19 Aprile 2020

“Non ho mai capito come gli scrittori possano cedere alla vanità: ciò su cui lavori di più è di solito ciò che ti viene peggio”. Una lettera di Flannery O’Connor

10 novembre 1955, a A.

Ho guardato il quadro di Meissonier. Non vorrei farmene un giudizio affrettato. Credo che se lo vedessi incorniciato e messo al posto giusto, dopo un certo tempo potrei cominciare a provare un qualche sentimento verso di esso; ma non so abbastanza di arte per apprezzare le qualità puramente formali. Penso che ad andarmi a genio nella pittura sia la distorsione, non l’astrazione. […] Tu che ne pensi? Le tue opinioni violente sono sempre le benvenute per me. Deve averti colpito in un modo o in un altro.

Quanto a George Clay: non sono d’accordo quando dici che non ha talento. Penso che il talento sia l’unica cosa che ha. È in grado di creare un personaggio credibile e di lanciarlo nell’azione con una certa grazia; ma nulla di più. Il suo racconto We’re all guests non è in rapporto con niente che vada oltre di esso. Una volta mi ha scritto che secondo lui la cosa più alta che lo scrittore può fare è spiegare l’uomo ragionevole a se stesso. L’“uomo ragionevole”, ha continuato, è un concetto giuridico (Clay ha studiato giurisprudenza per un anno): le giurie cercano di stabilire come “l’uomo ragionevole” agirebbe in una situazione o in un’altra, e così via. È arrivato ad ammettere che si potrebbe considerare Hazel Motes [il protagonista di La saggezza nel sangue], in ultima analisi, più ragionevole dell’uomo ragionevole del diritto, ma, nonostante tutto, il suo uomo ragionevole resta quello del diritto.

Il mio “uomo ragionevole” è ben diverso. È l’uomo ragionevole agli occhi di Dio, il cui prototipo non può che essere Abramo, che essendo disposto a sacrificare suo figlio dimostra di essere fatto a immagine e somiglianza del Dio che sacrifica Suo Figlio. Tutto quel che Hazel Motes doveva sacrificare era la sua vista, e allora, come mi hai scritto, egli essendo un mistico lo fa. Il fallimento del mio romanzo sta nel fatto che egli non è sufficientemente credibile in quanto uomo per poter rendere credibile anche le ragioni per cui si acceca. Sembra che, per far fare loro quel che io voglio, i miei personaggi dovranno sembrare ancora più umani del normale. Non è un problema per risolvere il quale basti volerlo; se sarò in grado di farlo in qualche modo, sarà semplicemente frutto dell’ispirazione. Non ho mai capito come gli scrittori possano cedere alla vanità: ciò su cui lavori di più è di solito ciò che ti viene peggio. […]

Quanto a Dante: la Chiesa rimette il giudizio dell’arte e degli artisti all’individuo. Certo, se l’opera è pericolosa per la fede o la morale può accadere che sia messa all’Indice, ma ciò non costituisce un giudizio relativo al suo valore artistico o alla persona dell’autore. Ad esempio, André Gide può ben aver scritto opere d’arte ed essere ora in pace con Dio, ma le sue opere sono messe all’Indice per avvisare i cattolici dei pericoli che contengono. Comunque per come la vedo io Dante è il più grande che puoi trovare in giro. […]

Mi sono accorta che devo proprio essere uno spettacolo pietoso con queste stampelle. L’altro giorno ero ad Atlanta da Davison’s e una signora è salita in ascensore dietro di me. Non appena mi sono girata, questa qui mi guarda con gli occhi lucidi e mi fa, ad alta voce, “Dio ti benedica, cara!”. Mi sono sentita esattamente come il Balordo [antagonista del racconto Un brav’uomo è difficile da trovare] e le ho rivolto un debole sguardo assassino, ma lei addirittura incoraggiata da questo mi ha preso il braccio e mi ha sussurrato (a voce molto alta) all’orecchio: “Ricorda cosa dissero a Giovanni al cancello, cara!”. Anche se non era ancora arrivato il mio piano sono scesa dall’ascensore, e immagino che la vecchia signora sia rimasta sconvolta da quanto alla svelta fossi in grado di svignarmela sulle stampelle. Ho un’amica con una sola gamba e ho chiesto a lei cosa avessero detto a Giovanni al cancello. Le pare di ricordare che gli dissero: “gli storpi entreranno per primi”. Forse sarà così perché potranno farsi largo tra tutti gli altri a colpi di stampelle.

Flannery O’Connor

Da The Habit of Being, Farrar, Straus & Giroux, New York 1979, pp. 115-117; traduzione di Giuseppe Perconte Licatese

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