15 Febbraio 2018

Generazione Erasmus? Chiamiamola generazione della vacanza permanente. Intervista a Paolo Borgognone sui “cortigiani della società del capitale”

La voce è pacata e appassionata al contempo. Si percepisce che ciò che fa non lo fa in modo frivolo, o superficiale. La parlantina è serrata. Ha palesemente tutto ben chiaro nella testa e lo squaderna senza tentennamenti. Paolo Borgognone è uno storico indipendente dal piglio filosofico. O, forse, meglio sarebbe dire un filosofo che rilegge la storia. Alieno alle facili dicotomie da militante (destra/sinistra, fascista/antifascista), egli è piuttosto un entomologo. Osserva e, successivamente, trae le debite conclusioni. Legge libri e giornali, senza sosta. Cataloga ogni informazione. È attento. Non trascura di decifrare tra le righe. Quando decide di trattare un argomento, dal fenomeno Trump alla Russia di Putin, ne riscrive sempre la storia evitando di ricadere nelle narrazioni mainstream ufficiali. I suoi interessi ruotano intorno a eventi a noi prossimi e alle varie declinazioni concrete assunte dal neoliberismo. In questo filone si inserisce Generazione Erasmus, Oaks Editrice, 2017, il cui sottotitolo non lascia adito a dubbi in merito alla sua valutazione del fenomeno: I cortigiani della società del capitale e la «guerra di classe» del XXI secolo. Siamo andati a intervistarlo per comprendere meglio cosa ci sia di paradigmatico in questa generazione, tanto da poterla prendere a pretesto per un libro.

Come definiresti, in breve, la generazione Erasmus a cui hai dedicato questo lungo e intenso volume?

La definirei l’esito politico-antropologico del modo di produzione postmoderno (flessibile). La categoria è chiaramente apologetica e forgiata ad hoc dal circo giornalistico mainstream, al fine di glorificare i processi di sradicamento e precarizzazione di massa. Nel libro io li descrivo come teenager globalizzati, il cui orizzonte di vita principale sembra essere quello della vacanza permanente, del divertimento inteso come adesione sic et simpliciter alle mode liberal americane in fatto di stili di vita, consumo e disincanto generalizzato. E direi che la narrativa imperante, tesa alla loro strenua difesa, è una strategia delle classi dominanti volta a conferire legittimità simbolica al regime del capitalismo liberale e della cosiddetta “società aperta”.

Qual è lo spartiacque? Quando ha inizio la generazione Erasmus?

Ho collocato questo spartiacque simbolico agli albori della movida spagnola. Era l’epoca della transizione dal regime franchista a una democrazia basata inequivocabilmente su formule ideologiche e contenuti politici riconducibili al capitalismo liberale. Ciò che ne è scaturito è una nuova categoria antropologica, degli “integrati” nell’ambito dei modelli economici e culturali generati dal processo di accumulazione postmoderno. Il regime capitalistico contemporaneo, parafrasando Costanzo Preve, «è di destra in economia (potere del denaro), di centro in politica (potere del consenso) e di sinistra nella cultura (potere dell’innovazione del costume). Lo smantellamento (di sinistra) delle vecchie forme di vita tradizionali, borghesi e proletarie, fatto in nome della modernizzazione nichilisticamente permanente, è funzionale a un allargamento globale del mercato e del connesso potere del denaro che questo comporta (di destra)». I teenager della Generazione Erasmus sono infatti, prevalentemente, di sinistra nella cultura (aderiscono all’ideologia della liberalizzazione dei costumi borghesi), di centro in politica (laddove il “centro” è, per definizione, il luogo d’incontro e mediazione degli interessi propri delle classi medie ideologicamente fedeli allo status quo) e di destra, cioè liberisti, in economia.

Vorrei chiederti, che cosa seduce un giovane, a livello psicologico, inducendolo a entrare nel circuito perverso della generazione Erasmus? Qual è la promessa che spera di vedere attesa?

Coloro i quali aderiscono alla filosofia di vita centrata sul dogma del disincanto permanente desiderano più che altro divenire oggetto di processi di integrazione nell’ambito della cosiddetta “società aperta”. Indico con questo termine una sorta di feticcio ideologico delle classi dominanti liberali, lo strumento di potere volto ad attuare giganteschi trasferimenti di risorse dai ceti dipendenti in direzione delle classi manageriali e ricche. I giovani liberal sono a mio avviso letteralmente sedotti dalla possibilità, veicolata loro dal modello della pubblicità e del consenso mainstream, di diventare ipso facto degli “integrati”, ossia dei mediocri, omologandosi a determinati codici culturali simbolici di adattamento allo status quo stabilito dal regime del capitalismo liberale e della società di mercato. Il filosofo canadese Alain Deneault ha descritto i mediocri del XXI secolo come coloro i quali dispongono di competenze ed esperienza necessarie a ricoprire ruoli e mansioni, anche di livello “alto”, nel mondo delle nuove professioni del lavoro cosiddetto biopolitico ma che, per dovere di fedeltà nei confronti del regime che li ha forgiati e istruiti, non si azzardano a porre in discussione i fondamenti ideologici del sistema.

Credo che, sempre parlando a livello psicologico, il giovane aspiri a uscire da una dimensione provincialistica. Tu cosa ne pensi?

La categoria di provincialismo è, oggi, completamente rovesciata di significato. Provincialismo significa, infatti, grettezza e imperizia, ossia incapacità (o assenza di volontà), da parte delle classi “politicamente attive”, di costruire un pensiero autonomo e critico nei confronti dell’esistente. I fautori liberal della “società aperta” hanno invece, in maniera del tutto fuorviante, preso a definire il provincialismo come una sorta di rifiuto, da parte dei ceti popolari e periferici, di omologarsi ai processi di globalizzazione fondati sulla prevalenza, nella cultura, dell’ideologia della liberalizzazione dei costumi e, in economia, sulla dinamica del trasferimento di risorse dai ceti dipendenti in direzione delle classi agiate, rentiers e proprietarie. L’adesione di massa a tale visione, in realtà, non determina una fuoriuscita da qualsivoglia dimensione “provincialistica”. L’ideologia della mobilità postmoderna esaspera invece il provincialismo inteso come assenza di creatività, di perizia, di abilità dei giovani a formarsi un pensiero critico e autonomo. La generazione Erasmus, in particolare, risulta del tutto impossibilitata a costruirsi una capacità strategica di immaginare un futuro diverso rispetto a quello dell’eterno presente consumistico che viene proposto e, in qualche modo, imposto.

Il giovane, aderendo a questo progetto, spera di diventare un cittadino del mondo?

Il cittadino del mondo di cui biascica l’utopia cosmopolita è stato descritto dal sociologo Carlo Formenti come «un’astrazione priva di consistenza reale». Il concetto di cittadinanza, infatti, prosegue Formenti, ha una sua ragion d’essere «nella misura in cui si condivide un progetto comune in un determinato territorio, a prescindere dal fatto che vi si parli la stessa lingua o […] che si appartenga allo stesso gruppo etnico o religioso». In altri termini, «cittadini si è se si appartiene a una comunità solidale che stabilisce come distribuire la ricchezza prodotta in quel territorio». Il concetto di cittadinanza è strettamente legato a quello di territorio ed è incompatibile con l’ideologia dei flussi. Anzi, oggi assistiamo a un vero e proprio conflitto culturale e di classe incardinato sulla linea di faglia che divide flussi e territori. Il “cittadino globale” è nient’altro che parte dell’esercito industriale di riserva del capitale transnazionale e viene disciplinato a tale ruolo mediante il ricorso a processi di socializzazione conformistica generalizzata (il progetto Erasmus, ad esempio, è uno degli strumenti a disposizione delle élite liberali per indurre le nuove generazioni alla socializzazione conformistica generalizzata). Di fatto i giovani che si autopercepiscono come “alla moda”, soprattutto i più ideologizzati, credono veramente che “libertà” sia sinonimo di liberazione dalle appartenenze pregresse e dai vincoli comunitari d’origine. Di più: molti giovani hanno ormai mandato a mente l’assunto secondo cui libertà e liberalismo sarebbero sinonimi. Libertà significa invece, innanzitutto, sovranità ed emancipazione dai meccanismi odierni di condizionamento, ossia dai paradigmi ideologici propri della “società aperta”, mentre il liberalismo è l’autogoverno dei ceti ricchi. Il mainstream invita infatti le giovani generazioni a “mettersi in gioco”. Tuttavia, “mettersi in gioco”, nel lessico postmoderno, significa “giocare” al “gioco” che decidono, per tutti, le élite al potere. E chi “non gioca”, cioè rifiuta di fare il criceto che corre sulla ruota per compiacere il padroncino che sta fuori e guarda divertito, viene immediatamente tacciato di essere una sorta di asociale e pavido. Il ceto professional di servizio alle caste capitalistiche odierne è l’accozzaglia perfetta dei mediocri del tempo presente, quelli che, disciplinatamente, “giocano il gioco” disposto ad arte dai padroni del discorso e dell’economia globale. In realtà sono dei conformisti, degli yes men più o meno remunerati del regime dell’utilitarismo e dell’idolatria del mercato liberalizzato (cioè adattato alle esigenze e ai desiderata dei ceti ricchi).

Stai dicendo che l’Erasmus è sostanzialmente un progetto di condizionamento delle menti?

BorgognoneLe nuove classi dominanti, “colte” e apolidi, che istituiscono la cultura della mobilità come dogma religioso postmoderno, coltivano un progetto molto specifico di manipolazione e riconfigurazione dell’immaginario collettivo. Una riconfigurazione che va poi a delinearsi in un nuovo tipo di mentalità, conforme a quelle che sono le istanze del capitalismo cognitivo-finanziario e del lavoro biopolitico, creando i nuovi sfruttati e alienati del futuro. La società odierna è infatti basata sull’accoglimento generalizzato di funzioni “tecniche” (meramente operative) cui non può corrispondere alcuna arte o perizia, perché il pensiero critico e innovativo potrebbe, in qualche modo, costituire un ostacolo al dispiegarsi incontrastato del regime tecno-mercantile. Le classi dominanti del capitalismo cognitivo-finanziario riescono, attraverso il Politicamente Corretto, a imporre una nuova morale di massa che sostituisce la precedente morale tradizionale. La prima è infatti prevalentemente fondata sull’esistenza commerciale. È ciò che si chiama oggi Politicamente Corretto, ossia il versante ideologico del regime di sfruttamento capitalistico. Il capitalismo contemporaneo, finanziarizzato e digitalizzato, si riproduce, nella cultura, attraverso questo strumento di potere. Il sociologo Carlo Formenti fa infatti aperto riferimento «alla solerzia con la quale imprese come Google, Apple e Facebook si fanno promotrici dei principi del politicamente corretto, esaltando le pari opportunità di carriera che vengono offerte ai propri dipendenti e collaboratori a prescindere dalle appartenenze etniche, di genere, preferenza sessuale, ecc. e sanzionando duramente l’uso di linguaggi “inappropriati” al proprio interno». Chi, infatti, si azzarda a criticare tali fondamenti ideologici viene ipso facto considerato, dalla narrativa che le classi emergenti veicolano al fine di legittimare lo stato di cose presenti, estraneo e nemico rispetto ai processi di integrazione nel perimetro della cosiddetta “società civile” (laddove, con il termine “società civile”, intendo quella frazione di ceto medio maggiormente interna al perimetro ideologico del Politicamente Corretto).

Ma com’è che nessuno di questi giovani che hanno vissuto l’Erasmus e poi, di conseguenza, lo sradicamento e la precarizzazione, apre gli occhi?  Penso sia una domanda che ci poniamo in molti: come può accadere tutto ciò? È possibile che la propaganda arrivi fino a questo punto?

Il sociologo Alain Deneault ha scritto che, oggi, per lavorare «bisogna saper far funzionare un determinato software, riempire un modulo senza storcere il naso, fare propria con naturalezza l’espressione “alti standard di qualità nella governance di società nel rispetto dei valori di eccellenza” e salutare opportunamente le persone giuste. Non serve altro. Non va fatto nient’altro». Io credo che i ragazzi della generazione Erasmus, istruiti ad hoc presso le costose business school private che frequentano, siano perfettamente a conoscenza di ciò. Accettano il compromesso neoliberale postmoderno (sei mesi di vacanza-studio all’estero, tra svago e “divertimenti”, in cambio del futuro adeguamento al regime disciplinare di precarizzazione permanente) in perfetta malafede. Questa è una categoria da non trascurare o sottovalutare, quando si effettua una critica dei nuovi ceti medi emergenti. D’altronde, soltanto chi è profondamente in malafede o si trova nella condizione di dover tutelare propri interessi economici o politici di ingente consistenza, può prestar credito alla retorica antifascista in palese assenza di fascismo, per legittimare il regime russofobico dell’Unione europea, della Nato, dell’Euro e degli accoliti politici, giornalistici e accademici di codesti organi del capitalismo cognitivo-finanziario. Una categoria, come quella dell’antifascismo, che in passato può forse aver avuto un ruolo storico in qualche modo rispettabile e legittimo, oggi viene utilizzata dal mainstream, previo rovesciamento palmare del suo significato originario, per cercare di marchiare con lo stigma d’infamia i nemici della “società aperta”. L’attacco furibondo che i liberal indirizzano contro di loro, ossia contro i democratici in senso forte (laddove per democrazia si intende il ripristino delle categorie storiche di sovranità popolare e di dignità nazionale dei popoli), è propedeutico esclusivamente al tentativo, disperato, che i manutengoli del regime pongono in essere per legittimare l’oligarchia finanziaria contemporanea. Ciò avviene attraverso la sistematica demonizzazione del XX secolo, ovvero il secolo in cui la politica ha cercato, per molti aspetti fallendo, di stabilire il proprio primato nei confronti dell’economia. La generazione Erasmus è, in questo senso, quella frazione di ceto medio globale che si presta, volontariamente, al tentativo delle classi dirigenti di giustificare, attraverso la demonizzazione del passato europeo (fascista e comunista), l’attuale regime centrato sul dominio dispotico dell’economia finanziarizzata e del cosiddetto “libero commercio” (ma sarebbe meglio dire del commercio liberalizzato, ossia adattato alle esigenze e ai desiderata dei ceti ricchi). Viviamo in un mondo, almeno quello cosiddetto occidentale, grottesco, dove le tragedie storiche (dicotomia fascismo/antifascismo) vengono oggi riproposte in chiave integralmente farsesca (per motivi di mera opportunità ideologica contingente e tattica elettorale, dal PD e dai suoi alleati).

Oggi, in Europa, abbiamo sostanzialmente due fronti, direi: da una parte, c’è una generazione che aspira a una mobilità infinita; sull’altro versante, da sud, arrivano i migranti. Secondo te c’è un intrinseco legame tra la mobilità della generazione Erasmus e quella del migrante, economico o meno che sia?

Certamente. Infatti, questi sono migranti economici e culturali, che perlopiù appartengono al ceto medio dei paesi di provenienza. Personalmente, considero i fenomeni migratori di massa odierni come una sorta di tratta degli schiavi del tempo presente. A mio modo di vedere, la figura del migrante economico e culturale è una categoria del capitalismo e della società liquido-moderna e, come tale, è criticabile. Inoltre, i migranti attuali non sono degli immigrati ma, appunto, dei migranti. Non partono da un territorio dato per insediarsi stabilmente in un altro, contribuendo al suo sviluppo economico e culturale. I migranti si spostano continuamente da un luogo all’altro, consumando (o cercando di farlo) voracemente tutto ciò che un determinato territorio può offrire loro. E questo a prescindere dal colore della loro pelle o dalla estrazione di censo di ciascuno. Il migrante, per definizione, vuole fare soldi per sé stesso, non migliorare la condizione economica e culturale della comunità da cui proviene o della comunità in cui, provvisoriamente, tende a insediarsi.

Matteo Fais

 

 

 

Gruppo MAGOG