George Orwell fu poeta. Occasionale, non per caso, dalle letture profonde. Nella raccolta dei “Complete Works” (1998), Peter Davison cataloga 26 poesie riconducibili a Eric Blair/George Orwell. Qui ne traduciamo un paio (altre ne trovate qui): la prima riguarda l’esperienza spagnola, ed è pubblicata in calce a “Looking Back on the Spanish War” (1943), come una sorta di estremo congedo; la seconda risale al 1933, pubblica sulla rivista “The Adelphi”. Una è poesia di guerra, l’altra di desolazione astrale: entrambe hanno per oggetto la morte, fisica e metafisica. Orwell ricorda di essere stato svezzato alla poesia leggendo William Blake e il “Paradise Lost” di Milton: come tutti i ragazzi col fuoco letterario dentro, pensava di crescere poeta (così dimostrano, per lo meno, le lettere inviate agli amici, da ragazzo, e le pagine del diario). I suoi gusti lirici erano precisi: di T.S. Eliot preferiva “The Waste Land”, il ‘vate’ dei “Quartets” non lo convinceva; detestava Stephen Spender (“violetta dei nostri pensieri alla moda”) e W.H. Auden, ribattezzato “un Kipling privo di fegato”. A loro, virgulti della nuova poesia in lingua inglese, anteponeva Thomas Hardy. “Non possiamo fare troppi discorsi sull’Orwell poeta, che scrisse versi occasionali: la poesia fu utile attrezzo minore nella sua armeria letteraria”, ha scritto D.J. Taylor in una saggio, “Orwell’s Poetry”. E continua, “Come Philip Larkin si è sempre pentito di aver posto fine alla breve carriera da romanziere, così Orwell non ha mai dimenticato i propri esordi poetici… Ha sempre creduto, nonostante la scarsità della sua produzione poetica e la natura piuttosto rétro della sua estetica, che ci fossero alcune emozioni che solo la poesia poteva contenere in modo soddisfacente”. Insomma, non abbiamo perduto un poeta sul nascere, ma abbiamo guadagnato, tuttavia, una manciata di poesie.