20 Febbraio 2021

Storia veridica di Pavel Florenskij che "chiusa l’Accademia dai Bolscevichi, rimase a Mosca a guadagnarsi la vita come ingegnere e elettrotecnico"

Se nel primo decennio del Novecento le attenzioni di Florenskij si rivolgono alla poesia e alla letteratura – emblematica in tal senso è la frequen­tazione dell’ambiente dei simbolisti e di Andrej Belyj in particolare –, negli anni Venti il professore nutre un più vivo interesse per le arti figurative e per il fenomeno arti­stico affrontato attraverso strumenti scientifici, filosofici e spirituali a un tempo. Così, se la questione filosofico-religiosa è centrale nelle lezioni all’Accademia teologica di Mosca (La concezione cristiana del mondo, Pendragon, Bologna 2011-2019), la questione filosofico-scientifica trova ampio spa­zio nelle lezioni ai VChUTEMAS – i laboratori tecnico-artistici di Stato della capitale – e nel trattato incompiuto sull’analisi della spazialità e del tempo nell’opera d’arte figurativa, composto proprio in quegli stessi anni (Il tempo e lo spazio nell’arte, Adelphi, Milano 1995).

Il fatto artistico che si staglia sullo sfondo dell’articolata riflessio­ne del professore – sviluppata in luoghi apparentemente così diversi e distanti – diviene a un tempo il protagonista eccellente nei percorsi tracciati dalle lezioni: l’estetica è di fatto il trait d’union della concezione del mondo di Pavel Florenskij, è l’interprete privilegiato che ai VChUTEMAS gli permette di parlare di Dio senza fare sempre esplici­to riferimento al fatto religioso o alle Sacre Scritture.

Contestualmente all’attività presso gli atelier di Mosca, tra agosto e novembre del 1921 Florenskij tiene un ciclo di lezioni nell’ambito dei corsi dell’Accade­mia teologica della stessa città. Obiettivo principale e meta ultima del suo percorso sono la collocazione storico-cultu­rale e i presupposti logici per la rifondazione di una conce­zione cristiana ed ecclesiale del mondo. Il contenuto di quei venti incontri rappresenta per il docente e per i suoi stu­denti un’opportunità straordinaria: è il momento socratico per eccellenza, autentica occasione ecclesiale, momento di costruzione e di edificazione di una vera e propria comu­nità.

La lavra (“monastero”) di San Sergio era del resto sempre stata per Pavel Florenskij una famiglia di famiglie: qualcosa di molto simile all’Accademia di Platone ma anche alla Scuola pita­gorica e al Collegio sacerdotale degli Egizi. Lo stesso corso significativamente andava a concludersi – pur lasciando al­tre materie in sospeso – con la questione della prospettiva e del suo rovesciamento: non si trattava di un argomento riguardante in modo esclusivo la percezione sensoriale o la rappresentazione artistica e le sue tecniche e maniere, ma della giustificazione stessa di una visione autentica o non autentica del mondo.

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Negli anni immediatamente successivi alla fine del secon­do conflitto mondiale, nel 1948, un docente di Storia del­la Chiesa slava del Pontificio Istituto Orientale di Roma, Albert Maria Ammann, pubblica una Storia della Chiesa russa e dei paesi limitrofi. L’autore distingue in quell’o­pera Florenskij dai pensatori coevi – tra questi, Berdjaev e Bulgakov – alla luce del fatto che, «chiusa l’Accademia dai Bolscevichi, rimase a Mosca a guadagnarsi la vita come ingegnere e elettrotecnico». Pavel Florenskij fu un sacerdote «senza dubbio di un carattere tutto suo particolare», impegnato in una ricerca che – scientificamente orientata a una chiarificazione del­la filosofia della discontinuità – avrebbe avuto inizio con la matematica e si sarebbe conclusa con l’escatologia. La quantità dei documenti a disposizione di Ammann – nel 1948 relativamente limitata – avrebbe necessariamente influito sulla parzialità del giudizio: la parabola filosofica florenskiana si sarebbe piuttosto conclusa nel più ampio ambito dell’antropodicea con l’estetica, nell’elaborazione di una filosofia dell’arte radicata in una completa e orga­nica concezione cristiana del mondo.

Le tracce dei fermenti culturali, degli scontri e degli incontri, delle controversie interpretative, delle recipro­che ascendenze e delle contraddittorie fascinazioni re­spirate dagli autori della rinascita religioso-filosofica nei primi decenni del secolo scorso, continuano a lasciarsi presagire ancora tra gli scritti degli anni Venti di Pavel Florenskij.

Nel percorso creativo della sua estetica, l’artista – come nella più alta ascesi della mistica – è sempre soggetto a un’andata e a un ritorno: nel rovesciamento della prospettiva il fruitore di quel prodotto vede l’insieme nelle singole parti. Come nel caso delle icone, non ci si sofferma sulla narrazione cronologica degli eventi, tutti passati attraverso la vita: non esisto­no compartimenti stagni nell’organicità generale, perché quell’opera non è morta e meccanica.

La personalità dell’artista richiama per alcuni versi nelle sue lezioni all’Accademia del 1921 la figura del fi­losofo. Il contatto che passa attraverso il simbolo porta infatti a un «ritorno interstiziale all’infanzia», all’essere bambino che sa meravigliarsi e stupirsi del mondo.

«Egli è un filosofo. Le intuizioni fondamentali sono soltanto alcune, e su di loro prende forma tutto il resto». L’ap­prossimarsi alla creatura originaria comporta dunque un superamento del traguardo ambito dalla cultura rinascimentale, dal momento che il suo obiettivo era non meravigliarsi di nulla.

Se le cose del mondo sono inte­riormente caratterizzate dall’antinomicità più profonda, allora la contraddizione più autentica è la vita. I disegni dei bambini presentano spesso un rovesciamento della prospettiva che li potrebbe già rendere di per sé straor­dinari, e che li avvicina in questo modo a un’esperienza artistica decisamente medievale nella sua essenza. Essere filosofo, spiegava il professore agli studenti dell’Acca­demia teologica di Mosca nel 1921, «significa percepire sempre la realtà come qualcosa di nuovo, che non è mai ripetitivo e non sembra mai banale».

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Nel saggio Nastojaščee i buduščee russkoj literatury, considerando come in Occidente le leggi della «tecnica letteraria» avessero prevalso sul senso stesso delle opere letterarie, decretando la vittoria dello stile inteso come «imitazione di ritmi altrui», Andrej Belyj metteva l’ac­cento sul disgregarsi della «religione della vita». Quel­la religione un tempo integra si era scomposta «in etica e estetica», le quali avrebbero piuttosto dovuto rappresen­tare – secondo il poeta – le «due metà di uno stesso sem­biante» e i «due elementi di una stessa unità».

Guar­dando a un contesto di tipo strettamente occidentale, gli individualisti russi non erano più riusciti a sottrarsi alla tutela di Nietzsche, poiché «dopo di lui l’Occidente non sa più dove andare». Accadeva perché quegli stessi occi­dentalisti non erano stati nietzscheani fino in fondo: alla luce di quella loro inamovibile stasi «il loro destino è di riconoscersi come Dio».

Alla presenza del contesto culturale che gli è pro­prio, non è certo un caso se Florenskij può paradossalmente già sostenere nelle lezioni all’Accade­mia teologica di Mosca del 1921 – lasciando riecheggia­re il dibattito pregresso – che Nietzsche, «in sostanza, per tutta la vita, non fece altro che aspirare a Cristo, e si discostò da un cristianesimo che era troppo conciliante rispetto al male».

Così, se nell’articolo del 1897 Slove­snost’ ili istina? Vladimir Solov’ëv metteva già l’accento sulla comprensione della «catastrofe» di Nietzsche, in prospettiva critica nei confronti di chi si lasciava «affascinare dalla brillante superficie verbale» del suo esercizio della filologia, Belyj sembrava fargli eco nel de­cretare che «dopo Nietzsche, che in silenzio ci sorrideva predicando, Nietzsche, che predicava non con le parole, ma con gesti di sofferenza, con l’eroico atto del mar­tirio, della follia – quella letteraria è una predicazione morta».

Antonio Maccioni

*Per gentile concessione Antonio Maccioni ha rielaborato per questa rivista una parte del suo studio, “Un filosofo nel gualg. Arte e letteratura in Pavel A. Florenskij, dall’Accademia teologica di Mosca ai campi di concentramento sovietici”, Jouvence, 2020

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