20 Giugno 2019

“Andare contro lo slam poetry è da reazionari e troppe riviste sono servili alla gerontocrazia poetica”: Gabriella Montanari risponde alle posizioni avanzate da Matteo Fantuzzi

La scorsa settimana, credendo di rivolgerci ai nostri soliti venticinque lettori di manzoniana memoria, abbiamo intervistato il poeta e Direttore di “Atelier”, Matteo Fantuzzi, senza neppure immaginare a quante polemiche saremmo andati incontro. Tutto per due righe in cui l’autore di La stazione di Bologna esprimeva la sua sacrosanta opinione, secondo la quale il poetry slam non sarebbe assimilabile alla poesia vera e propria. Ci sono stati momenti in cui si è rischiato l’accoltellamento virtuale e la minaccia di morte. Queste e altre spiacevoli quisquilie ci hanno rubato tanto tempo nei giorni a seguire, ma siamo fortunatamente sopravvissuti.

Tralasciando, per un attimo, la massa di esagitati isterici, ci ha colpito molto il breve ma mordace commento che in merito ha scritto Gabriella Montanari, poetessa ed editrice. Abbiamo quindi deciso di ospitarla sulla nostra pagina essendo lei, diversamente dagli altri, una che parla fuori dai denti, piuttosto che con un coltello tra i denti. E ne ha dette, ne ha dette tante sulla situazione dell’attuale universo letterario nazionale!

Commentando l’intervista a Matteo Fantuzzi, hai scritto una breve ma intensa critica alle idee da lui avanzate. La tua replica inizia con queste parole: “Reazionari sono tutti coloro che hanno per le mani una parvenza di potere decisionale e morirebbero piuttosto che perderlo o cederlo. Qui mi pare evidente che si cerchi di conservare uno status quo provinciale”. Spiegami meglio questo concetto, per favore.

Comincerei precisando che, chiaramente, il termine “reazionario” non ha qui una valenza politica. In prima istanza, desideravo riconnettermi alle posizioni avanzate in merito allo slam poetry. Questo filone è qualcosa di relativamente nuovo dal punto di vista formale, ma mi pare venga inteso da Fantuzzi come un’involuzione rispetto al modo in cui di solito si concepisce il fare/comunicare poesia. Personalmente, pur non praticando né frequentando questo genere di espressione poetica, non condivido questa sorta di timore reverenziale che secondo certe persone dovrebbe legarsi al pronunciare la parola poesia, per cui lo slam e lo spettacolo che lo accompagna sarebbero di conseguenza viste come qualcosa di svilente, di dissacrante. Con reazionario volevo dunque indicare chi si pone nella posizione di giudicare la forma attraverso cui l’artista della parola sceglie di esprimersi, stabilendo in maniera del tutto soggettiva e spesso autocentrata una sorta di scala di valore: serietà e professionalità tra le modalità di comunicare il proprio sentire poetico. Reazionario è chi non tiene conto della diversità, tra i fruitori di poesia, di gusti, esigenze, capacità e aspettative, sia in materia di contenuti che di forma. Non tutti hanno due lauree, sono addetti ai lavori, hanno a che fare professionalmente con la letteratura. L’“intrattenimento poetico” non è da condannare, anzi, se riesce ad avvicinare il pubblico più ostico, ossia i giovani, alla poesia, deve essere incoraggiato. A volte una lirica recitata in un certo modo o in un certo contesto riesce a toccare corde altrimenti poco sensibili agli approcci più classici di presentazione e reading. Nell’etimo di poesia vi è l’azione di fare, produrre e creare, ma non vi è alcun riferimento a modalità più o meno consone o “nobili”. Il suono, il ritmo, la musicalità del linguaggio giocano un ruolo fondamentale. Le primissime forme di poesia, in epoca arcaica, erano orali, si sposavano con il canto. Dai trovatori medievali, ai cantastorie popolari, ai moderni cantautori la parola poetica non ha forse trovato nell’esibizione in pubblico il suo vettore? Mi sembra quindi che gli slammer non si allontanino più di tanto dall’origine. In ultimo, andare ad ascoltare uno slam è sempre e comunque più edificante che stare davanti alla televisione o al telefono. Non credo sia da condannare come pratica. Per non essere reazionari è dunque necessario non fermarsi a uno status riconosciuto come l’unico degno di essere considerato “fare poesia”. Nell’intervista si parlava, inoltre, di “metodo”. Devo dire che questa parola non mi sembra applicabile al di fuori dello studio e dell’analisi critica. Possiamo utilizzarlo entro tale approccio, ma nel fare poesia mi pare un concetto assolutamente fuori luogo.

Al di là del cosa possa dirsi poesia, tu contesti, sempre in questa prima trance del tuo intervento, il fatto di arrogarsi un potere decisionale in ambito letterario, se non comprendo male.

È tipico di troppe realtà, oggi, in Italia. Non so se si tratti deliberatamente di appropriazione del potere, ma mi pare evidente e sotto gli occhi di tutti un determinato modus operandi: a quale “tipo” di poesia dare considerazione e visibilità, di quali poeti circondarsi, come valorizzarli escludendone altri. Chi si presta a questo gioco entra a far parte di una cerchia, chi non lo fa opera da cane sciolto, fatica, si isola. Ho sempre avuto il sospetto che dietro tale modo di agire si nascondesse molta paura. Solitamente chi tenta di conservare uno stato acquisito, che non consente a chi sta fuori di entrare e di apportare un contributo diverso, ha solo il timore di vedere crollare il proprio fortino, specie se gli avversari sono di spessore e quindi reali concorrenti. Tutto ciò mi fa sorridere, in un ambito che non è neppure quello della narrativa, in cui quindi non c’è alcun interesse economico in ballo. È casomai un potere che nasce dalla frustrazione, un potere pari a quello dei soldi del Monopoli.

Gramscianamente, se certo non si può parlare di potere economico, esiste in senso lato un potere dato dal costituirsi come classe intellettuale. Ciò è sempre accaduto, sia chiaro – solo che la Destra non è riuscita a portare avanti un simile percorso.

Sì, ma sempre si tratta di un’auto proclamazione! Io, poi, sul piano politico non sono una praticante, e nemmeno una teorizzatrice, e ho capito in fretta che questo vuol dire stare fuori da certi giri. Non faccio poesia “civile” o impegnata socialmente, come si suol dire – si tratta di una scelta personale, frutto di lunga riflessione. Già questa è ragione sufficiente per non essere considerata da realtà editoriali che, attraverso le opere di determinati autori, diffondono un pensiero politico più che una linea editoriale. Non credo che un editore debba pubblicare unicamente quello che corrisponde al suo modo di vedere. Il valore estetico, intrinseco ed emozionale di un’opera letteraria dovrebbe essere valutato in maniera autonoma rispetto alla visione del mondo del suo autore o dell’editore che intende diffondere poesia nella maniera più democratica possibile. Ci sono gruppi di influenza, formati da poeti, critici e giornalisti proclamati o autoproclamatisi “establishment”, spesso di dubbio valore letterario e umano, onnipresenti come il prezzemolo e restii a fare spazio, a consigliare, a condividere, ma soprattutto ad ascoltare e a mettere in discussione il piccolo mondo di favori e scambi a cui sono saldamente ancorati.

Perdona la curiosità, ma che cosa avresti tu di tanto diverso da dire che non si possa proprio incontrare con la loro visione delle cose?

La mia è una visione che disturba perché non incline ai compromessi, alle cordate, alle mode. L’onestà nel raccontare le bruttezze, nel denunciare o nell’estraniarsi non è mai stata merce apprezzata, di certo non da chi della poesia ha la pretesa di farne mestiere. Non scrivo per piacere a “quelli che contano”, ma per avvicinarmi a lettori curiosi, aperti e in cerca di emozioni.

Stai forse cercando di dire che la loro visione ideologica preclude l’apprezzamento della tua espressività?

No. Semplicemente ritengo non sia giustificata questa esclusione di chi non è di loro gradimento. Purtroppo, è prassi diffusa allontanare chi non va a genio, o evitare di menzionarlo, fare come se non esistesse. Ultimamente, proprio perché ci sono tanti autori che semplicemente non vengono mai citati in quanto atipici o non schierati, mi sono presa la briga di farlo io sui social. Vorrei far circolare i nomi di tutti quelli che ritengo siano stati messi da parte, pur avendo qualcosa di veramente forte da dire.

Fammi qualche nome, ti prego.

In primis, Ivano Ferrari. Mi chiedo di cosa abbiano paura gli altri, quelli i cui nomi circolano sulla bocca di tutti, rispetto a poeti come lui. Io non credo sia un caso che i grandi, quelli fuori dai sistemi, siano volontariamente messi da parte. Infatti non ho mai sentito un accenno, una parola, per esempio su Filippo Strumia, perché quelli come lui e Ferrari non stanno tutto il giorno a cercare conferme della propria poesia, pur essendo pubblicati dai maggiori editori. E credo che ciò avvenga anche perché gli altri sanno che i reali concorrenti sono loro, perché quella è la poesia che piace al lettore. Poi c’è quella che piace agli altri poeti, ai critici, agli addetti ai lavori. Io ci vedo una scissione…

Parli di una scissione tra alto e basso, tra il popolo e gli intellettuali?

Parlo di una poesia che si rivolge al lettore e quindi arriva anche a chi va verso di essa disarmato, semplicemente con la propria sensibilità, senza sapere “chi sta con chi”, per quale editore pubblica l’autore in questione. Invece tutto l’apparato che si muove dietro questo mondo, alla fine, se la racconta, se la legge e se la pubblica da solo. Non credo che siano intellighenzia. Spesso mancano lucidità e criticità sul proprio lavoro, manca l’autoironia, e da qui tutti i mali. Il bisogno di esercitare una qualche forma di potere sugli altri cela molto spesso grandi insicurezze e incolmabile esigenza di riconoscimenti e conferme.

Veniamo all’ultima parte del tuo commento: “Certe riviste emanano aria stantia. Si avvalgono di giovani vecchi dentro e servili alla geriatocrazia poetica”. Chiariscimi il punto.

La rivista è solitamente la meta per chi inizia a scrivere, o per chi vuole continuare a far circolare il proprio nome tra un libro e l’altro. Dovrebbe anche essere un mezzo per tenersi aggiornati sulle novità e per conoscere le tendenze. Purtroppo, oggi, le riviste non offrono molto spazio a chi non ha conoscenze, a chi non è amico di uno dei redattori, a chi non è stato “raccomandato”. Non si può più sperare di mandare qualcosa a una redazione che liberamente selezioni, senza una mediazione. E questo vuol dire che la rivista è anch’essa uno strumento in cui si ritrovano determinate dinamiche dell’editoria, dei “circoli intellettuali”, dei festival letterari. Forse nei blog c’è più autenticità: chi pubblica altri autori lo fa semplicemente seguendo il proprio gusto personale.

E i giovani nati vecchi?

Mi capita di incontrarli, leggerli, di ricevere i loro manoscritti e mi dispiace a volte riscontrare che si tratta già di ombre, emuli o potenziali portaborse di chi ha raggiunto una posizione in ambito letterario. Il coraggio di osare, di distinguersi, di non avere un protettore, di usare un linguaggio e uno stile propri, mi pare sia andato perduto. Forse interessa di più avere una voce seguita e sostenuta che possedere una voce unica. A me è capitato di ricevere e leggere scritti in cui un giovane autore autodefiniva il proprio stile, per esempio “alla Cucchi” o “alla Magrelli”, e lo faceva con orgoglio. Tutto ciò è abbastanza triste, perché ti chiedi su chi riporre le speranze se non sui giovani, temi che anche la poesia viva di corsi e ricorsi storici e che tutto rimanga identico a oggi. Le nuove generazioni avranno le stesse aspirazioni di quelle che le hanno precedute. Questo demone del riconoscimento credo sia la bestia più difficile da sconfiggere.

Scusa ma tu ritieni che queste riviste siano fucine entro cui vengono allevati dei cloni?

Io dico che quando s’incominciano a vedere spuntare come funghi queste realtà di aggregazione, con un unico e rigido modo di pensare, di scrivere, di concepire la letteratura… non è molto rassicurante. In economia si parla di monopoli e cartelli… Ci vedo molte similitudini. Quando nasce quella che io chiamo una triade (vale a dire una casa editrice, una rivista, un premio), allora dubito che si possa parlare di una realtà aperta, democratica, libera, a disposizione di chi ha qualcosa da proporre. Diventa un accumulo d’influenze che ovviamente si autoalimenta. Che oggi si debba essere obbligati, quando si ha il desiderio di partecipare a un premio letterario, di controllare chi è in giuria, chi è l’editore di riferimento, vuol dire che sussiste un problema. Spesso sai già che in alcuni casi sarà inutile partecipare (non sempre l’anonimato è rispettato come si dovrebbe), perché non sarà il tuo testo a essere valutato, ma ciò che tu rappresenti.

Matteo Fais

*In copertina: Gabriella Montanari con Dan Fante, il figlio di John Fante, lo scrittore, geniale, di “Aspetta primavera, Bandini” e “Chiedi alla polvere”

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