15 Gennaio 2020

“L’uomo è semplicemente l’essere affamato”: Georg Simmel, il filosofo amato da Rilke e da Cioran

Per lo più, Georg Simmel passa per sociologo veggente, di pregio, non è dotato dell’aura filosofica che si ritiene illumini, per dire, Heidegger, Merleau-Ponty, Bataille, Derrida. Rileggendo la raccolta di conversazioni di Emil Cioran, raccolte da Adelphi come Un apolide metafisico, inciampo in questa frase, rilasciata a Fernando Savater: “Da giovane ho letto molto Lev Sestov, che allora era assai noto in Romania. Ma quello che mi ha interessato di più, che ho amato di più – è la parola giusta – è Georg Simmel… Simmel era uno scrittore meraviglioso, un magnifico filosofo-saggista. È stato amico intimo di Lukács e di Bloch, i quali ne furono influenzati e poi lo hanno rinnegato, cosa che trovo assolutamente disonesta. In Germania oggi Simmel è completamente dimenticato, neppure lo si nomina, ma ai suoi tempi fu ammirato da individui del calibro di Thomas Mann o Rilke. Anche Simmel è stato un pensatore frammentario. Il meglio della sua opera sono i frammenti”. Mi sorprende questo giudizio di Cioran, che di solito si esprime con una innocenza piena di ghigliottine. Chiedo quindi – rompendogli come sempre le palle – a Luca Orlandini di chiarirmo, sommariamente, i rapporti tra Cioran e Simmel. Mi risponde in due minuti, Orlandini è un autentico genio – perciò, un autentico solitario. Sono diversi i luoghi dell’opera in cui Cioran, più o meno direttamente, si rivolge a Simmel. Qui, ad esempio: “Non mi sono interessato realmente di Heidegger se non intorno al 1930, quando ero studente all’università di Bucarest. Sein und Zeit e soprattutto Was ist Metaphysik? sono i testi che mi avevano sedotto. Due avvenimenti, l’uno minore, l’altro capitale, hanno placato la mia infatuazione. Avevo pubblicato in quegli anni un articolo su Rodin di stile più o meno heideggeriano, che a ragione esasperò un giornalista. La violenza dell’attacco, che era un’esecuzione in piena regola, mi servì di lezione. Mai più verbosità… geniale! Il secondo avvenimento fu la scoperta di Simmel, la cui chiarezza mi ha guarito per sempre dal gergo filosofico”. Simmel, in qualche modo, ha dato ‘ritmo’ alla lingua di Cioran.

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Così, a Bologna, mi torna sulla lingua il nome di Georg Simmel. In una libreria trovo il testo fatale di Simmel, Metafisica della morte. Dieci pagine di limpida densità. Ne ritaglio alcune frasi:

“In realtà la morte è legata alla vita fin dal principio e dall’interno”

“La morte non limita, cioè forma, la nostra vita soltanto nell’ora della morte, ma è un momento formale costitutivo della nostra vita, che tinge tutti i suoi contenuti: l’ambito della totalità della vita delimitato dalla morte pre-influisce su ognuno dei suoi contenuti e dei suoi attimi; la qualità e la forma di ciascuno di essi sarebbe un’altra, e potesse estendersi oltre questo confine immanente”

“La vita che noi impieghiamo per avvicinarci alla morte la impieghiamo per fuggire da essa. Noi siamo uomini che su una nave procedono in una direzione opposta alla sua corsa: mentre vanno verso sud, il ponte sul quale camminano viene portato verso nord con loro. E questa doppia direzione del loro Essere-in-movimento determina il punto che di volta in volta occupano nello spazio”

“O forse l’essenza della nostra attività è per noi stessi un’unità misteriosa, che noi, come tante altre, possiamo affermare soltanto scomponendola in conquista della vita e fuga dalla morte. Ogni passo della vita non apparirebbe soltanto come un approssimarsi temporale della morte, ma come un movimento attraverso di essa, che è un elemento reale della vita, positivo e formato a priori”

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In un saggio che analizza il testo di Simmel, Lucio Perucchi scrive che “Metafisica della morte influirà su un poeta grandissimo, Rainer Maria Rilke”. Il rapporto tra il filosofo e il poeta si consolida in due momenti importanti. Nel 1899 Rilke, a Berlino, segue le lezioni di Simmel. Lo ritrova nel 1905: è anche grazie a una sua lettera di presentazione che dal 15 settembre comincia a lavorare come segretario per Rodin. Simmel, che si è confrontato con il talento di un altro grande poeta, oggi poco letto, Stefan George, riconosce subito il genio di Rilke: “un professore già famoso e ascoltato aveva deciso di accogliere nella cerchia degli amici quella che, con intuizione di ‘conoscitore di uomini’, giudicava una nuova promessa dell’arte” (Perucchi).

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La testimonianza più alta del legame tra il filosofo e il poeta è in una lettera di Simmel che commenta il Libro d’ore di Rilke, “l’opera che fondò la fama di Rilke e fece di lui un poeta di culto… Nel 1916 si era alla nona edizione, e nel 1926, alla morte del poeta, erano state stampate 59.000 copie del volume” (Andreina Lavagetto). Questi alcuni passaggi della lettera: “Voglio esprimerle soltanto, come filosofo, quanto straordinariamente interessante mi appare la svolta del panteismo che offre il suo libro… l’Essere Divino penetra nelle singole figure particolari, nelle determinazioni particolari e vi trova la sua vita piena ed esauriente, il Singolo non si fonde in Dio e non perde così la sua forma afferrabile, importante per sé, ma Dio si fonde nel Singolo e questo viene in tal modo mantenuto e rafforzato nella sua forma particolare, l’empiricamente casuale delle singole cose, e ottiene così, in un certo qual modo, una legittimazione trascendente. Mi sembra questa l’unica possibilità di far cristallizzare immediatamente il sentimento panteistico fino a farlo diventare opera d’arte”. Alla pittrice Paula Becker, a proposito della sua visione ‘religiosa’, Rilke aveva scritto, “All’uomo occorreva un Dio già fatto, e così disse: Dio è. Ora Dio deve recuperare il suo divenire. E siamo noi che lo aiutiamo in questo. Con noi egli diviene”.

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Piuttosto – come diceva Cioran – è nel turbinio dei frammenti, tra i diari, che si rivela il genio di Simmel, dotati del clangore della semplicità. Il frammento chiede adesione, chiede di ferire, non di essere spiegato. Ecco una silloge, piccole feritoie per riscoprire un filosofo che non è attualel’attualità è una categoria della stupidità – ma da attuare. (d.b.)

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Il filosofo deve essere colui che dice ciò che tutti non sanno; qualche volta però è colui che sa ciò che tutti si limitano a dire.

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Tutto ciò che si può dimostrare, si può anche contestare. Incontestabile è solo l’indimostrabile.

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Non ciò che si trova dietro l’immagine scientifica delle cose – l’oscuro, l’in-sé, l’inafferrabile – è al di là della conoscenza, ma viceversa, proprio l’immediato, l’immagine pienamente sensibile, la superficie a noi rivolta delle cose. Non al di là, ma al di qua della scienza cessa il conoscere. Il fatto che proprio ciò che vediamo, tocchiamo, viviamo, noi non possiamo esprimerlo in concetti, non possiamo riprodurlo esattamente nelle forme della conoscenza, lo spieghiamo affatto erroneamente, come se dietro i contenuti di queste forme ci fosse qualcosa di misterioso e inconoscibile.

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Il procedere del mondo mi appare come il volgersi di una ruota mostruosa, appunto come il presupposto dell’eterno ritorno. Ma tuttavia non con la stessa conseguenza, che realmente, in qualche istante, si ripeta l’identico. La ruota, infatti, ha un raggio infinitamente grande. Solo quando è trascorso un tempo infinito, cioè mai, l’identico può tornare nell’identico luogo. Tuttavia, si tratta di una ruota che gira e che, secondo la sua idea, va verso l’esaurimento della molteplicità qualitativa, senza mai esaurirla in realtà.

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L’uomo è l’essere in sé inadeguato, smarrito, irrequieto. In quanto essere razionale, egli ha troppa natura – in quanto essere naturale, troppa ragione – cosa ne deve saltar fuori?

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L’anima umana è il più grande tentativo cosmico, portato avanti con mezzi inadeguati.

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L’uomo è semplicemente l’essere affamato. L’animale è sazio, dopo che ha mangiato.

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Forse il più pauroso sintomo della vita sono le cose – modi di comportarsi, gioie, fedi – con cui gli uomini si rendono sopportabile la vita. Nulla mostra tanto la profondità dell’ingenuità umana, quanto ciò a cui l’uomo si aggrappa per poter reggere la vita. L’elemento determinante e distintivo dell’uomo è lì dove giacciono le sue disperazioni.

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È felicità indicibile essere di casa in qualche luogo straniero. Questa situazione è, infatti, una sintesi di entrambe le nostre nostalgie: quella dell’andare e quella del ritornare a casa, una sintesi di divenire ed essere.

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La gioventù ha di regola torto in ciò che pretende, ma ha ragione nel pretenderlo.

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Per molti uomini la profondità della vita – profondità reale, in nessun modo disprezzabile – consiste nel soffrire della sua superficialità.

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“Chi non è con me è contro di me”, per il mio modo di pensare vale solo a metà. Contro di me è solo l’indifferente, che le domande ultime, per le quali io vivo, non spingono a schierarsi né contro né a favore. Ma chi, in senso positivo, è contro di me, chi si cala nello specifico in cui io vivo, e all’interno di esso mi combatte, costui è per me nel senso più alto.

Georg Simmel

*I testi sono tratti da: Georg Simmel, “Metafisica della morte e altri scritti”, a cura di Lucio Perucchi, SE 2012

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