13 Agosto 2020

Pensiero tremendo: dare del razzista a William Faulkner. Ecco perché dobbiamo tenerci stretto lo scrittore che ha raccontato “il cuore umano in conflitto con se stesso”

Per fortuna, siamo europei: conosciamo l’analogia, l’allegoria, la metafora. Sappiamo, cioè, che le cose non sono ciò che sembrano, che il tempo appiana tutto. Ecco, abbiamo il tempo dalla nostra. Per questo – mi auguro – non condanniamo Shakespeare come antisemita a causa di Shylock, non bestemmiamo Dante perché ha conficcato Maometto agli inferi, non aboliamo Cesare, spietato omicida, dalle antologie e godiamo di Caravaggio nonostante l’assassinio. Sappiamo, cioè, che l’etica – mutevole – non può guidare l’estetica, che la forma basta (moralmente) a se stessa, che le sorti della storia (sia lode a Leopardi, scorrettissimo) non sono lineari, progressive, felici. Che l’integrità morale dobbiamo cercarla dentro di noi, eventualmente, non in romanzi scritti decenni fa, con l’ansia di giudicare il prossimo con la falce perbenista. Negli Stati Uniti, invece, non va così. In era di esagitato movimentismo e di statue decapitate (bastasse questo a cancellare l’ignominia), si ridiscute, con ansia da regolamento di conti, il canone. A subire la gogna, ora, è pure William Faulkner, caposaldo della letteratura americana. Il dissidio è pacificare l’uomo (nel 1956, “contro la segregazione obbligatorio come contro l’integrazione obbligatoria” dirà, “Non sanno che il Sud ricomincerà la guerra… Se si dovesse combattere io lo farei per il Mississippi contro gli Stati Uniti, anche se questo significasse andare per le strade a sparare ai negri… Il problema non è razziale. Il 90% dei negri stanno dalla parte dei bianchi, contro quei pochi come me che ritengono importante l’eguaglianza”) con lo scrittore straordinario, Nobel per la letteratura. Il dilemma è ‘sanare’ ed emendare quelle parti, nei romanzi eccelsi di Faulkner, che non suonano bene alle orecchie dei tempi moderni, della politica vigente. Orrore, orrore. Sul punto – cioè, orrore, orrore, su “come leggere Faulkner nel XXI secolo… riconsiderando la sua eredità e la sua vita” – Michael Gorra, esperto di letteratura anglofona (insegna allo Smith College), ha scritto un libro, “The Saddest Words. William Faulkner’s Civil War”, in cui spiega perché non possiamo non leggere Faulkner (evviva!), pur rilevando errori di prospettiva, cadute di stile, sintomi di un razzismo evidente. Mi pare un esercizio inquietante e superficiale. Su “The Atlantic” (la rivista fondata da Ralph Waldo Emerson e Longfellow) una lunga recensione di Drew Gilpin Faust, di cui traduco alcuni brani, cerca di dare, all’americana, un colpo al cerchio e uno alla botte. Insomma, evirare Faulkner oltre che essere una sciocchezza fa sgretolare tutto il canone statunitense; fargli le totò sul culetto bianco è una sciocchezza al cubo. Uno scrittore non deve avere la fedina morale pulita (e chi la timbra, poi?, chi ne decreta la validità?), ma irritare. In effetti, le opinioni di Faulkner, guidate da ubriaco buon senso, scontentarono tutti, neri e bianchi, democratici e repubblicani: nel 1955 scrisse a Else Jonsson, ennesima musa, “Ho paura. Faccio quello che posso. Forse sarò costretto a lasciare il mio stato natale più o meno come gli ebrei hanno dovuto lasciare la Germania sotto Hitler”. Gli erano giunte, in seguito alle sue esternazioni (“se i neri fossero rimasti ‘pazienti e di buon senso’, si sarebbe arrivati a una ‘completa eguaglianza in America’”), minacce di morte. Ora tornano a minacciare Faulkner. Teniamocelo stretto. (d.b.)

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Forse il più potente dei romanzi di Faulkner sulla guerra civile è Assalonne, Assalonne! (1936)… Pensare che questo romanzo sia apparso nello stesso anno di Via col vento è sorprendente. Furono il chiaro di luna e le magnolie, più che il ritratto bruciante della persistente eredità dello schiavismo a catturare il pubblico: fu Margaret Mitchell, non Faulkner, a ottenere il Pulitzer per la narrativa nel 1937. Ma il periodo di “produttività esplosiva” di Faulkner, a partire dal 1929 – tredici libri in tredici anni – conquistarono un diverso tipo di attenzione, grazie alle sue innovazioni formali, allo sperimentalismo, oltre che alla screziata rappresentazione della razza. In un saggio del 1933 Sartre paragonò Faulkner a Proust, e lo scrittore divenne un idolo agli occhi dei giovani intellettuali francesi e dei critici di tutto il mondo. Faulkner non aveva vinto il Pulitzer ma percorreva la strada che lo avrebbe condotto, nel 1949, al Nobel.

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Michael Gorra sottolinea “l’importanza crescente del problema razziale” nei romanzi di Faulkner. Eppure, la storia si evolveva più rapidamente dei pensieri di Faulkner. Mentre il movimento per i diritti civili acquista slancio, dopo la Seconda guerra, Faulkner si impegna in commenti pubblici sempre più espliciti riguardo alle divisioni e alle ingiustizie che lacerano gli Stati Uniti. Come i critici di quegli anni, Gorra deve lottare per venire a patti con le angoscianti opinioni di Faulkner riguardo alla giustizia razziale. Gorra non distoglie lo sguardo dalle preoccupanti dichiarazioni pubbliche di Faulkner, dagli sconcertanti stereotipi, dal pensiero che il suo lavoro letterario sia diventato stridente rispetto al mutare degli atteggiamenti sociali. La posta in gioco è alta. Siamo in un’epoca in cui la reputazione degli scrittori viene ribaltata, le loro opere rimosse dalle liste dei libri da leggere, i capolavori svalutati a causa dell’incapacità di capire ciò che oggi ci appare normale, ovvio. Gorra ricorda i dibattiti intorno all’opera di Joseph Conrad, scaturiti da un saggio di Chinua Achebe del 1977 che definiva lo scrittore un apologeta dell’imperialismo. “Oggi Faulkner è come Conrad allora”, scrive Gorra, certo che i suoi libri abbiano bisogno di un riesame per comprenderli, aggiornando gli errori di valutazione intorno al problema razziale.

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Faulkner, ammette Gorra, “è rimasto un uomo bianco del Sud, legato alle leggi di Jim Crow. Non si è mosso da lì. A volte le sue parole possono – devono – metterci a disagio”. La sua narrativa offre una “visione fin troppo indulgente del paternalismo verso gli schiavi”. I suoi romanzi non rendono le crudeltà fisiche subite dagli schiavi; non includono la rappresentazione di un’asta, di una famiglia separata dalla vendita di schiavi, né la fustigazione. Molti personaggi neri paiono incompleti e incompiuti, nonostante non siano ascrivibili alle caricature tipiche della coeva scrittura bianca del Sud. “L’immagine di Faulkner degli elettori neri come inevitabilmente ignoranti e corruttibili ripete a pappagallo la visione attuale all’epoca dell’infanzia dello scrittore”, scrive Gorra… Tuttavia, Faulkner non è un nostalgico del Vecchio Sud, non glorifica la guerra tra le razze, a differenza di quasi tutti gli scrittori bianchi, ‘sudisti’, del suo tempo.

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Per molti versi, Faulkner era la quintessenza dell’uomo bianco ‘moderato’ del Sud. Condannava la violenza, riconosceva la necessità di porre fine alla segregazione, respingendo ciò che Martin Luther King definiva “la feroce urgenza dell’adesso”. Erano proprio i fallimenti morali dei ‘moderati’ che Martin Luther King attaccava nei suoi scritti. Faulkner sollecitava alla pazienza, ritardando la Storia. Nel 1956 James Baldwin condannò le opinioni di Faulkner, che sperava di concedere ai bianchi del Sud la possibilità di salvarsi, di rivendicare la propria integrità morale. Ma questa salvezza poteva arrivare solo rinviando la giustizia verso i neri americani e questo per Baldwin era inconcepibile.

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Gorra allinea una lista di errori compiuti da Faulkner, misurando i presupposti del nostro tempo rispetto a quelli dello scrittore. Gorra rivendica la grandezza dello scrittore rimproverando l’uomo. “Quando scriveva romanzi, Faulkner si dimostrava migliore di Faulkner”… L’atto di scrivere conferiva a Faulkner una lucidità quasi mistica, eppure questa chiarezza, passando dalla finzione di Oxford e Jefferson alla realtà del Mississippi, era messa in discussione, diventava ambigua.

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Nel discorso di accettazione al Nobel, Faulkner dichiara che l’unica cosa che vale la pena scrivere è “il cuore umano in conflitto con se stesso”. Ha vissuto, scrivendo, quel conflitto. “Lottare dentro una storia, per salvarla in un significato” è la ragione per cui è così utile leggere Faulkner. Lo leggiamo perché ci porta nel cuore oscuro degli Stati Uniti, dentro una vergogna che non siamo riusciti a comprendere. Il passato – su questo Gorra e Faulkner convergono – “non è mai finito”. Certamente, non ancora.

Drew Gilpin Faust

Gruppo MAGOG