20 Agosto 2019

“Morto già di mille morti”: saggio sulla solitudine di Franz Kafka

Non mi aspetto più niente dalla vita
se non una serie di fogli di carta da scribacchiare di nero.
Mi sembra d’attraversare una solitudine senza fine,
per andare chissà dove.
E sono io a essere al contempo il deserto,
il viaggiatore e il cammello.
(FLAUBERT, Lettera a George Sand, 27 marzo 1875)

*

Il gioco delle carte e l’isola di Robinson

L’opera cresce ai margini della vita, sulle sue rovine, nell’«eterna tortura del morire». La solitudine ne è la scaturigine. Muovendosi nell’oscurità, nel limbo di chi non è, né tanto meno aspira a essere, il demone della scrittura sceglie il deserto, il negativo, l’assenza, il vuoto, per forgiare e distruggere il mondo nel fuoco della creazione, fino ad innalzarlo «nel puro, nel vero, nell’immutabile».

Nel corso della sua vita Kafka ha percorso una terra di confine, tra «la solitudine e la società». Landa desolata, infestata da fantasmi, dove la tenebra sconfina nel giorno diventando luce, e la luce si fa tenebra, in cui la realtà è continuamente minacciata, dilaniata dall’incubo.

In questa notte dell’anima si consuma per Kafka il dramma dell’esitazione, della lacerazione tra due imperativi categorici. Quello interiore della vocazione letteraria, lo isola proteggendolo dagli assalti terrificanti della vita; quello esteriore, rappresentato dall’implacabile universalità della Legge, lo spinge verso i doveri sociali di produrre e procreare. Quando raramente varcherà la frontiera, tentando di metter radici nello spazio della vita comune, se ne ritrarrà disgustato, annoiato, col rimpianto del tempo sottratto all’unico universo che conta: quello della scrittura. Questa lotta senza esclusione di colpi che dilania la sua anima, vede protagonisti due contendenti: l’uno, il “buono”, vuole perseguire la vita etica, attraverso il matrimonio, il lavoro e la discendenza; mentre l’altro, il “cattivo”, è egoista e senza scrupoli, s’interessa solo alla scrittura, sul cui altare, spietatamente, è disposto a sacrificare tutto, persino l’amicizia e l’amore.

Nell’ottobre del 1921 Kafka ha trentotto anni, in una serata come tante altre si trova nella sua casa di famiglia. I genitori giocano a carte, mentre lui se ne sta solitario in disparte. Il padre lo invita a partecipare, o perlomeno ad assistere da spettatore alla partita. Lui, inventando una scusa, rifiuta.

Che significava quella mia ribellione tante volte ripetuta fin dall’infanzia? La vita comune, la vita, dirò così, pubblica mi era resa accessibile da quell’invito, la prestazione che mi si chiedeva l’avrei data non bene ma passabilmente, anche il gioco probabilmente non mi avrebbe annoiato troppo: ciò nonostante rifiutai. A giudicare da ciò, ho torto di lamentarmi che la corrente della vita non mi abbia mai trascinato, che non mi sia mai staccato da Praga, non mi sia mai dedicato a uno sport o a un mestiere: probabilmente avrei sempre rifiutato l’offerta come l’invito a giocare.

Qualche sera dopo decide d’accettare l’invito: parteciperà al gioco annotando le vincite della madre. Eppure non sente alcuna vicinanza, ricavandone al contrario solo noia e tristezza. L’ennesimo tentativo maldestro di varcare il confine, di prender parte al gioco della vita, gli farà rimpiangere la ricchezza solitaria del suo universo interiore: «Quale paese vivo e bello era in confronto l’isola di Robinson!»

Per tutta la vita Kafka si struggerà in un desiderio ambivalente: quando si trova nella riva solitaria aspira a essere sull’altra sponda popolosa, conciliato con il prossimo, pur sapendo per esperienza che tale condizione è per lui inaccessibile e, qualora lo fosse, sarebbe comunque intollerabile. «Perché dunque aumento l’infelicità di essere su questa riva con la nostalgia di quell’altra?», si chiede. La diserzione della partita a carte è sintomatica del rifiuto di seguire la corrente della vita, di conformarsi alle sue regole del gioco. Nascere, vivere, lavorare, amare, significa in fondo farsi guidare dall’istinto gregario, abbandonarsi ai rituali collettivi, interpretare un ruolo, recitare un copione, partecipare insomma alla commedia della vita.

Kafka confesserà d’essersi fermato a uno stadio anteriore, di non esser «nato definitivamente», anzi, di aver conosciuto solo «l’esitazione che precede la nascita», così come dell’amore ammetterà di aver esperito solo «l’attesa silenziosa che avrebbe dovuto essere interrotta dal mio ti amo». Folgorato da qualche prescienza intrauterina, Kafka si affaccia alla tavola imbandita della vita già disingannato e senza appetito, quasi vi fosse entrato per un capriccio del caso, non attrezzato per sopravvivervi. Impossibilitato a parteciparvi direttamente, si limiterà a osservarla e a raccontarla da spettatore la vita, così come s’è manifestata al suo sguardo limpido, affilato, crudo, facendosi carico di tutto il negativo della sua epoca. Insomma, narrerà la realtà sotto forma di incubo. Ne scaturirà un canto puro, come può esserlo soltanto quello «cantato nelle profondità dell’inferno».

*

Il digiuno dell’uomo-penna

La capacità di descrivere «la sognante vita interiore», si rivelò a Kafka nella notte tra il 22 e il 23 settembre 1912. Dalle dieci di sera alle sei del mattino, in preda a un’ispirazione convulsa, a tratti irrefrenabile, scrive d’un fiato La condanna, dando libero sfogo agli spettri che lo tormentano, generati dal conflitto col padre. Georg Bendemann, il protagonista, vive un rapporto morboso col vecchio babbo, rimasto vedovo, il quale, in un crescendo claustrofobico, impedisce al figlio qualsiasi tentativo di fuga verso una vita indipendente (amicizie, matrimonio). Schiacciato dal senso di colpa e completamente plagiato, Georg è condannato dal padre al suicidio mediante annegamento: «Cari genitori, eppure vi ho sempre amati!», esclama prima di gettarsi dal ponte.

Il giorno seguente Kafka è pervaso da una sensazione di gioia, di completa apertura del corpo e dell’anima. Dinanzi a lui si schiude uno spazio infinito, è come se veleggiasse in mare aperto, sente che «tutto si può osare». Nei Diari paragonerà il racconto a un «parto coperto di muco e lordura».

Ancor prima di quel fulmineo concepimento, Kafka era già convinto che lo scrivere fosse «il lato più fertile» della sua natura, tuttavia, a causa della sua debole complessione, poteva dedicarvisi solo a prezzo di grandi privazioni, rinunciando «alle gioie del sesso, del mangiare, del bere, della riflessione filosofica e soprattutto della musica». In questo senso parlava della necessità di dimagrire in tutti gli altri ambiti, solo così, infatti, poteva raccogliere e convogliare le energie necessarie allo sforzo creativo. La letteratura, per una sorta di economia fisiologica, si alimenta sottraendo risorse alla vita, riducendo al minimo, fino ad eclissarle, le altre esigenze corporali.

Come il protagonista del racconto Un digiunatore, che riesce nell’impresa di fare della fame un’arte di vita, anche Kafka concepisce la scrittura quale unica forma di vita possibile, la sua «battaglia per l’esistenza». La narrazione si regge sul malinteso di considerare l’astinenza dal cibo un esercizio ascetico d’alta levatura, un’impresa eroica, mentre in realtà si tratta solo d’una necessità del tutto naturale, quindi «la cosa più facile di questo mondo». Il fraintendimento rende il protagonista addirittura un fenomeno da baraccone, un numero da circo. Col passare degli anni, tuttavia, quella stravagante attrattiva cessa d’incantare il pubblico. Benché il digiunatore continui ostinatamente la sua malinconica e solitaria esibizione, la gente passa ormai incurante davanti alla sua gabbia, finché un giorno un guardiano non s’accorge di lui. Nascosto nel pagliericcio e prossimo alla morte, il digiunatore chiede perdono a tutti. Nonostante avesse cercato, tramite il suo numero, l’approvazione del pubblico, non si ritiene degno d’ammirazione.

«Perché non dobbiamo ammirarlo?», chiese il sorvegliante. «Perché io son costretto a digiunare, non posso farne a meno», rispose il digiunatore. «Ma senti, senti!», disse il sorvegliante, «e perché non puoi farne a meno?» «Perché», replicò il digiunatore sollevando un pochino la sua testolina e parlando con le labbra appuntite come per schioccare un bacio proprio all’orecchio del sorvegliante, «perché non sono riuscito a trovare il cibo che mi soddisfacesse. Se l’avessi trovato, credimi! non avrei fatto tante storie, e mi sarei rimpinzato come te e come tutti.» Furono le sue ultime parole; ma nei suoi occhi spenti brillava ancora la ferma, anche se non più fiera, convinzione di protrarre il digiuno. «Adesso però ripulite la gabbia!», disse il sorvegliante; e il digiunatore venne sepolto insieme alla paglia. Nella gabbia, invece, venne messa una giovane pantera. 

Predatore dal «corpo nobile», «attrezzato per dilaniare», la pantera, contrariamente al digiunatore, sembra fatta apposta per imporsi nella battaglia dell’esistenza. Dalle sue fauci, infatti, prorompe una «gioia di vivere» che conquista subito gli spettatori. Il racconto contiene elementi fortemente autobiografici, essendo noto che Kafka adottava un regime dietetico di tipo vegetariano, e che inoltre si è sempre vergognato della magrezza del proprio corpo, troppo debole per affrontare le vicissitudini della vita, appena sufficiente, a suo dire, per sostenere il suo cappotto d’inverno!

Non meno del digiunatore, Kafka è un artista malgré lui, un forzato della penna, costretto alla scrittura per non aver trovato un’altra forma di vita che lo appagasse. La letteratura gli si presenta quindi come una fatalità tragica cui non può sottrarsi, vissuta peraltro come una colpa, essendo in conflitto diretto con i doveri familiari, a cominciare dal lavoro.

All’attività impiegatizia presso l’Istituto d’Assicurazioni sociali, di per sé avvilente, si aggiungeranno nel tempo gli impegni presso il negozio paterno e la fabbrica del cognato, che lo costringeranno a strappare al sonno notturno le ore utili alla scrittura. Presentarsi al lavoro il giorno seguente è, ovviamente, una catastrofe, al punto che le due attività risultano a conti fatti inconciliabili: «la più piccola felicità nell’una diventa una grande infelicità nell’altra». Il risultato è un comportamento nevrotico, alla lunga sfibrante.

Il mio posto mi è insopportabile perché in contrasto col mio unico desiderio e con la mia sola professione che è la letteratura. Siccome non sono altro che letteratura e non posso né voglio essere altro, il mio posto non mi attirerà mai, ma potrà invece rovinarmi del tutto.

D’altronde, la prospettiva di fare della letteratura un mestiere e una forma di sostentamento appare, nel suo caso, improponibile. La scrittura per Kafka è una vocazione sacrale, un destino (Schiksal) e non una professione (Beruf), una «forma di preghiera» da cui non ci si può guadagnare il pane. La debolezza e la vulnerabilità del carattere, inoltre, mal si prestano ad affrontare le peripezie d’una una vita incerta e aleatoria quale quella dello scrittore.

Flaubert, uno dei padri letterari di Kafka, suo consanguineo, aveva già rimarcato l’incompatibilità del ritmo di vita borghese con quello della creazione artistica. L’eremita di Croisset finì per teorizzare e istituire una sorta di culto della vita solitaria, di stampo monacale, quale esercizio ascetico propedeutico alla creazione letteraria. L’esigenza dell’opera richiede da parte dell’autore una dedizione esclusiva, assoluta, un’adesione per così dire mistica, a cui tutto va sacrificato. Scandita da un altro tempo, indifferente a quello cronologico e utilitaristico del mondo borghese, la vita dello scrittore attecchisce preferibilmente nel deserto, nel silenzio di un universo a parte, la cui evoluzione si confonde con il divenire dell’opera. L’autore si perde a tal punto nella propria creazione, da ridursi a mero strumento, un homme-plume, per dirla con Flaubert.

Ora leggo nelle lettere di Flaubert: «Il mio romanzo è lo scoglio al quale sono attaccato e non so nulla di quanto avviene nel mondo». Simile a ciò che ho scritto di mio il 9 maggio.

Il disprezzo del mondo borghese e la totale estraneità alle logiche utilitaristiche che lo governano, non fortificano in Kafka quel sentimento di fierezza e d’orgoglio che in Flaubert va di pari passo con una certa prestanza fisica, ma, al contrario, acuiranno in lui il senso di colpa, fino a condurlo ad un disperato abominio di sé. Il confronto/scontro con il rigore della Legge lo vedrà soccombente in partenza, giacché nell’immaginario di Kafka ciò significa competere con la figura paterna che più d’ogni altra l’ha incarnata. Autorità dispotica, modello inarrivabile e castrante a un tempo, Hermann Kafka appare agli occhi del figlio la «misura di tutte le cose», l’emblema dell’uomo virile e socialmente realizzato che s’è fatto da sé. In altre parole, incarna non solo la Legge, ma anche il Lavoro e la Vita, una triade di fronte alla quale Kafka si sentiva del tutto inadeguato e impotente.

D’altronde, anche l’ultimo Flaubert riconobbe all’etica spontanea delle persone semplici, alla loro ingenua adesione alla vita, di essere nel vero: «Ils sont dans le vrai», disse osservando le cure amorose di una madre per le figlie. Kafka rimase assai impressionato da quest’aneddoto tanto che amava ricordarlo spesso. Tuttavia, al di sopra della verità, Flaubert poneva la bellezza, l’assoluto dell’arte, la perfezione dello stile, in cui si barricava a dispetto di tutti. Kafka, viceversa, era senza rifugio, non si compiaceva della propria arte, era totalmente esposto e indifeso nella sua marginalità, simile a «un individuo nudo tra individui vestiti» Mentre Flaubert, al pari d’uno stilita, amava sovrastare con i suoi sarcasmi il brulicante mondo borghese, salvo scendere talvolta dalla colonna per civettare sottobanco con l’esecrata società, Kafka, dal canto suo, troppo sensibile e puro per accettarne gli avvilenti compromessi, rifuggiva istintivamente le luci della ribalta, preferendo l’ombra del sottosuolo. Arrivò persino a vagheggiare una dimora sotterranea, una sorta di studio-cantina, per realizzare il sogno d’invecchiare naturalmente lavorando.

Ho già pensato più volte che il mio migliore tenore di vita sarebbe quello di stare con l’occorrente per scrivere e una lampada nel locale più interno d’una cantina vasta e chiusa. Mi si porterebbe il cibo, lo si poserebbe sempre lontano dal mio locale, dietro alla più lontana porta della cantina. La strada per andare a prendere il pasto, in veste da camera, passando sotto le volte della cantina, sarebbe la mia unica passeggiata. Poi ritornerei alla mia scrivania, mangerei lento e misurato e riprenderei subito a scrivere. Chissà quali cose scriverei! Da quali profondità le farei sorgere!

L’alterità straniante di scrittore solitario, disertore dei doveri familiari e sociali, unita a una chiaroveggenza introspettiva spinta all’estremo, induce Kafka a prendere coscienza di sé come un qualcosa d’abominevole, di repellente. A volte dubita persino di essere un uomo. Per descrivere questa condizione di regressione subumana, non poteva che affidarsi alla morfologia animale, dando vita alle strazianti creature protagoniste dei suoi visionari racconti.

Nella Metamorfosi, ad esempio, la trasformazione fisica di Gregor Samsa non è che la ricaduta psicosomatica d’una mostruosità d’ordine morale, monstrum in fronte monstrum in animo. Chi viene meno ai sacri doveri dell’ufficio, sottraendosi alla catena produttiva, è un traditore, un individuo spregevole, un reietto che si pone fuori dell’umano. Lo sguardo spietato dei familiari e del procuratore, inflessibili inquisitori dell’ordine sociale, suona già come una condanna a morte. L’insetto che disturba il normale vivere comune, va semplicemente schiacciato e rimosso. Pur conservando, a dispetto dell’apparenza, una sensibilità interiore profondamente umana, alla fine anche Gregor Samsa si convince della propria assurda colpevolezza. Le creature di Kafka, commoventi nella loro discrezione, per non turbare il quieto vivere della comunità con la loro fastidiosa presenza, si eclissano spontaneamente, per consunzione, portando a termine quell’anomalia che è stata la loro vita. Spegnendosi, gettano tuttavia una luce sinistra sul mondo cosiddetto “umano” che sopravvive loro, non meno riprovevole e deforme nella sua spietata e ottusa “normalità”.

Nel racconto La tana, l’animale, verosimilmente una talpa, costruisce accuratamente il proprio isolamento dal mondo esterno, scavando un labirintico sistema di cunicoli sotterranei. In questo caso, il sogno d’una rifugio inespugnabile in cui vivere in totale solitudine e sicurezza, è il frutto di una costruzione, di una strategia di sopravvivenza contro le minacce di un invisibile nemico, non si sa se reale o immaginario, forse un doppio stesso della talpa, una fantomatica proiezione della sua solitudine. Perennemente in bilico tra possibilità opposte, la realtà in Kafka è sempre indeterminata, ambivalente, e come tale minaccia e disorienta l’individuo inerme. Così persino la tana, da rifugio inattaccabile, garante della tranquillità e della pace, finisce per trasformarsi nel suo contrario, un’inquietante prigione, in cui si odono rumori sinistri, e dove lo stesso costruttore rischia di smarrirsi. Per di più, i fantasmi d’una solitudine estrema, inducono l’animale a prefigurare, paradossalmente, uno scontro mortale con il misterioso nemico, cosicché la tana possa diventare, se non il suo rifugio, perlomeno la sua tomba… Quanto all’ispirazione del racconto, Kafka, in una lettera a Milena Jesenska, non esitava a paragonarsi a una bestia silvestre che vive in un lurido fosso. Inoltre è verosimile che, da assiduo lettore della corrispondenza di Flaubert, Kafka non ignorasse il passo d’una lettera a Louise Colet, in cui l’autore di Madame Bovary paragonava la vita segregata dello scrittore al lavoro cieco e ostinato della talpa.

Probabilmente non era possibile raccontare con più efficacia le ansie, le angosce, i fantasmi che spaventano lo scrittore intento a scavare ed esplorare il proprio sterminato mondo interiore, alla ricerca affannosa e ostinata di una perfetta, impossibile solitudine.           

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Desiderio e orrore del matrimonio

Nell’agosto del 1912, appena un mese prima della stesura del racconto La condanna, a casa dell’amico Max Brod, Kafka conosce Felice Bauer, un’ebrea di Berlino, con cui inizia un’intensa relazione epistolare a distanza, costellata da qualche fugace rendez-vous. La sera stessa dell’incontro matura già nei suoi confronti «un giudizio incrollabile». In altre parole, Felice è la prescelta, colei che dovrà aiutarlo attraverso il matrimonio a varcare la porta della Legge, liberandolo della duplice colpa d’essere scrittore e per giunta scapolo. Lo «sforzo sovraumano» di volersi sposare – che lo estenuerà tra fidanzamenti e rotture per ben cinque anni, minando ulteriormente la sua incerta salute – cozza subito con l’esigenza suprema dell’opera, che richiede una dedizione totale ed esclusiva. Se il lavoro d’ufficio lo affligge oltremisura, costringendolo a scrivere di notte, figurarsi la convivenza forzata a due. Si aggiunga a ciò, la totale incomprensione di Felice nei confronti della sua attività letteraria.

Una volta mi hai scritto che vorresti starmi vicino mentre scrivo, pensa però che non potrei scrivere… Scrivere significa aprirsi fino all’eccesso… Perciò quando si scrive non si può mai essere abbastanza soli, quando si scrive non si può mai avere abbastanza silenzio intorno, la notte è ancora troppo poco notte. Perciò non si può mai avere a disposizione abbastanza tempo perché le vie sono lunghe ed è facile deviare…

Dopo averla faticosamente rimuginata per un’intera settimana, il 16 giugno 1913 Kafka invia a Felice la più insolita e stravagante proposta di matrimonio mai avanzata. Vi enumera tutta una serie d’ostacoli e difficoltà che, da parte sua, renderebbero impossibile la loro vita in comune, chiedendole di pronunciarsi in proposito su ognuna di esse.

Innanzitutto le preannuncia una sicura infelicità, a causa del suo carattere egoista, freddo, «chiuso, taciturno, poco socievole, malcontento». Il rapporto d’estraneità che intrattiene con i membri della propria famiglia, aggiunge, è una sicura garanzia circa l’incapacità di fondarne una in futuro. Armato di uno scetticismo implacabile, Kafka si difende strenuamente, mettendo a fuoco con straordinaria lucidità «tutto ciò che è pro e contro il mio matrimonio». Dall’unione con Felice, spera di ricevere una «forza di resistenza» che dovrebbe aiutarlo a sopportare le vicissitudini della vita, le ingiurie del tempo, cui non riesce a far fronte da solo, per via d’una complessione debole e d’una chiaroveggenza che lo frena a ogni passo.

Passando all’altro corno della scelta, le ragioni del no appaiono molto più persuasive. In primis c’è l’aspetto umoristico del matrimonio borghese, le invettive di Grillparzer, le derisioni di Flaubert. Come non bastasse, si aggiunga l’esempio negativo dei propri genitori, che gli suscita una repulsione quasi fisica: «la vista del letto matrimoniale a casa mia, delle lenzuola usate, delle camicie da notte piegate accuratamente, mi può sconvolgere fino al vomito…». E poi, tutto il corollario degradante della vita di relazione: le conversazioni insipide, le visite ai parenti, la scelta della casa e dei mobili… Insomma, ce n’è di che tediarsi per l’eternità.

L’argomento decisivo, tuttavia, Kafka lo riserva alla fine, lanciando uno dei suoi folgoranti paradossi. Il luogo comune è solito classificare la solitudine tra i motivi pro il matrimonio; lui ribalta il sillogismo e fa dell’impossibilità della solitudine un insormontabile argomento contro: «La paura dell’unione, del passare di là. Allora non sarò mai più solo….»

L’aut-aut è inesorabile: matrimonio e convivenza da un lato, scrittura e solitudine dall’altro. Il corrosivo dubbio kafkiano ha già deciso per lui. Del resto, soppesare i pro e i contro del matrimonio significa togliere l’ultimo velo d’illusione che ne rende possibile la realizzazione, sabotare il talamo. Il disincanto è incompatibile con l’altare.

Contro ogni catastrofica previsione, Felice accetta la proposta di fidanzamento. Disarmato, nonostante il dispiegamento d’argomentazioni profuse, a Kafka non rimane che battere in ritirata. Felice non demorde e invia a Praga un suo emissario, l’amica Grete Bloch, nel tentativo di riallacciare il rapporto. Kafka inizia con Grete un’intrigante liaison epistolare, non priva di ambiguità e complicità, che comunque gli darà la spinta per chiedere di nuovo la mano a Felice. Stavolta il tentativo arriva in porto. Il primo giugno del 1914 a Berlino, in casa della famiglia Bauer, si svolge la cerimonia del fidanzamento ufficiale. Le angosce, i dilemmi morali che lo avevano tormentato per un intero anno, divennero orrore reale, come nel più agghiacciante dei suoi racconti.

6 giugno. Ritornato da Berlino. Venni legato come un delinquente. Se con catene vere mi avessero messo in un angolo con davanti i gendarmi e mi avessero lasciato guardare soltanto così, non sarebbe stato peggio. E questo fu il mio fidanzamento. E tutti si sforzavano di farmi vivere e, non riuscendo, di sopportarmi com’ero.

Kafka si sente soffocare, la prossimità del matrimonio lo atterrisce. Confessa le sue paure a Grete Bloch – anche lei del resto presente alla cerimonia – la quale, lettere alla mano, riferisce tutto a Felice. L’istruttoria può dirsi conclusa. Appena sei settimane dopo il fidanzamento, Kafka e famiglia vengono convocati d’urgenza a Berlino.

“L’udienza” è fissata per il 12 luglio 1914, all’Askanischer Hof, il famoso «tribunale nell’albergo», come lo descriverà nei Diari. In un’atmosfera sconvenientemente pubblica – oltre alle rispettive famiglie sono presenti, come testimoni di parte, Grete Bloch e Ernst Weiss – la requisitoria di Felice è inflessibile, addirittura ostile. Kafka non ribatte alle accuse, rinuncia alla difesa, subisce la condanna chiudendosi in un ostinato, caparbio silenzio. Come interpretare tale chiusura? È una forma di resistenza passiva di fronte a un potere ingiusto che lo sovrasta e lo schiaccia, oppure è l’accettazione di una fine che, dopotutto, aveva cercato e persino provocato? Si sentiva forse accusatore e condannato al contempo? I giudici erano fantasmi, solo apparenza, il tribunale che lo accusava in realtà era quello interiore, la colpa di tutto era solo sua. Mentre sale al patibolo, «diabolico in tutta innocenza», di fronte ai genitori recita la lezione: «Non serbate un cattivo ricordo di me». Neppure l’umiliazione dell’esecuzione pubblica gli verrà risparmiata: «come un cane», scriverà nel Processo. Nella bilancia esistenziale kafkiana, la condanna etica inflitta sul piano esteriore dal tribunale umano, si traduce in una vittoria nel «mondo immenso» che portava dentro. Il demone della scrittura ottiene nuova linfa, si rianima… è salvo!

L’intera vicenda, a cominciare dal fidanzamento considerato alla stregua d’un arresto, fino alla successiva rottura, vissuta come una condanna in tribunale, fornisce a Kafka l’ispirazione per comporre Il processo, la cui stesura inizia nell’agosto del 1914 e si protrarrà, più o meno ininterrottamente, per i successivi cinque mesi. Vivendo da solo, nella casa messa a disposizione dalla sorella maggiore, senza vedere nessuno, Kafka, a dispetto della rottura, si trova in una condizione ideale e trascorre uno dei periodi più fecondi della sua attività di scrittore.

Nel gennaio 1915 vede di nuovo Felice a Bodenbach. L’incontro si rivelerà per certi versi decisivo. Il resoconto è impietoso. La lucidità con cui era solito esaminare sé stesso, si rivolge ora, inesorabile, all’immagine di lei, demolendo l’intero suo mondo. L’estraneità di Felice, l’ideale di famiglia borghese da lei caldeggiata, gli appaiono finalmente in tutto il loro orrore, addirittura nocive per il suo lavoro. Matura l’amara consapevolezza che il suo destino è di rimanere solo, gli orologi delle loro vite non potranno mai sincronizzarsi.

24 gennaio. Con F. a Bodenbach. Ritengo impossibile che un giorno ci si unisca, ma non oso dirlo né a lei né nel momento decisivo a me stesso […] Ognuno dice fra sé che l’altro è inflessibile e spietato. Io non rinuncio alla mia esigenza di vivere in modo fantastico soltanto per il mio lavoro, lei, sorda a tutte le mute preghiere, vuole la mediocrità, la casa comoda, l’interessamento alla fabbrica, il vitto abbondante, il sonno alle undici di sera in poi, la camera riscaldata, e punta il mio orologio che da un trimestre anticipa di un’ora e mezzo sul minuto giusto.

Eppure, anche stavolta, Kafka ritornerà incredibilmente sui propri passi. Nel luglio 1916 trascorre le vacanze con Felice a Marienbad: furono giorni «belli e leggeri». L’incanto del luogo gli fa credere al miracolo d’una vita in comune. Raggiungono un accordo: terminata la guerra progettano di sistemarsi in un piccolo appartamento nei sobborghi di Berlino. Lui pensa addirittura di abbandonare il lavoro, sogna la pace, la possibilità di una vita…

Le lettere si diradano, tra alti e bassi il rapporto si trascina per un altro anno. Nel luglio del 1917 ha luogo il secondo fidanzamento ufficiale, con le visite di rito a parenti e amici. Ma l’idillio è di breve durata. Nella seconda metà del mese, durante una visita alla sorella di Felice in Ungheria, deflagra l’ennesima crisi. Kafka lascia Felice a Budapest e torna da solo a Praga, passando per Vienna. Le scrive due lettere, «sorprendenti ma mostruose», andate perdute.

Nella notte tra il 9 e il 10 agosto 1917 Kafka è colto da emottisi polmonare. La diagnosi è infausta: tubercolosi all’apice di ambedue i polmoni. La sventura della malattia polmonare non lo sorprende, è solo un simbolo, «lo straripare della malattia mentale… la cui infiammazione si chiama Felice». La sua fervida fantasia, immagina un complotto fisiologico tra il cervello e i polmoni, i quali, esasperati dallo sfibrante fidanzamento e tramando alle sue spalle, hanno deciso per lui. Pur scorgendovi il fallimento come uomo, considera quella disfatta esistenziale una liberazione, l’agognato riposo del vinto. Di fronte al mondo, finalmente, Kafka può svincolarsi dalla morsa del matrimonio, congedarsi dal lavoro, allontanarsi dalla famiglia.

In dicembre scioglie definitivamente il fidanzamento con Felice Bauer. La tensione accumulata negli ultimi cinque anni lo gettano nello sconforto, al punto da scoppiare in lacrime nell’ufficio dell’amico Max Brod. «Ognuno ama l’altro come quest’altro è» – aveva osservato un giorno riguardo al rapporto con Felice – «ma così com’è crede di non poter vivere con lui».

Malgrado il decorso della malattia, lo scacco subito, pur sentendo scorrere inesorabilmente la sua vita verso la solitudine «come l’acqua al mare», Kafka non si rassegna alla condizione di scapolo. Nel 1919 si fidanza con Julie Whoryzek, ma i genitori, ancora una volta, gli tarpano le ali. Emulando la figura paterna protagonista della Condanna, Hermann Kafka disprezza le umili condizioni della futura sposa, mortifica ferocemente il figlio per aver perso la testa dietro una camicetta slacciata, suggerendogli di recarsi al bordello piuttosto che sposare «la prima venuta». La madre in silenzio concorda col marito. Kafka, ferito nell’intimo, scrive una lettera al padre, che non consegnerà mai, in cui analizza la propria condizione di figlio infelice, cresciuto all’ombra minacciosa del genitore. Comprende quanto l’educazione autoritaria e castrante del padre sia stata decisiva nella formazione del suo carattere, debole e vacillante al pari della sua costituzione fisica. Il matrimonio sarebbe stata certamente un’occasione d’indipendenza, d’autonomia e d’integrazione sociale. Ma era anche il terreno etico nel quale il padre eccelleva, in cui si era socialmente realizzato, poiché in possesso di tutte quelle caratteristiche necessarie per mantenere e guidare una famiglia: «forza e disprezzo degli altri, salute e una certa smodatezza, loquacità e insufficienza, autostima e insoddisfazione del prossimo, senso di superiorità e tirannia, conoscenza degli uomini e sfiducia nei più, laboriosità, resistenza, presenza di spirito, animo intrepido…» Qualità di cui il figlio era naturalmente sprovvisto, o quasi.

Kafka patisce la sudditanza psicologica che, introiettata, provocherà in lui un macerante senso di colpa, un misto di venerazione e repulsione verso quel gigante che lo sovrasta e sistematicamente demolisce in lui ogni tentativo d’emancipazione e di crescita.

Talvolta immagino di poter aprire davanti a me la carta terrestre e di stendertici sopra. Mi pare allora che per la mia vita si possano prendere in considerazione solo quei territori che né copri col tuo corpo né sono comunque alla tua portata. E data l’idea che mi son fatto della tua grandezza, questi territori non sono molti né molto confortanti, e il matrimonio in particolare non ne fa parte.

Lo spazio della scrittura, in questo senso, diventa l’unico territorio, al di fuori dell’imperialismo paterno, in cui Kafka trova rifugio, un tentativo disperato per affrancarsi da un potere totalitario che soffoca la sua fragile libertà.

*

Il profumo di Canaan

Naufragato miseramente il secondo tentativo di fidanzamento, Kafka si rifugia in un’altra relazione epistolare, intima, con la giovane scrittrice boema Milena Jesenskà-Pollak, traduttrice dei suoi primi racconti. Siamo nel 1920, lei è «una fanciulla», fresca, bella, coraggiosa, «un fuoco vivo» come non ne ha mai incontrati, con un lampo negli occhi che «abbatte il dolore del mondo». Lui, alto, scarno, coi capelli imbiancati dalle notti insonni. Dal profondo della sua angoscia non osa neanche porgerle la mano, quella mano «sudicia, convulsa, unghiuta, incerta e tremula, cocente e fredda». Nell’ottobre del 1921 affida a Milena i suoi Diari, consegnandole, di fatto, le chiavi della sua anima. Kafka vede in lei la donna che può salvarlo, in grado di comprendere come nessun’altra le sue paure, aiutandolo a sopportare l’orrore di vivere. «Tu mi appartieni, anche se non dovessi vederti mai più», le scrive disperato il 12 giugno 1920. Sentirla al suo fianco «vorrebbe dire essere sostenuto da ogni parte, avere Dio», come aveva scritto nei Diari qualche anno prima.

Benché infelicemente sposata con Ernst Pollak, uomo colto e intelligente, Milena, a fronte dei continui tradimenti del marito, ne subisce troppo il fascino per abbandonarlo. Dopo i primi ardenti, appassionati incontri con Kafka, le visite si fanno fiacche, «un po’ forzate, come le visite agli ammalati». Consapevole dell’indissolubilità del matrimonio convenzionale di Milena, Kafka s’impone di non rivederla più, e prega Max Brod d’intercedere affinché lei non torni a trovarlo a Praga. Anche l’amore per Milena, paragonato da Kafka a un coltello con il quale fruga dentro sé stesso, si affievolisce a poco a poco; l’immagine dell’amata sbiadisce, fino a scomparire nella nebbia del malinteso universale. Tutta colpa di quelle lettere maledette, a cui affidiamo così facilmente il nostro destino, mentre in realtà alimentano solo illusioni e incomprensioni. «Questo incrociarsi di lettere deve cessare, Milena, ci fanno impazzire, non si ricorda che cosa si è scritto, a che cosa si riceve risposta e, comunque sia, si trema sempre».

La disillusione lo fa sprofondare nella rassegnazione. Il mondo stesso perde consistenza, appare impalpabile, evanescente come un sogno: «la famiglia, l’ufficio, gli amici, la strada, tutto fantasia, lontana o vicina, la donna». Si sente completamente isolato, ripudiato, tumulato nella sua solitudine: «La verità più prossima è che tu premi la testa contro il muro d’una cella senza finestre e senza porte». Matura amare riflessioni sulla sua condizione, la distanza che lo separa dagli altri gli appare incolmabile. Ritornano gli spettri bestiali della Metamorfosi…

Che cosa ti lega a questi corpi delimitati, parlanti, lampeggianti dagli occhi, più strettamente che a qualunque altra cosa, diciamo, al portapenne che hai in mano? Forse il fatto che sei della loro specie? Ma non sei della loro specie, perché appunto hai formulato questa domanda. La solida delimitazione dei corpi umani è spaventosa.

Arriva a invidiare «tutte le coppie». La felicità coniugale, «nella sua infinita molteplicità», diventa una terra ad un tempo inaccessibile e insopportabile. Escluso da questo mondo, sente di non poter appartenere a nessun altro.

Pur vivendo da quarant’anni nel deserto, «senza antenati, senza nozze, senza discendenti», è ancora attratto dal profumo di Canaan – la terra biblica della promessa, in cui la Legge esteriore si concilia con quella interiore – «con una voglia selvaggia di antenati, di nozze e di discendenti». Come per Mosè la possibilità di vedere Canaan prima di morire «è inverosimile», così K., l’agrimensore, lo straniero senza radici, si aggira errabondo attorno al Castello senza riuscire a penetrarvi, né tantomeno a soggiornarvi. Non è la brevità della vita a impedirglielo, ma il fatto di essere una vita umana, e quindi imperfetta, incompiuta nella sua essenza.

Proprio quando aveva perso ogni speranza di approdare a quella terra inesplorata che albergava, in forma di desiderio, nel profondo del suo cuore, Kafka torna a sentirne l’incantevole profumo nel luglio 1923, durante una vacanza a Müritz sul Baltico, in compagnia della sorella Elli e dei nipoti. Qui, nella colonia estiva della Casa popolare ebraica di Berlino, incontra Dora Dymant, che lavora in cucina sventrando pesci. Abituato a riconoscere la bellezza anche quando è nascosta sotto le più umili sembianze, Kafka la sorprende così: «Che lavoro sanguinoso per mani così delicate!» Dora è una giovane ebrea polacca, discendente da una famiglia chassidica. Lo studio dell’ebraico, praticato da entrambi, fa scattare subito l’intesa. Sognano la Palestina, dove progettano di aprire un ristorante: lei tra i fornelli, lui come cameriere. Ma è solo una fantasia, tipica d’un incurabile «convinto di non lasciare mai il letto». Assai più realistica è l’eventualità di vivere assieme a Berlino, una sua vecchia idea risalente ai tempi del fidanzamento con Felice.

L’irresistibile profumo di Canaan infonde a Kafka una vitalità insperata. «Con l’ultimo resto di energia ancora disponibile», anzi, pressoché «pronto per la sepoltura», nel settembre del 1923 parte per Berlino. Svincolato dalla famiglia, affrancato dal lavoro, Kafka si sente finalmente felice, libero di scegliere la propria vita, lontano dai fantasmi della solitudine. Il rigido inverno berlinese, la crisi economica, l’inflazione che piega la Germania, accelerano il decorso della malattia. Le derrate e il denaro scarseggiano, Kafka riceve aiuti alimentari dalla famiglia.

Nel marzo 1924 le condizioni di salute si aggravano ulteriormente. Kafka è trasportato d’urgenza a Praga, in casa dei genitori. Per fornirgli cure più adeguate viene trasferito in Austria, prima al sanatorio Wienerwald, poi in una clinica viennese, infine al sanatorio di Kierling, assistito amorevolmente da Dora e dall’amico Robert Klopstcok, un giovane studioso di medicina. A dispetto del deperimento fisico – la tubercolosi ormai gli blocca la laringe – Kafka si aggrappa ancora alla vita: ironizza, corregge le bozze dei suoi racconti, si riconcilia con i genitori e… fa progetti di nozze. Scrive al padre di Dora, un ebreo praticante, chiedendo la mano di sua figlia. Per tutta risposta ottiene un secco rifiuto. Viene meno anche l’ultima speranza: per lui la porta della Legge rimane sbarrata, stavolta definitivamente.

All’amico Max Brod un giorno aveva confidato che sul letto di morte sarebbe stato contento, purché gli fossero risparmiate inutili sofferenze. Non è la morte ad atterrirlo – «una fine apparente» dopotutto ma la tortura del dolore sulla carne ancora viva, e questo «è un brutto segno». Al medico che sul letto di morte gli rifiuta la morfina, lancia il più straziante dei suoi paradossi: «Mi uccida altrimenti è un assassino!»

La sua presenza al mondo si è andata sempre più affievolendo, arriva a pesare appena 49 chili. Come lo scapolo infelice di un suo racconto, «morto già di mille morti», trascina con umilmente il suo esile corpo, accontentandosi d’uno spazio vitale sempre più esiguo. Quando muore, «la bara è giusto ciò che gli conviene»

Sono stato mandato fuori come la colomba biblica, non ha trovato niente di verde, rientro di nuovo nell’Arca buia.

Massimo Carloni

Gruppo MAGOG