17 Giugno 2020

L’uomo vuole conoscere il male. In difesa di Franca Leosini, politicamente scorretta con stile, il narratore onnisciente ottocentesco che ci eravamo dimenticati

“Se dici qualcosa che non offende nessunonon hai detto niente”, affermava Oscar Wilde. E anche Franca Leosini, storica conduttrice di Storie maledette, stimata al punto di poter vantare una schiera di fan eponimi, I Leosiners, negli ultimi tempi non è immune da critiche.

Le accuse più frequenti? Per Aldo Grasso sul Corriere, il caso criminoso risulta sovrastato dall’eloquio dell’intervistatrice, pure un po’ morbosa nelle faccende di sesso. Già tempo fa Gianluca Neri su RollingStone le attribuì scarsa empatia e strumentalizzazione del dolore. Più voci l’hanno accusata di non essere femminista nel modo oggi ritenuto giusto: Eretica di Abbatto i muri, Lady V su Linkiesta, ma anche, più di recente, Simonetta Sciandivasci su Il Foglio. Tutte affermazioni invero corrette. Non resterebbe che da aggiungere l’ormai abusato “ma ha anche dei difetti”.

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Storie maledette, una delle prime trasmissioni di cronaca nera, nata nel 1994, è un format a basso costo, sobrio, elegante, oggettivo, in cui Franca Leosini intervista i protagonisti delle inchieste giudiziarie all’interno del carcere, solo dopo che si sono conclusi i tre gradi di giudizio e al termine di un meticoloso studio delle carte processuali. La giornalista non azzarda ipotesi, non si improvvisa detective, non costruisce plastici, non chiede a parenti disperati cosa provano a cadavere caldo, non arruola improbabili vicini di casa in cerca di notorietà. Eppure per alcuni questo non basta a risparmiarle l’etichetta di sciacalla. Forse perché, oggi più che mai, una compagine di militanti della morale vorrebbe abbattere statue, censurare libri e film, cambiare nome persino a cibi e bevande, con lo scopo di rimuovere – cosa ben diversa dallo sconfiggere – il male dal mondo? Risponderei loro proprio con uno dei più celebri motti leosiniani: “L’ha rimosso? Allora glielo ricordo io”.

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L’essere umano vuol conoscere il male, e domandarsi quanto di quel male ha anche dentro sé. Vuole spiare la morte dall’alto e di sbieco, prima di trovarsela davanti, e per questo la cronaca nera richiama da sempre grande pubblico: non a caso era censurata ai tempi del fascismo, quando bisognava credere che andasse sempre tutto bene. Ma che cos’ha la Leosini più degli altri? Proprio quel che Aldo Grasso le imputa come difetto: è una grande narratrice. Franca Leosini è il narratore onnisciente ottocentesco che abbiamo lasciato sui banchi di scuola, ormai sconsigliato da quasi tutte le scuole di scrittura ma da lei riportato a nuova vita, con tanto di linguaggio barocco e desueto, ma reso attuale dall’ironia. E cos’è il celebre faldone ad anelli scritto a mano, sempre presente tra le sue mani, se non l’evoluzione del manzoniano “scartafaccio” ritrovato? Da bravo narratore onnisciente, Franca parte da un’impostazione oggettiva, o come dicono quelli bravi, eterodiegetica, ma nel corso della narrazione non può fare a meno di rendersi palese e di affondare nell’animo dell’intervistato con la propria, inconfondibile voce.

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Nel corso del dialogo la Leosini entra in comunicazione con l’intervistato, lo rassicura, lo ascolta, lo analizza, scava nel suo animo, se necessario si dissocia o si contrappone, sempre con educazione e misura. Poi, all’improvviso, gli affondi, quelli ironici e dissacranti, in cui la Leosini riunisce gli opposti, mescola alto e basso, tragedia e commedia, aulico e triviale, moderno e antico, e il “ditino birichino” di Rudy Guede, la “storiella scopereccia” di Francesco Rocca, la “sentimentalmente genuflessa” Sabrina Misseri vanno a costituire tutto l’aforismario che l’ha resa celebre.

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Da qui, l’accusa di scarsa empatia. Ci sono vittime, parenti di vittime, condannati all’ergastolo, come si permette la Leosini di anteporre a tutto questo il compiacimento della narrazione, di far appassionare e a tratti pure sorridere lo spettatore? E si vede dallo sguardo che si diverte! Alla fine, quel che non le si perdona, è risparmiarci – al contrario di molti suoi empatici colleghi – occhi umettati di lacrime e voce incrinata da trattenuta commozione, come forse direbbe lei stessa. E meno male! In un mondo che vende ormai empatia al chilo, come tranci di pesce al mercato – come se soffrire per un dolore altrui non fosse un fatto raro e rivoluzionario – e che pretende pure di insegnarti come e quanto devi piangere e per chi devi piangere prima, se per gli italiani, gli stranieri o gli elefanti – ben venga chi si limita a raccontare con abilità e passione una storia. Così, assodato che nemmeno la Leosini sta realmente soffrendo, anche lo spettatore può finalmente salire sulle montagne russe emotive del programma senza sensi di colpa e abbandonarsi a un puro godimento catartico.

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Perché Storie maledette è forse uno dei pochi esempi di bell’eloquio, narrativa e teatralità in televisione, e non solo in una tradizione classica, perché se ora infastidisce qualcuno, forse vuol proprio dire che non è privo di elementi innovativi. Anzi, è come se il politicamente corretto avesse fatto il giro, tanto da rendere il linguaggio d’altri tempi della Leosini il più adatto per dire l’indicibile. E non con la rozzezza di certo politicamente scorretto, che pure inizia a stancare, tipico di Feltri e dei suoi epigoni, bensì con grazia sottile. Non a caso, i condannati non mostrano mai fastidio per le parole della Leosini, anzi. Non solo hanno tutti accettato l’intervista – per espiare, per gridare la propria innocenza, per narcisismo, per bisogno di esprimersi, questo non ci è dato sapere e non importa – ma tutti o quasi dialogano piacevolmente e di buon grado. Non si accorgono di certi motteggi? Forse abitano abissi ben più profondi, in cui una battuta è prezzo più che equo da pagare, per un momento di normalità.

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E qui veniamo alle accuse di sessismo, o almeno di inadeguatezza all’attuale femminismo. È innegabile che il linguaggio new-retrò della Leosini si addentri anche nella descrizione dei rapporti di genere. Franca ci parla di “mariti farabutti e fedifraghi” e di “angeliche spose”, di “gentiluomini” e di “femme fatale”, di donne con “il radar per trovare uomini nullafacenti”, ma parla anche di transessualità, affermando che “è una condizione e non una perversione”, rassicura Sonia Bracciale che “anche noi donne siamo legittimate a legarci a uomini più giovani”, dice a Sabrina Misseri che è una “babbalona” ma poi la invita con dolcezza materna a una maggiore autostima sul suo aspetto fisico, perché “nessuno ha mai detto di una ragazza che belle ossa”, dice a Cosima che “suo marito non dà l’idea di un acuto pensatore”, poi la loda per la sua “modernità insospettata”, parla di “minigonne sfacciate” ma poi disprezza le chiacchiere di paese “funeste come coliche”. In realtà chi non si limita a frasi estrapolate, ma guarda puntate intere e più puntate, troverà nel suo linguaggio, pur sopra le righe, un mondo complesso e per nulla manicheo. Eppure c’è chi, come Lorenzo Tosa, trasforma con un triplo salto carpiato la saggia frase della Leosini “nel fallimento di un matrimonio le responsabilità quasi sempre si hanno in due” nella del tutto personale interpretazione “se il marito la picchiava, qualcosa deve aver fatto”. Credo basti questo per capire a quali livelli di censura del linguaggio si vorrebbe arrivare.

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Non a caso la Leosini usa spesso, con arte, il luogo comune, per poi ribaltarlo più volte. È solita infatti trattare casi che avvengono in provincia, dove l’odierno linguaggio mediatico, disinfettato di Amuchina e asterischi, non è ancora arrivato, e dove più che altrove l’essere uomo o donna, bello o brutto, intelligente o stupido fa una certa differenza, nel bene e nel male, e può anche concorrere a determinare gli eventi. Il suo terreno narrativo preferito è il delitto della gente comune, persone che sembrano attraversate dal male quasi per caso e poi da quello stesso male abbandonate, come se fosse rimasto in loro giusto il tempo di quella singola azione orribile, in una vita altrimenti comune se non banale. Il crimine che matura dal basso, dalle pulsioni più intime, dalla gelosia, dalla passione, di cui la Leosini non ci nega i dettagli sessuali, cosa che le porta accuse di morbosità. E che bello invece – in una televisione spesso giovanilistica, specie per quanto riguarda la parte femminile – trovare una signora di oltre settant’anni che non ha paura di parlare di sesso, né s’impone di farlo in modo asettico, ma con la curiosità per il proibito e al tempo stesso la sfacciataggine di chi ha l’età per non doversi più censurare, se mai l’ha fatto. D’altra parte, come Franca stessa ama ricordarci, “la vita inizia e finisce a letto”, e spesso anche il delitto.

Viviana Viviani

Editing di Luisa Baron

Gruppo MAGOG