18 Febbraio 2020

Federico Italiano è il Fitzcarraldo della poesia nostra: fonde la cultura all’ispirazione selvaggia (e chiacchiera con Auden, Brodskij, Walcott)

Drasticamente, la poesia italiana è ridotta a due eventi. A: i ‘maestri’ che si sputtanano sputando sul marmo della propria opera, senza altro spunto che recitare se stessi, decrepiti. B: i poeti ‘nuovi’ che sculettano sul palco lirico, manco fosse un trito episodio sanremese (credono nella fama, poveretti, senza altra fame). D’altronde, per farsi notare bisogna ‘saperci fare’ e i critici letterari, da tempo, inaciditi nell’ovvio, vogliono essere considerati poeti puri pure loro, poveretti.

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Per salvarmi dalla palude, gettando nel cosmo qualche poesia per gli extraterrestri che verranno, sfoglio un libro pubblicato dieci anni fa. S’intitola L’invasione dei granchi giganti, lo ha scritto Federico Italiano, lo ha pubblicato Marietti. Quel libro è un cristallo. Alcune poesie – queste, almeno: Il tradimento dei rospi, La nuova età gregaria o l’invasione delle locuste, L’invasione dei granchi giganti, Dersu Uzala, I Mirmidoni – andrebbero imparate a scuola, per capire come si fa. Poesia, infatti, non è auscultare i moti perpetui del proprio cuore, non è speleologia cardiovascolare; poesia è studio, pensiero raffinato in versi, intuizione selvatica, linguaggio che abbaglia.

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Quando Federico Italiano fonde la cultura indomita con l’indole selvaggia, è un poeta eccezionale: elegantissimo europeo in una Amazzonia, una specie di Fitzcarraldo. Shakespeare sul Rio delle Amazzoni.

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Italiano è cresciuto tra le risaie novaresi, ha vissuto quindici anni a Monaco di Baviera, è ricercatore a Vienna. Ha tradotto tanto, facendo della traduzione un’armeria bizantina: dallo spagnolo, dall’inglese, dal francese. Il tedesco è l’altro lato della sua vita linguistica: Einaudi ha da poco pubblicato Variazioni sul barile dell’acqua piovana di Jan Wagner, la traduzione è sua, di Italiano. La sua poesia è riassunta nel titolo del primo libro, Nella costanza (Edizioni Atelier, 2003): una infallibile fedeltà permette di azzerare le distanze tra Potatori di siepi a Hasenbergl (poesia di allora) e Il metodo nigeriano per vincere a Scribble, poesia inscatolata nell’ultima raccolta di Italiano, Habitat (Elliot, 2020), tra Trasloco (poesia di allora) e Le case degli altri (poesia di ora). Come se continuasse a raffinare il vetro in vento, Federico.

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Federico Italiano è un poeta ‘europeo’, cioè colto: chiacchiera con W.H. Auden, s’è azzardato a scrivere un Post scriptum a Josif Brodskij, prende il caffè con Ted Hughes, strologa di miti ancestrali con Seamus Heaney. In una poesia bellissima, Garzette, mi pare che stia ballando con Derek Walcott, in un Eden dove ogni linguaggio è argento:

Mattino chiaro, azzurro, atletico,
nelle distese smeraldo
del loro regno acquatico.

Ci scortava una flotta
di libellule, elicotteri in miniatura,
quando due leprotti

sbucarono dall’ultimo campo
di granturco, in missione segreta
tra gramigna e sambuco

tra i canneti e le felci,
lungo gli argini erbosi
di risaia. Dal palo della luce

un nibbio si fiondò
dietro loro e con ali che parevano
scandire un uffa

un’intera colonia di garzette
cambiò lato dell’acqua
volando poco sopra le nostre teste.

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Mantiene la fiamma di una poesia che pare incenerita dal facile, dal fucile patetico, dal vacuo preziosismo. Ma quando ‘imita’ non coltiva il culto alessandrino: Italiano esplicita la fonte, la devia, gioca con la lince della verità. Qui, rinvigorendo Abulafia, maestro cabbalista:

Ti ho visto emergere dal mio respiro
con la schiena ancora accesa d’amore,
trapunta da milioni di comete.

Come erano belli i tuoi piedi quando
s’inerpicavano e si attorcigliavano
sul mio collo, dirigendo i miei occhi

verso l’Orsa Maggiore
– ma dietro i cristalli della tua stanza
il segreto divenne legge e alleanza.

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Con corrosiva certezza insisto avvicinando Federico Italiano a Stanley Kubrick. Italiano è un poeta ‘fotografico’, ossessionato dall’eleganza, come il regista che studia l’illuminazione di Barry Lyndon, nell’apocalisse delle candele. La forma – candela come endecasillabo – galvanizza il contenuto, la narrazione. A volte, invece, leggerei Italiano con I duellanti in tivù, in sottofondo – il poeta lo vedrei bene in blusa da Ussaro, nella Mosca occupata dai napoleonici, a pasteggiare sul corpo di una divina a Budapest, a disegnare le Sfingi mentre Horatio Nelson fa vela verso le Indie. Vive nel senza tempo, la poesia di Italiano, nell’eccidio geologico: Il monito di Rick Aster (in Nella costanza), Discorso di un giovane alla sua prescelta (in L’invasione dei granchi giganti), Alaska (in L’impronta) e Frammenti di una guerra vivono una simile alchimia, che svasa nell’indimenticabile, nel dispetto a Crono.

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Mi pare uno che danza sul ghiacciaio, come se fosse una fetta di sole:

La morte sciolse il malinteso
che associa i corpi.

Quando la guerra terminò,
il cielo si tinse di rosa.

Poi piovve acqua mischiata a sabbia
e nacquero giganti.

Certamente Federico Italiano, in esilio dalla nostra lingua, ha costruito un roseto per i reietti, una risposta alla dissoluzione estetica, una pagoda nel deserto, l’Opera in un minuscolo villaggio nella giungla. (d.b.)

*In copertina: Klaus Kinski sul set di “Fitzcarraldo” (1982), il film di Werner Herzog

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