22 Settembre 2018

Franz Kafka voleva fare il cameriere in un ristorante vegetariano a Tel Aviv. Fantasticheria realizzata: con Dora Diamant, figli e redenzione dalla sofferenza

Nell’ultimo anno della sua vita, Franz Kafka progettò di trasferirsi in Palestina, a Tel Aviv, per aprire un ristorante vegetariano con Dora Diamant, una giovane insegnante polacca, ebrea chassidica, con cui era andato a vivere a Berlino. Proprio a Berlino, in effetti, durante un viaggio di diversi anni prima, Kafka era rimasto molto colpito da un ristorante vegetariano in cui si era trovato a mangiare. «Ma nulla è così buono come il cibo qui nel ristorante vegetariano», scrisse a Max Brod. Aveva apprezzato, in particolare, «il cavolo riccio con le uova fritte (la pietanza più cara)», e soprattutto «la pace col mondo» che si provava in quel posto, e aveva aggiunto, con la sua consueta autoironia, che lì era tutto «così vegetariano che persino le mance sono proibite».

Il progetto prevedeva che Dora lavorasse in cucina e Kafka servisse ai tavoli, ma non fu mai realizzato, per l’aggravarsi delle condizioni di salute di Kafka, che di lì a poco morì di tisi. Mi piace però immaginare che si sia verificata questa possibilità, che il grande viaggio in Palestina, cioè, si sia realizzato davvero e che i due abbiano aperto insieme il ristorante, dove il grande scrittore praghese accoglie i clienti con il suo bellissimo ed enigmatico sorriso e passa tra i tavoli con movimenti eleganti (anche un altro grande scrittore che Kafka amava molto, Robert Walser, sognava di fare il cameriere), offrendo ciò che la cuoca Dora prepara: zuppa di farro, semolino al succo di lamponi, lattuga con la panna, frittata di cipolla, tè alle foglie di fragola; o proponendo la specialità della casa: il cavolo riccio con le uova fritte. A fine serata lui e Dora contano gli incassi della giornata, chiudono il locale e tornano a casa, attraversando in silenzio la città semideserta, a tarda notte, stanchi morti ma, probabilmente, appagati. Si addormentano abbracciati, lei con la testa appoggiata sul suo petto, lui con una mano che accarezza i capelli della donna, mentre fissa il soffitto senza vederlo, con gli occhi spalancati nel buio. In questo sogno mai realizzato, per Kafka tutto è cambiato: niente più insonnia, niente più nevrosi, senso di colpa o solitudine. Per la prima volta nella sua vita ama senza angoscia ed è riamato. Dora gli ha dato finalmente la sensazione di essere un uomo tra gli uomini, non più quella «bestia silvestre» che rifuggiva i rapporti umani, come lo scrittore si definì una volta in una lettera a Milena Jesenská. E accompagnato da questa sensazione nuova, in modo inaspettato, Kafka guarisce e sopravvive, scrivendo brevi, sapienziali parabole sempre più luminose, sempre più essenziali, sempre più enigmatiche, finché non rinuncia per sempre alla scrittura, perché è riuscito a chiamare «con la parola giusta», «con il giusto nome», facendola arrivare fino a lui, quella «meraviglia della vita» di cui aveva scritto una volta nei Diari, ovvero quella «essenza dell’incantesimo» che per tutta la sua esistenza, prima di allora, gli era rimasta «nascosta» e «decisamente lontana». Adesso gli bastano la Palestina, il suo ristorante vegetariano e Dora, che intanto ha sposato e gli ha dato dei figli, e che gli sarà accanto quando infine muore, vecchio e grato alla vita, redento dalla sofferenza terrena, proprio come la cantante Josefine di un suo vecchio racconto, dopo aver vissuto così, perso felicemente tra la folla anonima e innumerevole del suo popolo, e pronto a raggiungere uno stadio di più alta redenzione, dimenticato come tutti i suoi fratelli.

Fabrizio Coscia

Gruppo MAGOG