17 Maggio 2020

“Una mescita di sangue, un’eucaristia rapace”. Sulla poesia di Franco Acquaviva

Verrebbe da pensare a Pasolini, a D’Elia, quando si leggono i versi di Franco Acquaviva. Una poesia, la sua, legata al dovere di essere uomo a tutto tondo e, soprattutto, civis, cittadino in divenire e progetto in sé, nel tempo e per il tempo. Strategia della sparizione, uscito per i tipi di Ladolfi Editore, rappresenta un dramma etico, quello di una dimensione umana che tende all’empatia, ma scivola inesorabilmente distante, fino a trasformarsi nella sua nemesi, l’indifferenza consapevole. I personaggi che agiscono nel libro sono figure, individui senza nome, accomunati dalla metafora di un muro che divide e separa le monadi di un’esistenza giustificabile solo in un sistema chiuso, da cui è impossibile uscire se non attraverso una crepa, una speranza capace di vincere il solipsismo:

Noi siamo oltre, sai? nella frescura
di casa nuova che la stanza emana

Acquaviva comprime la tensione del verso in una sorta di scena teatrale i cui soggetti recitano monologhi, cercano l’interazione tra quadri esistenziali e ambienti; lo fanno naturalmente, quasi condividessero un codice comune per esprimere il male, la frammentazione; ne deriva, alla lettura, l’idea di un messaggio che tende all’universalità e ci appartiene, pur nella sua incompiutezza. È l’epica del quotidiano che emerge sin dalla prima sezione del libro Segnali di pericolo, in cui il male – meglio la latenza del bene – si radica nelle situazioni minime: nei versi, talvolta narrativi, in alcuni passi, invece, nervosi e franti, si respira una luce purgatoriale, opaca. Aleggia l’ombra di Ivano Ferrari in alcune pagine, nel dramma della carne sacrificale, del macello:

Allevamenti di maiali o polli
sansebastiani da crocifiggere
nelle friggitorie mondiali a colpi
di stuzzicadenti e infrangere così
riposi mandibolari di breve
durata –
si sa che ogni giorno occorre
ben dissanguata carne e ben frollata
da dare in pasto ai bambini, ma il sangue
non si deve vedere, come dare
bastonate a un cane tu che sempre hai
visto bastonare cani

Altrove, invece, il soggetto è l’uomo franto, che perde se stesso nella sua identità per acquisire il senso di un dramma corale, minimo nelle situazioni, universale nella portata:

è un sorriso la terra e non intendi
se non per brevi boccate pungenti
se il suo schiudersi sia mostra di denti
contro denti nello scontro a stridere
oppure amabile segno di una più
vasta e vera comprensione che tu mai
potrai afferrare se non ogni cosa
abbandonando

L’idea di un’umanità labile, instabile se non nelle piccole certezze e radicata in esse, acquista forza sempre più convincente a partire dalla seconda sezione del libro, Pedagogia in battere e levare, in cui la poesia si svolge come se appartenesse a un affresco, e si recitasse in un atto teatrale in continuo divenire; qui la dimensione urbana, l’esistenza minima, la sua luce latente legata al trascorrere delle stagioni o agli oggetti, appare strozzata, senza sbocco, quasi un senso di sconfitta imminente animasse le pagine, le reificasse in sintagmi che non comunicano.  Spesso sono le domande inevase, il loro senso che sfugge, come sfugge Dio o la natura delle foglie, delle radici stesse, ad avere la meglio: la ricerca poetica di Acquaviva non dà certezze, né le ammette. Essa scava profondamente dentro l’Io, lo mette a nudo, incrinando la separazione tra essere e non essere, tra vita e morte: morire ogni giorno un poco / è privilegio dei vivi / tu non muori ma ripeti / lo farò quanto prima / e intanto vivi senza morire.

Sta nella trasposizione dello scacco esistenziale nel quadro di una realtà comune sentita come minacciosa, mai data per sempre, la grandezza del poeta e del libro, quasi una crepa o una qualsiasi incrinatura alimentasse l’idea di mancanza, di precipizio. È la terza parte del libro, Verso la luce, a chiudere il cerchio: tutto si muove in Acquaviva, non c’è stasi, sicurezza di un luogo comune. L’uomo è il suo vagare incessante, la sua è ricerca di senso, di meta:

per questo noi forse sempre muoviamo
sul fare del giorno per miraggi di
luce per ancora ciechi ritorni.
Ivan Fedeli

***

C’è una gioia sul finire del giorno
che ti piega su pozzanghere a bere
sul fondo dove va morendo il cielo;
il temporale s’annuncia con biacche
nere riflesse e tu in attitudine
prona fai della terra specchio e bevi
per te stesso vie di pioggia e d’argento.

Ma sopraggiunge un vento d’emicrania
ribattuto a colpi lenti
tra teschio e tramonto

*

MURI

1.

Basta solo stare davanti al muro
e il mondo si riempie di colori:
certo, siamo stati bene qui da voi,
ma premuto il corpo contro il sollievo
ruvido della fronte al cemento
si respira meglio, ecco l’umido –
terra che s’innalza per piani al cielo.

2.

I muri dei matti ci fanno star male
e i muri dei pianti, ma quando il sole
uno ne imbeve torrido non si può
rifiutare, mare di scaglie che la
luce ha scelto di mandare proprio a te
senza fiatare nell’ombra confitto.

3.

I muri della mente dimentica
quando quella rugiada rilasciano
di cemento lungo vie lacrimali
incise da un abuso di memoria.

Noi siamo oltre, sai? nella frescura
di casa nuova che la stanza esala:
siamo nel velo di lacrima che un più
di sollievo dà all’occhio infiammato.

4.

I muri spessi un metro
tra una porta e l’altra,
loculi per il passaggio
di anime. Seppelliti in piedi
chissà quanti tra le pietre
nelle intercapedini
che respirano tra due stanze.

Se provare la tomba
è un gioco proverbiale
i bambini lo facciano qui
a Natale o Capodanno,
tra una porta e l’altra
nel buio.

5.

Sui muri la divisa della luce
s’increspa nella malta abbacinante:
vi si vedono soldati che vanno
al luogo del supplizio, la maga li ha
scelti; torna tra i venti della sera
il bianco brivido, una trama di franti
volti: della Storia i morti ologrammi.

*

ANIMALI

Polvere di Pasqua povere uova
d’incenso ora poggiate sull’altare
del pranzo, l’hic et nunc della vostra
comunione è lo scarto –
scartamento
che segue il momento in cui, torpido
sacramento, ogni arto giace nel sonno
dopo il parto del pasto;

di spolpati agnelli in tempo di pace
è stata oggi una mescita di sangue,
un’eucaristia rapace.

*

RICERCA DEL SILENZIO

Un volo verso l’interno
testa che dialoga con sterno
mento che punta non mente
cuore che pulsa puntato
bersaglio dio freccia
un luogo che tende all’eterno:
la foglia seccata dal vento
sapore di sangue alle labbra
salpare per dove l’interno
sfugge del tempo l’inferno.

Franco Acquaviva

*In copertina: particolare da un quadro di Alexandre-François Desportes (1661-1743)

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