La decapitazione delle statue ha galvanizzato i guru della pulizia etica – che di solito si tramuta rapidamente in etnica. Attenzione: non parlo dei distruttori, dei fomentatori del caos; è corroborante, in effetti, per certi, azzerare più che mistificare, devastare. In ogni caso, nel caos c’è un gesto frontale – folle, ma frontale. Qui si parla di chi vuole rassettare la stanza, la vuole asettica, igienizzata, linda, limpida. Bianca. Attenzione, però, basta leggere Melville – uno che ancora si salva, prima che i paladini della tutela del capodoglio non lo mettano al bando – per ricordarsi che il bianco non è la tonalità dell’innocente, all’angolo sinistro del candore si nasconde il demonio.
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Pulire la stanza affinché gli ospiti, qualsiasi, non si sentano offesi. Eccola, la grande azione in atto. Eppure, una casa ci piace perché ha una personalità: le case ingabbiate nella prigionia del bianco sono per nessuno, prive di vita, di sangue, neanche dimora dei morti. Sono aule dove rimbombano le buone intenzione – ma più sotterri il demone più lui ti morde, e prima o poi esploderà, perché l’uomo, signori, si nutre della sofferenza, fate attenzione. La vicenda, come si sa, ha portato Harold Bloom a partorire Il canone occidentale. Insomma, diceva Bloom, la Divina commedia è indiscutibile, anche se Dante piazza Maometto – e un paio di papi – all’Inferno e reca offesa ai musulmani; Shakespeare è il Bardo nonostante l’accusa di antiebraismo, idem Dostoevskij e perfino Eliot (due, tra i titani, verso cui Bloom nutriva poca simpatia). Il punto, ecco, non è stabilire chi è più bravo di chi – Leopardi, nel Parini, insegna che sono proprio i grandi, i maestri a dover essere messi in discussione – ma proteggere quelle opere che ci ricordano che cos’è un uomo, la sua magnificenza, la sua caduta. Non esistono opere perfette, opere pure, per fortuna: un’opera, se grande, porta scandalo e contraddizione. Noi italiani lo sappiamo: vaghi per Roma e quei monumenti che ci ostiniamo a pensare immortali raffigurano assassini, sono stati commissionati da laidi corrotti.
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Ora. Gli strumenti per fare le pulizie di casa si sono raffinati. Leggo sul “New Yorker” un preziosissimo articolo di Paul Elie, cresciuto alla Columbia, editor per Farrar, Straus and Giroux, cattolico, dal titolo inequivocabile, How Racist Was Flannery O’Connor?, dal sottotitolo esplicativo: “È diventata una icona della letteratura americana. Ora i lettori devono fare i conti con un altro lato della sua eredità”. L’articolo verte per lo più su un saggio pubblicato da poco, firmato da Angela O’Donnell, Radical Ambivalence: Race in Flannery O’Connor. Il tema del saggio è dichiarato fin dall’abstract. “Lo studio della corrispondenza, in parte inedita, dimostra che sebbene la O’Connor abbia superficialmente sottoscritto l’idea di una uguaglianza razziale, era diffidente nei confronti della desegregazione, pensando che ciò comportasse l’erosione della cultura del Sud, la scomparsa del codice di buone maniere che regolava le relazioni tra bianchi e Africani Americani”. Il saggio analizza “l’ambivalenza della O’Connor nei confronti della politica contemporanea, il suo linguaggio dispregiativo nel descrivere gli afroamericani… i modi in cui la scrittrice critica le pratiche razziali ingiuste del Sud nei suoi racconti mentre inconsciamente le sostiene”. Inconsciamente. Sintesi: la O’Connor sarà pure una grande scrittrice ma dalle lettere traspare che è una sporca razzista. Prendetene atto, fate il vostro gioco. Cautamente, delicatamente.
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Da notare: il sibilo giornalistico accade nel pieno del ‘Caso Floyd’. L’articolo la prende larga, a volo di falco. Non potendo dileggiare o danneggiare l’opera della O’Connor, il giornalista adotta uno stile ironico, a volte caustico: “Nel 1945 fece il primo viaggio a nord, si iscrisse allo Iowa Writers’ Workshop… e divenne Flannery O’Connor. Meno di due decenni dopo morì, a Milledgeville, di lupus. Aveva 39 anni, aveva scritto due romanzi e un libro di racconti. Un breve necrologio su ‘Times’ la definiva ‘una delle scrittrici più promettenti della nazione’. Alcuni lettori la liquidarono come ‘scrittrice regionale’; molti non sapevano neanche che fosse donna. Stiamo ancora imparando chi sia Flannery O’Connor”. Non è il migliore degli incipit, ma l’andazzo resta quello (“La O’Connor ora è canonizzata come Faulkner e Eudora Welty. Più che una grande scrittrice è una personalità culturale: una donna divertente con un cappello di paglia che si muove tra i pavoni, con le stampelle… La sua fattoria è aperta per le visite guidate, la sua faccia è sui francobolli”). L’eccentricità della O’Connor è più palese della sua eccellenza, ci porta a pensare il giornalista.
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Segue citazione di lettere oblique della O’Connor. Così nel maggio del 1964 a Maryat Lee: “A proposito di negri, il tipo che non mi piace è il profeta filosofo che pontifica, come James Baldwin. Molto ignorante, non sta mai zitto. Baldwin può dirci come ci si sente a essere un negro ad Harlem, ma vuole raccontarci alche tutto il resto. Non credo che Martin Luther King sia il santo del nostro secolo, ma almeno sta facendo quello che si può e si deve fare… Se Baldwin fosse bianco nessuno lo sopporterebbe. Preferisco Cassius Clay”. Per carità, Flannery è una scrittrice di talento, ci ricorda il giornalista, come se questo fosse accessorio, però… è inutile invocare i tempi e i luoghi. All’epoca della O’Connor, infatti, esistevano scrittori come Gabriel García Márquez, Ursula K. Le Guin, Tom Wolfe, Derek Walcott, che creano molti meno problemi di collocazione; esisteva, soprattutto, Toni Morrison, cattolica, dem, paladina di Obama, scrittrice straordinaria e più ‘utile’, in tutti i sensi. Per altro, ci viene ricordato, non è che in Georgia, dove è nata ed è cresciuta Flannery, fossero tutti razzisti, anzi. Insomma, la O’Connor non ha paracadute. Segue, citazione di una lettera vampira – come sempre, fuori contesto, un po’ come se facessero l’esegesi di certe nostre mail, adeguatamente selezionate – “Lo sai”, scrive ancora a Maryat Lee, drammaturga, ci avvisano le didascalie apposite, “dichiaratamente lesbica o bisessuale”, “per principio credo nell’integrazione, per mio gusto nella segregazione. Non mi piacciono i negri. Mi mettono tensione, più li vedo e meno mi piacciono. In particolare, il nuovo tipo”. Infine, il giornalista ritira la manina: “l’opera” della O’Connor “è più complessa e stratificata” delle sue scarne lettere (non proprio un Mein Kampf), “nessuno di noi è senza peccato e può permettersi di lanciare una pietra”. Se nessuno è senza peccato, non dovrebbe svenarsi per rivelare i peccati del caro estinto. Meglio lanciare una pietra o un guanto di sfida, a viso limpido, più che limitarsi, con balda viltà, a igienizzare il canone.
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La cosa obliqua, l’atto insopportabile, è separare l’uomo. Dire che della O’Connor amo l’opera ma disprezzo la persona significa mandarla al rogo, perché l’opera è l’esito di un uomo, di una poetica, di una umanità. Se mostro che fa schifo l’uomo, chi leggerà la sua opera? E poi: chi è che non fa schifo, che non è infetto, che non è un groviglio di virus, una cesta di malattie, concime per il sovrano delle mosche? E poi: cosa m’importa se uno scrittore è razzista, misogno, antisemita? Saprò giudicare la sua opera, la forma a cui ha dato vita, sperando che uncini il mio perbenismo, che mi fotta. La letteratura esiste per turbare, per promuovere la rivolta dentro di sé, per cauterizzare e lottare – è uno sputo in faccia, una rosa in gola, la nudità potente e l’atto impuro. Per questo, gli scrittori, i poeti – a cui non va perdonato nulla, perché niente è assolto e scrivendo si è martiri – vanno ospitati. Se non ci consentiamo la libertà di esprimere ed esplorare gli estremi nella scrittura, siamo destinati alla frustrazione, all’infatuazione per una pallida idea di purezza claustrofobica più che claustrale. Chi igienizza la stanza è degno del vuoto, del noto. (d.b.)