27 Settembre 2019

“Rendiamo la vita assurda da est a ovest”: Pessoa e le mille identità che finirono per divorarlo

Al liceo quel libro sembrava dire esattamente chi fossi, in quale estraneità a precipizio. La forma diaristica, di per sé, affascina il ragazzo che ha molto da confessare e poca voglia di leggere – i suoi tumulti amletici chiedono tomi esegetici, non più romanzi, la giovinezza di gettarsi nelle avventure altrui è finita, è ora di compiere la propria. Il titolo, però, fu molto. Il libro dell’inquietudine. Lo possedevo nell’unica edizione di allora, Feltrinelli, e fu, per quell’anno a spirale, la bibbia, il libro di culto, al netto di una ossessione monotematica e dell’inesausto grigiore epigrammatico. Poi Pessoa – che lì indossa Bernardo Soares, “aiutante contabile nella città di Lisbona” che “a Lisbona passò tutta la sua mediocre vita di piccolo impiegato” – diventò una moda. Eppure, quell’abracadabra dello spirito – Desassossego – continuò ad agire in me con formula incantatoria. Di recente ho preso l’edizione mondadoriana del Libro dell’inquietudine, più ‘aggiornata’ (“La storia del Libro dell’inquietudine è la storia di un libro che non c’è”, scrive, con formula conclusa, Valeria Tocco), nonostante il suo autore sia, per natura & per scelta, inarginabile, inattuale, infinito. Ho ripreso a sottolinearlo, manco avessi terrazzamenti d’abisso nel cuore.

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Mi piace questo: È nobile essere timido, illustre non saper agire, grande non avere predisposizione per la vita… I fuochi fatui che esalano dalla nostra putrefazione sono almeno luce nelle nostre tenebre. Solo l’infelicità eleva”. Se fossi lo studente di allora, confinerei il mio diario, lo zaino, il corpo, con le agnizioni di Pessoa/Soares: “Rendiamo la vita assurda, da est a ovest”; “Non il piacere, non la gloria, non il potere: la libertà, unicamente la libertà”; “Trovare la personalità nella circostanza di perderla”; “Possiamo morire se soltanto abbiamo amato”. Anche quando appare ovvio, è ovvio che lo sia, Il libro dell’inquietudine, perché è il libro dell’estrema giovinezza. Pessoa conobbe quell’ennesimo se stesso, Bernardo Soares, “in una modesta trattoria di cui era cliente fisso, e fu proprio a uno di quei tavolini che Soares gli si rivelò scrittore”.

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Un po’ come tutti, sono entrato in Pessoa, lo scrittore che ha reso la letteratura una sublime truffa e il Portogallo la sfilettatura di un sogno, attraverso Antonio Tabucchi. Acquistai una delle tante edizioni di Una sola moltitudine, il primo volume di un dittico – ma il secondo, del 1984, è “temporaneamente non disponibile” – che riduce in antologia la molteplice mente di Pessoa. Fu una scoperta clamorosa. Ora che Adelphi, quarant’anni dopo – era il 1979 – riproduce il tomo in versione economica, l’effetto è un poco anacronistico. La mitica introduzione (allora) di Tabucchi (sia lode a lui), Un baule pieno di gente, è un tanto datata. Quarant’anni fa si poteva scrivere che “Una sistemazione soddisfacente di Pessoa come ‘intellettuale’… è ancora ben lontana dall’essere effettuata”; ora siamo al cospetto di un autore, fortunatamente, tra i più noti, sviscerati, tradotti (solo quest’anno sono uscite due edizioni del Libro dell’inquietudine, per Rusconi e per Foschi, e una edizione Passigli delle Poesie di Ricardo Reis). Si spera poi che le schifiltosità politiche (Tabucchi scriveva di “imbarazzo della critica di fronte a un personaggio scomodo come Pessoa”) siano sanate, senza strepiti (“Pessoa non ha niente in comune con certi mediocri personaggi, come ad esempio alcuni vociani di casa nostra, di cui è ricca la classe dei ‘cattivi’ del Novecento: appunto dalla voce troppo alta, beceri e aggressivi in gioventù, docili e conformisti in età matura, remissivi e folgorati dalle conversioni dopo la pensione”, scrive ancora Tabucchi). Non c’è editore che non abbia il ‘suo’ Pessoa, autore che ha pure il genio, postumo, di ‘vendere’; sono pubblici parecchi documenti altrimenti obliati (Bietti l’anno scorso ha pubblicato, per dire, Politica e profezia. Appunti e frammenti. 1910-1935). Ergo: forse al posto di ristampare un libro di quarant’anni fa, si poteva tentare una specie di ondivaga ‘opera completa’, con nuovi studi oltre a quello, miliare, di Tabucchi.

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La forza di Pessoa: avere un pensiero fisso fino a esaurirlo, metterlo in bocca all’ennesimo se stesso e infine perderlo. Lo scrittore non ha pensieri, ne ha infiniti, non ne difende nessuno, li spreca tutti.

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Pessoa ci induce a pensare che la vita è spettrale – perciò dobbiamo divenire spettro di fantomatiche identità. Ciascuna identità ha un volto, una statura biografica, un carattere, un modo di accarezzare. Lo ‘pseudonimo’ è puro vezzo – vizio narcisista. L’eteronimia sancisce legami biologici, per così dire: si dà la vita perché altre identità divorino la nostra, la sola. Fino a non sapere più chi sei. Pessoa è un spettro, Pirandello colloca specchi; Conrad ricama le ombre, Hemingway ambisce alla carne fino a dissiparla, Beckett ci porta al sopruso del grammaticale, all’uomo ridotto a singulto, singhiozzo.

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I Materiali di Una sola moltitudine – volume primo – sono utili, registrano “un primo censimento” delle svariate identità letterarie di Pessoa – compreso lo scrittore Pessoa. Alberto Caeiro era “schivo e solitario, riservato e contemplativo”, “biondo, pallido, con gli occhi azzurri, di media statura”, come se lo ricorda Pessoa, era poeta, per lo più bucolico; Alvaro de Campos, nato in Algarve, laurea a Glasgow “in ingegneria navale”, “alto, coi capelli neri e lisci divisi da un lato, impeccabile e un tantino snob, col monocolo”, viaggiò in Oriente nel 1914, fu avanguardista, poi pirandelliano, comunque poeta; Ricardo Reis praticò l’esilio brasiliano dal 1919, fu medico, educato dai gesuiti, eccellente nell’ode, figlioccio di Walter Pater; Alexander Search fu portoghese che si dilettava a scrivere in inglese, di lui si ricorda “un patto con Satana che reca data 2 ottobre 1907”; António Mora fu filosofo neopagano, “alto, imponente, lo sguardo vivo e altezzoso e la barba bianca”, finì i suoi giorni in manicomio; A.A. Crosse fu intimo di Pessoa, “visse per partecipare ai cruciverba e alle sciarade del Times”; Abilio Quaresma fu “autore di racconti gialli dei quali egli era anche protagonista (faceva l’investigatore privato)… come Auguste Dupin e Nero Wolfe risolveva i casi a distanza”. Ne esistono altrettanti, e altri, in cui fare catatonico ingresso.

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Del resto, è l’eccitabile umore retorico di Pessoa, l’invenzione dodecafonica che amo. Passa dal feroce Ultimatum (“Uomini, nazioni, intuizioni, è tutto annullato! Fallimento di tutto a causa di tutti! In un modo completo, in un modo totale, in un modo integrale: Merda! L’Europa ha sete di creazione, ha fame di Futuro! L’Europa vuole grandi Poeti, vuole grandi Statisti, vuole grandi Generali!”) alla lama dello spietato aforisma (“Il tuo corpo reale che dorme/ è un freddo nel mio essere”), dalla poesia esistenziale (“Grandi misteri abitano/ la soglia del mio essere,/ la soglia dove esitano/ grandi uccelli che fissano/ il mio tardivo andare aldilà di vederli”) all’ode tonante (“Vieni, Notte antichissima e identica,/ Notte, Regina nata detronizzata,/ Notte internamente uguale al silenzio, Notte/ con le stelle, lustrini rapidi/ sul tuo vestito frangiato di infinito”).

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Interessante: oggi rincorrono una ‘individualità’, corrono a fotografarsi fino a lacerare l’ultimo brandello di maschera (così disintegrando il viso nella mitragliata di selfie); lui rendeva milioni il proprio individuo, per sparire, cioè, per conservarsi integro.

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Non ha creatura, qui, l’abilità tecnica, ma l’estensione della fame, il barometro dei sensi, il Nord degli occhi. Ogni giorno ha il suo giogo verbale: un vocabolario è misero per dirne il desiderio, il demone, il declino. “Gli spigoli mi fissano… Sensazione di essere solo la mia spina… Le spade”. Della vita si è il taglio, l’opera è una ferita – e noi… già spariti.

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Che non ci sia ‘proprietà’, il sigillo del nome, ma l’inappropriato, amo di Pessoa. (d.b.)

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