18 Febbraio 2019

Fuori luogo, fuori schema, silenzioso, antipatico: tanti auguri a Roberto Baggio, il Piccolo Buddha del calcio italiano che ci ha fatto credere che gli arcangeli giocano a pallone

Per quel che conta, avevo il suo nome inciso sulla cavigliera destra, come se il nome, specie di amuleto, bastasse a raddrizzare il piede, a conferire il carato del talento. Ma io ero un airone, una cattiva imitazione di Alen Boksic, ricordate?, mentre lui era l’inafferrabile capitato su un campo da calcio. Oggi, 18 febbraio, Roberto Baggio compie gli anni, ne fa 52, 5+2 fa 7, il numero perfetto, ma ogni occasione è perfetta per parlare del più grande calciatore italiano di sempre.

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Certo – assoluti, aggettivi, superlativi, paragoni sono gli ornamenti dei cretini. Roberto Baggio è indelebilmente legato alla mia giovinezza – ho iniziato a giocare a calcio, con somma modestia, dopo aver visto le evoluzioni americane del ‘Divin Codino’, la micidiale semplicità con cui, durante le semifinali del Mondiale, ne salta un paio e infila, angelica precisione, il portiere della Bulgaria – per questo, per me, è il campione, è l’inevitabile.

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Ciò che mi affascina ancora di Robert Baggio è che è l’emblema del genio puro, inspiegabile. Come hanno detto in troppi, Baggio ha vinto troppo poco rispetto al suo talento, soltanto due campionati – con la Juventus e con il Milan, in quest’ultimo caso segnando pochissimo – una Coppa Italia, una Uefa. Nonostante sia il cannoniere massimo dell’Italia nella manifestazione più importante – 9 gol in 3 edizioni dei Mondiali – non ha mai portato gli Azzurri sul trono più alto del podio. Baggio, in un gioco dove conta tanto chi urla più forte, non è un ‘capo’, non sbraita, non sgomita. Baggio è, non ha bisogno di ribadire quello che potrebbe essere. Baggio è il genio, la forma pura, l’ideogramma sul prato, il sonetto nell’area di rigore, il verso impeccabile davanti al portiere – per questo è insopportabile. Baggio è la bellezza dissociata dal mucchio, dal resto, e la bellezza è ardua, è inutile. Baggio agisce come ciò che è naturale e irripetibile, fa accadere l’inspiegato in un istante – e sai di avere assistito a ciò che non sarà mai più.

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Roberto Baggio non è un fenomeno di massa come Diego Armando Maradona, non è simpatico come Gianluca Vialli, non è atletico come un Alessandro Del Piero, non è un fenomeno come Cristiano Ronaldo, non è la bandiera di una squadra come Francesco Totti. Appunto: non è altro che genio. La poesia in sé.

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Roberto Baggio è l’inatteso che irrompe nella norma e la rompe in virtù del sublime. Se vi capita di rivedere una partita di Baggio capite che a un certo punto, dalla palude dei passaggi onesti e delle sincere ‘sgambate’, accade qualcosa. Come se il calciatore fosse ‘chiamato’, come se agisse per tramite di una divinità. Eccola la ‘magia’ – il gol inesplicabile – il passaggio incredibile. E Baggio che esulta con pudore, come chi sa che ha editti biblici nei piedi e la Bhagavadgita nelle caviglie di cristallo.

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I calciatori oggi sono gladiatori statuari, uno slogan in tatuaggi, hanno una vigorosa ‘personalità’. Roberto Baggio, al contrario, è il vuoto: sembra sempre fuori posto, abulico, pare che il chiasso dei tifosi gli dia fastidio, scansa il contatto fisico con una devozione verso l’arte del dribbling priva di astuzia e di cinismo – la rivalsa del piccolo contro il rude, come faceva Sivori, che irretiva i difensori fino al pugno – simile a una preghiera, un dono al perfetto. Baggio, come il genio depurato da ogni ambizione che non sia la forma, non ha bisogno di ostentare una pacchiana personalità. Egli fa il vuoto per lasciare spazio al gesto, supremo.

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Baggio è sfuggente – non riesce a diventare un ‘simbolo’, non si lega a una squadra in particolare. Egli elude ogni passione smodata, immotivata: preferisce che si ammiri il gesto, scevro dal superfluo. All’urlo preferisce lo stupore, che ti occlude la gola, che occulta il cervello, che profila gli occhi in frammenti di luce.

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Baggio è il Piccolo Buddha del calcio italiano: i risultati più grandi li ha conosciuti con le squadre più modeste. Prima con la Fiorentina, poi, soprattutto, quando gli davano del ‘finito’, con il Bologna, con cui segna il maggior numero di gol mai segnati in campionato – 22 su 30 partite – e tramuta l’onesto Kennet Anderson in un temibile bomber – grazie a Baggio segna come mai prima e come mai più in Italia. Infine, nelle quattro stagioni a Brescia, eroiche, dimostra che non c’è umiliazione, non c’è esilio né esitazione per un campione, che si gioca sempre l’ultima partita, per rispetto verso la natura del cosmo e della vita.

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Incidentalmente. Le stagioni più brutte Roberto Baggio le ha giocate all’Inter. Nel campionato 1999-2000 ‘Roby’ fa 18 presenze e 4 gol. Una miseria. A contratto scaduto e a campionato finito, c’è una partita in coda. Lo spareggio contro il Parma per garantirsi l’accesso alla Champions League. Ormai Baggio è altrove: cosa gli importa? Ancora una volta, l’arte è tutto. L’Inter vince 3 a 1 e l’anno dopo si gioca la Champions. Eroe della partita: Roberto Baggio, che segna la doppietta decisiva. Né rancore né proteste né incomprensioni impediscono al campione di esprimersi: un conto è il mondo e l’uomo, un conto è l’arte.

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La questione, dunque, non è sbagliare un rigore, ma dare rigore all’imponderabile; la questione non sono i 205 gol in serie A, le 323 reti in totale, ma l’istante, assoluto, in cui il piede diventa profetico, il verbo terroso di Isaia o l’inno smagliante di Milarepa, il pallone un testo sacro, la rete un rito, la gioia una liturgia che scompone l’esistere in canto.

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Fuori dagli schemi, inadatto al calcio muscolare, incapace a obbedire alla ‘tecnica’ imposta dagli allenatori, propenso alla difficoltà – squadre piccole, situazioni impossibili – più che al chiarore della fama, Roberto Baggio, con serafica compassione, ci ha fatto credere che anche gli arcangeli giocano a calcio. (d.b.)

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