesimo racconto di Narratori delle pianure, è sicuramente quello che si avvicina di più ai successivi sviluppi di Verso la foce, sia dal punto di vista della tematica che, indubbiamente, della forma: la componente narrativa che contraddistingue racconti come La città di Medina Sabah scompare del tutto per cedere il posto ad un andamento fortemente diaristico, facendo posto, non a caso, all’utilizzo (decisamente raro all’interno della raccolta) del passato prossimo. Il racconto, così, si configura più come una sorta di resoconto dal carattere archeologico sull’impossibilità del recupero di un luogo che, appartenendo alla dimensione materna, diventa l’emblema di un ritorno alle origini impossibile per statuto, di una salvazione ormai irraggiungibile. I luoghi che il personaggio, specchio dell’autore stesso, attraversa per giungere a quel cartello con su scritto Sandolo sembrano reduci di un «disastro di cui nessuno aveva sentito parlare», abitati da individui dimentichi e dimenticati al tempo stesso.

“Scendendo di macchina il muro d’una fortezza in prospettiva si rivelava una lunga fila di case del dopoguerra, con negozi di abbigliamento, di articoli sportivi, di elettrodomestici, molti bar. Dall’altra parte questo paese si apriva verso terreni devastati; macerie, fino ad un punto lontano dove vedevo solo sassi e mota. Sembrava d’essere in un avamposto, dei cani rovistavano in un mucchio di spazzatura”. In questo paesaggio al limite con il distopico, in cui la desolazione delle campagne abbandonate va a braccetto con il decadente splendore delle vetrine nuove di zecca, incoscienti automobilisti si muovono all’infinito verso nessun luogo «nel terrore d’essere immobili», lo stesso terrore che attanaglia il camminatore in una ricerca senza punti cardinali e, infine, persino senza meta.

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È in Giovani umani in fuga, ultimo racconto della raccolta, che Narratori delle pianure svela pienamente il suo carattere di pellegrinaggio “al contrario”, il cui fine non è il raggiungimento di una certezza o la conquista di una verità, anzi ne costituisce la definitiva perdita.

Dopo aver attraversato un’impervia via costellata di frammenti, di rifiuti espulsi dalla linea evolutiva della Storia, di cose e persone che ne sono state programmaticamente allontanate, i giovani protagonisti procedono quasi alla cieca, privati di qualsiasi strumento di orientamento, fino a giungere alla «sacca dei morti», un luogo in cui gli schemi che reggono il mondo vengono meno, un limbo contemporaneo nel cuore del labirinto della foce del fiume. Ed ecco che l’esperienza della morte, massima espressione dello smarrimento esistenziale, si fa sempre più tangibile, iniziando a delinearsi già nei profili delle baracche diroccate del campo nomadi, negli immondi liquami che infestano le acque del Po e dei suoi affluenti, accompagnando i fuggitivi come fa quel loro amico, morto, trascinato in un viaggio la cui fine, come tante altre cose all’interno della raccolta, ci viene taciuta. Di quei ragazzi, simbolo del destino di noi tutti, sappiamo solo che «continuando a remare, sarebbero arrivati da qualche parte».

Narratori delle pianure, così, assume il carattere di un viaggio inesorabile verso una non-destinazione e, di conseguenza, un non-finale, terminando come fa il Po, ramificandosi in ingorghi fra i quali sembra impossibile non smarrirsi.

Chiara Paterna

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Bibliografia

AA. VV., Luigi Ghirri-Atlante, AR/GE KUNST.

Marco Belpoliti, Luigi Ghirri e Gianni Celati, Doppiozero.

Gianni Celati. Romanzi, cronache e racconti, a cura di Marco Belpoliti e Nunzia Palmieri, Mondadori, Milano 2016.

Gianni Celati, a cura di Marco Belpoliti e Marco Sironi, Riga 28, Marcos y Marcos, Milano 2008.

Gianni Celati, Conversazioni del vento volatore, Quodlibet, Macerata 2011.

Gianni Celati, Il bazar archeologico [1975], in Id., Finzioni occidentali (1975).

Andrea Cortellessa, Luigi Ghirri, dall’Atlante al Mondo, Le Parole e le cose.

Luighi Ghirri, Kodachrome, Punto & Virgola, Modena 1978

Luigi Ghirri, Lezioni di fotografia, Quodlibet, Macerata 2010.

Elio Grazioli, Gianni Celati e Luigi Ghirri, in “Le strategie del comico, Gianni Celati & Co.”, Marcos y Marcos, Milano 2009.

Massimo Schilirò, Il camminatore nelle pianure. Il diario di strada di Gianni Celati, in “Rivista di studi italiani”, XXIII, 1, giugno, 2005, pp. 199-225.

Marco Sironi, Geografie del narrare. Insistenza sui luoghi di Luigi Ghirri e Gianni Celati, Diabasis, Reggio Emilia 2004.

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*Chiara Paterna (1996) si è laureata in Letteratura, filologia e linguistica italiana presso l’Università degli studi di Torino con una tesi di ricerca dal titolo L’eredità leopardiana in Cesare Pavese. Si è specializzata nell’ambito dell’editoria e della comunicazione digitale e, di recente, si è occupata di correzione di bozze, traduzione e digital marketing per Il leone verde Edizioni. Nel 2019 ha fondato la rivista letteraria online Voce del Verbo. Ha pubblicato un intervento nel volume Leggere la Lettera. Il maestro don Lorenzo Milani 50 anni dopo, e degli articoli su Rivista Blam e su Pangea.

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