22 Settembre 2020

Franco Battiato, il “free jazz punk inglese” (che viene da Bristol), “i fuochi delle guardie rosse” e la buona morte

Ho letto che Franco Battiato si è ritirato. Mi dispiace. Non riuscirò più a intervistarlo come si deve. Ho avuto diversi incontri con lui. Me ne sono andato, sempre, con un senso di impotenza. Franco partiva dal presupposto, un’illusione, che parlando ciascuno la propria lingua, io lo spagnolo lui l’italiano, potessimo capirci. Ha rinunciato al traduttore. Con candida scaltrezza è ricorso al trucco più antico di tutti: “Chiedimi ciò che vuoi, risponderò ciò che voglio”. In una occasione c’era anche sua madre; la signora si indignò: “Rispondi a questo signore, Franco!”.

Non capivo se mi capisse. Mi interessava sapere se avesse messo apposta alcuni errori nelle sue canzoni. Ad esempio, in Prospettiva Nevski parla delle “guardie rosse” nella Pietroburgo bolscevica dell’inverno del 1917. Difficile ricordare i film di Ejzenštejn, che a quell’epoca non aveva ancora iniziato le riprese. D’altronde, né Nijinsky né Stravinsky erano in Russia in quegli anni. Queste scelte sono dovute, forse, a ragioni legate al ritmo, o al vezzo di Battiato di far cadere briciole di cultura, casuali, alzando il tono del testo. Un altro aspetto risiede nel cinismo con cui ha affrontato il mondo moderno. Nel celebre Centro di gravità permanente del 1981, dichiara la sua antipatia per le tendenze emergenti: “Non sopporto i cori russi/ La musica finto rock la new wave italiana il free jazz punk inglese/ Neanche la nera africana”. Per anni mi sono chiesto a cosa alludesse Battiato quando parla di “free jazz punk inglese”; lui stesso mi ha detto di non ricordarlo. Che diavolo è il “free jazz punk inglese”?, gli domandai. “Non ricordo… però suona bene”, mi disse, serafico. Nel corso del tempo, ho individuato due gruppi, fugaci, che potrebbero identificarsi con quella sigla: Rip Rig & Panic e Pigbag. In altre parole, con tutte le precauzioni: nel mondo del pop s’intrufolava un sax viscerale per mutarlo in “free jazz”, anche se in realtà il sassofonista suono più come King Curtis che come Ornette Coleman.

Battiato ha sbagliato nel suo giudizio? Diciamo che non è stato generoso. Pigbag ci ha lasciato almeno un pezzo travolgente, Papà’s Got A Brand New Pigbag. E Rip Rig & Panic sono stati il primo anello di una catena che ha portato alle sonorità tipiche degli anni Novanta, al trip-hop. Rip Rig & Panic, nome tratto da un disco del jazzista Roland Kirk, è un gruppo di Bristol. Oggi è ricordato, più che altro, per aver promosso la voce di Neneh Cherry. Hanno anche suonato con suo padre, il grande Don Cherry (lui sì, vero protagonista del primo free jazz). Il gruppo ebbe vita breve, ma anticipò diversi modi della musica di Bristol: progetti multirazziali, stilisticamente fluidi, fuori dalle linee guida dell’industria discografica londinese. Penso ai Massive Attack, Smith & Mighty, Portishead. La chiamarono trip-hop, ma sarebbe più appropriato dirla dub-hop, per le influenze giamaicane e gli inserti rap.

Anche Bansky, artista planetario spesso confuso con Robert Del Naja dei Massive Attack, viene da Bristol. Tempo fa, il gruppo si è rifiutato di esibirsi al Colston Hall, la sala concerti più importante della città, che onora la memoria di Edward Colston, uomo d’affari che ha reso possibile la Bristol moderna. Colston fece fortuna grazie a un commercio triangolare: navi che trasportavano merci inglesi in Africa, dove si caricavano schiavi per l’America, che poi tornavano a Bristol con cotone, tabacco, zucchero e altre materie prime. Ora non vincerebbe un concorso di popolarità: la sua statua è stata gettata in mare e il Colston Hall cambierà nome.

Quando ho incontrato Battiato nel 2013, aveva appena pubblicato Apriti sesamo, gli ho detto che era un uomo fortunato, che poteva permettersi tutto. “Ho un angelo che si prende cura di me. Quando morì mio padre, avevo un esame. Ero riuscito a studiare soltanto Spinoza, per filosofia, e Virgilio, in latino. Sa cosa mi domandarono?”. Indovinai. Gli chiesi cosa gli mancasse da realizzare, ancora. “L’unica cosa che mi manca è un buon passaggio. Una buona morte”.

Diego A. Manrique

*L’articolo è uscito in origine su “El País”; l’intervista a Battiato si legge qui

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