21 Febbraio 2018

Gian Ruggero Manzoni dixit. I social? “Un cazzeggio mantrico votato a venerare il dio del niente”. Il poeta? “Che si ammanti di martirio”

Bisogna andarseli a cercare e meritarseli con le candele sulla fronte. I maestri, dico. Per far fronte al disastro. Cercare avanzi d’uomo con le dita a forma di candela, in questa notte millenaria. Gian Ruggero Manzoni, classe 1957, da Lugo, è maestro di coerenza. Ha attraversato la storia culturale degli ultimi quarant’anni di questo paese di poeti, di pupari e di marionette – repertorio smilzo: ha lavorato con Omar Galliani e Mimmo Paladino, con Andrea Pazienza e John De Leo, ha conosciuto Keith Haring e Giovanni Testori e Anselm Kiefer, ha organizzato una Biennale di Venezia (anno 1984) con Valerio Magrelli, ha fondato varie riviste e scritto alcuni dei libri più importanti degli ultimi decenni, Caneserpente, Il morbo, Le battane di bronzo, Il dolore, ad esempio, libri spesso, come quelli autentici, oggi, da stanare come cercatori d’oro bibliografico, di salvezze impreviste. Per questo, ora, più di altri, GRM è la sentinella sulla tenebra che incombe. Assiste alla mattanza del cuore umano – e reagisce, verbo in pugno. Per questo. Accade che Gian Ruggero Manzoni mi scriva. Una colta indagine su un brano del mio apocrifo, Pseudo-Paolo. Lettera di san Paolo apostolo a san Pietro. Chiosa, “stai attento… molto attento…”, fa. Mi colpisce. Come si fa a non vedere la devozione decuplicata di quel libro, come chi passi i giorni a lustrare la stimmate, con abitudine contadina? Poi mi fermo. GRM è un maestro. Non esiste altra reazione che l’ascolto. Da questo episodio, nasce il dialogo che leggete. Che, come sempre, nel caso di GRM, è un richiamo alla rettitudine in un tempo decrepito, una chiamata. Fondamentale. Fondante. Occorre razzia dell’ego, razzolare nella povertà, azzeramento, per rialzarsi, con sfida e coraggio nelle ginocchia.

Che compito ha lo scrittore o il poeta, oggi?

Manzoni vescovile
Gian Ruggero Manzoni in panni ‘vescovili’ in atto, forse, di scagliare l’anatema sull’era presente…

Dovrebbe essere testimone di una positività, come sostiene una cara amica, la poeta e teologa Francesca Serragnoli, ma finisce per rimanere, esclusivamente, teologo del bello, non del buono, visto che il buono dimora nel sacrificio, ma, appunto del sacrificio, tuo o di un altro, interessa ben poco alla gente, così che, seguendo la nostra tradizione, anche il povero Gesù si ritrova a fare addobbo entro le chiese, infatti più nessuno si prende la briga di deporlo dalla croce, lavarlo, ungerlo, avvolgerlo nel sudario e dargli degna sepoltura. Questo dovrebbe essere il compito dello scrittore e del poeta, oggi, cioè l’essere testimone di una fine… di una morte… di una perdita… quindi l’immergersi nell’oscuro, nell’Ade, al fine di recuperare il recuperabile, poi lavarlo, ungerlo, avvolgerlo nel sudario e deporlo nel sepolcro, quindi pregare, sì, pregare a lungo, prima che la pietra tombale vada a sigillare il mausoleo, perenne reliquario di ciò che fu la tua origine. Logico che chi crede ben sa che dopo tre giorni la vita risorge, la rinascita avviene, ma, oggi, chi mai continua a credere? Quindi, altro compito per chi fa letteratura, risulta il dimostrare di credere, non solo il dire di credere, e il porsi quale esempio in ciò. Risulta un sacrificio questo? È sacrificale tutto questo? Bene, che ci si ammanti di martirio, che le carni vengano sferzate, che i chiodi vengano piantati, che si frughi, come induci a fare tu, Davide, mio fratello di pena, entro le stigmate e nella lacerazione del costato, quindi si dica, se si ha da dire, oppure si taccia per sempre… come dovrebbe essere per i più.

Affascina la tua idea per cui l’impeto estetico deve congiungersi alla forza etica. Cosa significa? Te lo chiedo perché oggi i più si fabbricano in casa, alchimisti del niente, la propria idea di ‘etica’ e di ‘estetica’. Chiarificaci i termini.

Quale primo chiarimento, entrambi i termini nulla hanno a che fare col libero arbitrio, così da porre subito un bel paletto e non andare oltre, infatti sono essenza prima del trascendente, della divinità, cuore e fegato del mito, archetipi, principi guida, inalienabili e, come dici, non frutto di un bricolage casalingo… ma vogliamo scherzare o cosa!!!??? Entrambi gli aspetti, facce della stessa medaglia, sono i pilastri della Legge Eterna, come la definiva Sant’Agostino, cioè quella che dà forma ad ogni realtà creata per un fine ultimo: l’accogliere la grazia, il custodirla, quindi il tramandarla. Perciò estetica ed etica non sono che doni, neoplatonicamente parlando, atti a interpretare quindi a sancire la realizzazione di ogni idea contenuta in quell’assoluto che ci sovrasta e che ci vive. Sono un “talebano” in questo? Sì, da grande peccatore per come sono stato e, forse, per come sono ancora, risulto un talebano. Riguardo la componente fideista, che sia rivolta a Dio o a una idealità, a un ideale, non si può che essere dei talebani, mai ho amato gli adoratori del dubbio perché, dietro a tale feticcio, cioè il dubbio, passa tutto e il suo contrario. Quindi estetica quale possibilità umana di dare forma al gesto liturgico creativo, bello, perciò sublime, o brutto che sia… infatti esiste anche un’estetica dell’orrido, del demoniaco, dell’antisublime, ma attenti a ficcarci il naso dentro!!!… nonché etica quale approccio a detta umana creazione, a detta esplicazione del dono. Quindi, entrambe le componenti, sia che si compenetrino sia che mantengano una loro disgiunzione, sono patrimonio della coscienza in noi infusa, si spera tendente al bello e al buono, ma, per chi, appunto, dilaniato dal dubbio, possono anche risultare veicoli di caos, confusione, abbaglio, ignoranza, inconcludenza, perdita, frammentazione, polverizzazione dell’essere. In sintesi… estetica quale indicazione divina del fare, etica quale compartecipazione divina nell’eseguire un compito. Tutto il resto risulta umano e, dell’umano, detto fra noi, sempre meno mi importa, soprattutto se smarrito. Del resto come si può essere smarriti dopo ciò che ad esempio il Cristo ha detto e fatto, e, dopo di Lui, ciò che anche altri hanno detto poi fatto, sia in nome Suo sia in nome di una fede?

Cos’è il regno dei social, della virtualità imperante, che fine farà?

libro ManzoniSpesso il luogo dove l’Io imperversa entro un canto fra sordi, entro un udire fra muti. A volte il mare al quale si affida la bottiglia col messaggio, nella speranza, se non nell’illusione, che un qualcuno prima o poi la trovi su lontane spiagge. Sempre un misurarsi più col proprio Es, o Id che sia, cioè con la propria coerenza fideistica, ideale, che con l’altrui Ed, o Id, quindi una sorta di cartina di tornasole del proprio Ego, smisurato o misero che sia. Poi una sorta di Fiera delle Vanità più che una cattedrale in cui si cantano lodi insieme. Una vetrina per certuni. Una necessità di comunicare per altri. Una comodità per chi si è stancato del mondo reale. Un passatempo per chi non ha abbastanza soldi per passare l’inverno ai Caraibi e l’estate in Provenza. Un ricettacolo di balle galattiche. Una maitresse da bordello al fine di poi trovarsi in un albergaccio a ore e farla in barba a marito, moglie, fidanzato, fidanzata. Un cazzeggio mantrico votato al venerare il dio del niente. Eccetera. Dove andrà a finire tutto questo? 99,999999 volte nel nulla perché il web è strumento che non è congeniale al mantenimento della memoria, seppure tutto venga registrato e nulla, pare, vada perduto. Allora, dirò meglio, tutta questa frenesia di socializzare si perderà tra uno sbadiglio e, si spera, una risata, considerato che l’incontro a viso, l’incontro in carne, a parte il quando si decide di andare nell’albergaccio, quasi mai avviene. Dirò ancora meglio… un palliativo, un surrogato di umanità, un lenitivo, un lamentatoio, un facile lavarsi la coscienza, affidandosi al bla bla bla, senza mai agire, o delegando altri al farlo per te. Per me, cioè per quel che mi riguarda, considerato che in web ci sono da oltre vent’anni, un conato di poesia o, a momenti, un grido.

Tu sei stato protagonista della storia letteraria recente. Penso, ad esempio (e te ne chiedo giudizio), a Pier Vittorio Tondelli, recentemente riportato in auge, amato anche dai vicinissimi a Papa Francesco (Antonio Spadaro). Cosa ne è di quella vicenda, nel suo complesso?

Ho amato Tondelli perché ha segnato e ancora segna la mia vita, perché l’ho conosciuto… eravamo al DAMS di Bologna negli stessi anni… e, assieme, abbiamo parlato, abbiamo condiviso alcune esperienze, abbiamo avuto amici comuni. Di lui due sono i libri che restano, almeno per me, “Altri libertini”, cioè la bibbia laica di una generazione, la mia, la nostra, quella degli adesso sessantenni, e “Un weekend postmoderno”, in cui Pier Vittorio ha testimoniato una stagione intellettuale, i restanti li ho sentiti meno, o, forse, valgono molto meno, dal punto di vista letterario, infatti così credo. Perché il cattolicesimo, oggi, si interessa di lui? Per lo stesso motivo per cui si è interessato a suo tempo di Testori… cioè rimbalzi su rimbalzi al fine di sdoganare l’omosessualità di certi credenti. Il Papa e i preti non possono farlo direttamente, cioè perdonare certe passioni che, per alcuni di loro, sono passioni alla pari di quelle di Tondelli e di Testori, quindi si affidano a una sorta di redenzione umana, passando dalla componente creativa. Come dire: beh, sono stati bravi a dire Messa, perciò perdoniamo le loro tendenze sessuali. I soliti alibi che si crea la Chiesa Cattolica, sempre bravissima nel trovare il modo di raggirare l’ostacolo in barba a ciò che è scritto nel Vecchio e nel Nuovo Testamento. Antica storia, che ben conosciamo. Ciò non toglie che sia Tondelli, sia Testori, sia qualunque altro gay credente in Dio non abbia il diritto di, appunto, amare e farsi amare da Dio, ma questo lo dico io che non sono né il Papa né un prete. Ora non si manda più al rogo alcuno, ma lo si sdogana… e, forse, ciò è peggio, per certuni, del finire arrostiti, perché detto stratagemma, infatti di uno stratagemma si tratta, senza voler tirare fuori chissà quali reconditi motivi di ordine culturale, risulta ipocrita.

Dici di voler andare via dall’Italia (così leggo qua e là): è vero? Abbandoni il fronte? Cosa può salvare questo pezzo di mondo?

libro ManzoniSono stanco di questo Nazione non Nazione, di questo Paese di intrallazzoni, delinquenti privi di senso estetico e di senso morale, privi di Dio, privi di cultura, privi di ormai tutto, solo capaci di mangiare, bere, fottere, fregare e farsi fregare. Sono stanco di entrare nel bar del mio piccolo paese posto vicino alle Valli di Comacchio e ritrovarmi in mezzo ad arabi, neri, cinesi, esquimesi, peruviani, australiani, slavi, islamici eccetera che bivaccano senza che alcuno sappia più giocare a briscola, e ciò lo dico non tanto perché mi stiano sul cavolo i suddetti, o che altro, ma con rimpianto nei confronti di un tempo che fu, di una mia giovinezza, di una vita paesana in cui si condividevano usi, costumi, dialetto, giochi, bestemmie, battute ironiche, cibo, e ci si sentiva parte di una comunità, non uno smarrito a casa propria, perciò, perso per perso, ogni tanto penso nel vero di perdermi in un altrove che non è mio, come poi hanno fatto e fanno i migranti che stanno giungendo da noi. Loro arrivano in una terra che non li ha visti nascere e, come ha fatto di già mia figlia, io me ne vado al fine di morire in una terra non mia. Poi rinsavisco, poi mi guardo allo specchio, poi mi dico: ma tu sei Gian Ruggero Manzoni, la tua famiglia è in Romagna da oltre 500 anni, e sei parte di una storia, sei parte di un essere, sei parte di una comunità, quindi non puoi che continuare a risultare fra ciò che sarà, anche, un divenire. Al che mi calmo e, al massimo, da San Lorenzo di Lugo mi trasferirò a Lugo centro, e continuerò a battermi qui per quello in cui credo. L’estero, i Paesi stranieri? Ci andrò in vacanza o per mettere a punto certe idee che poi, tornando in patria, cercherò di concretizzare qui. Comunque, ogni tanto, necessita distaccarsi dai propri luoghi al fine di amarli ancora di più, questo è certo.

Dimmi a quale opera stai lavorando. E poi, visto che hai la dote del ‘formatore’, che cosa stai leggendo, che cosa dobbiamo leggere. 

Presto uscirà un libro riguardante i garibaldini romagnoli che hanno combattuto per unificare questa Nazione, in particolare quelli di umili origini che si sono impegnati o sacrificati nell’impresa dei Mille, perché quella è stata gente che nel vero si è sacrificata per la fede che aveva. Quella è stata gente con gli attributi sotto, non come quella d’adesso. Poi sto limando una raccolta di poesie che si intitola “Nel profumo delle catacombe”, nella quale ho trattato il tema dello sparire, dello sprofondarsi in una realtà sotterranea al fine di raccogliersi, a livello cenacolare, attorno a una fede, a una immagine condivisa, a un reliquiario, a una sacralità riacquistata o, meglio, riconquistata. Quindi sto rimpolpando un romanzo che tratta, appunto, degli anni ’70, quelli in cui frequentavo Tondelli e una certa Bologna. Titolo dello stesso “Il sacrificio dei pedoni”, e ancora il sacrificio viene fuori. Inoltre, come ben sai, dipingo o scrivo presentando bravi artisti. Quindi onoro il mio compito e i doni che il Supremo mi ha dato, sia in accezione estetica sia etica. Cioè sono bello, bravo e buono… o, almeno, me lo dico, me la racconto… infine, ogni giorno, devo fare i conti col demone… con la bestia che mi vive… che continua a vivermi. Ed è una bestia non facile da trattare. Cosa leggo? Sul comodino ho sempre il Libro di Giobbe, così da ricordare che non bisogna mai perdere la fede e, come diceva mio padre, bisogna sempre credere nella Provvidenza e nella divina Misericordia.

Davide Brullo

Gruppo MAGOG