Faccia dura, occhi liquidi, che purificano il dolore. Quanta morte hai visto, amico mio?, viene da chiedergli. La storia della letteratura occidentale comincia con la parola menin, che significa ira, con l’assedio alla città di Troia, con la guerra e con la morte. Proprio così, con impeto omerico, con sguardo epico e psichedelico (“La sera, quando cadono le Leonidi, nella pioggia di meteore si nascondono i profughi di ritorno alle loro case terrestri. La vita si ripete nella sua semplicità, piena di piccole abitudini e rituali umani”), Faruk Sehić (nella foto di Srdan Veljović) ha raccontato la Guerra in Bosnia. Lui c’era. C’era, il poeta, nell’impeto della battaglia. Classe 1970, a 22 anni Faruk studia veterinaria a Zagabria. La guerra scoppia. Lui interrompe gli studi. Si arma, lotta nell’esercito della Bosnia ed Erzegovina. Comanda una unità di 130 uomini. Vede la morte. Uccide. Forse. “La guerra non è un balletto”, ripete, incessantemente, da Sarajevo, “l’unica città dove posso vivere”, ad ammirare quotidianamente la disgregazione della fu Jugoslavia. Knjiga o Uni, pubblicato nel 2011, viene onorato con l’European Union Prize for Literature e viene tradotto nel resto dell’Occidente. In Italia arriva quest’anno, come Il mio fiume (pp.206, euro 16,00), per l’editore Mimesis. Il libro è mirabile, riduce gli esercizi romanzeschi italiani odierni, quasi tutti, a sociologia applicata al precariato, li retrodata, cioè, al nulla. Alla ferocia, esasperata (“Ho trasformato corpi vivi in ombre, anzi in ombre di farfalle notturne, cioè nulla. Io sono un poeta e un combattente e nell’anima un monaco sufi”), si assemblano passi lirici (che riguardano la Jugoslavia pre-bellica, con l’idillio della vita intorno al fiume Una, che scorre tra Croazia e Bosnia) e micidiali bordate all’ideologia capitalista (“Avviliti, camminerete per i centri commerciali con le spalle curve e i culi unti, bramando i corpi delle sirene affissi sui cartelloni olografici. Vogliono indurvi all’oblio. Vi devitalizzano… Ho detto addio alla depressione neoliberista. I miei demoni non abitano il mondo di oggi. Vi offriranno come modelli il progresso e il benessere di nazioni rigorosamente controllate e voi pagherete con l’oblio”). Insomma. Lo scrittore ha fegato, è bravo, intriso di poesia che fa male, fa quello che la letteratura ha sempre fatto. Dire la guerra, ragionare sulla morte, regnare sulla morte fino a quell’osso estremo, simile a un’alba, che ci fa invocare gli immortali.
Il titolo del suo romanzo ricorda la poesia più nota di Giuseppe Ungaretti, I fiumi. Lei, d’altronde, è poeta. Ungaretti ha scritto poesie in trincea, è un poeta soldato: ha avuto qualche influenza sulla sua opera?
“Il titolo è stato scelto dal mio editore. Non è possibile tradurre il titolo del mio romanzo dal bosniaco all’italiano. Tuttavia, ho letto Ungaretti e Quasimodo, adoro la poesia di Ungaretti, I fiumi: l’ultimo libro che ho scritto si intitola I miei fiumi e cita alcuni brani della poesia di Ungaretti. Riconosco me stesso in quel poema: sono stato un soldato anche io, come lui è stato un soldato durante la Prima Guerra mondiale. Non c’è nulla di più potente nella letteratura come quando capisci che qualcuno, prima di te, ha provato le tue stesse sensazioni. Ungaretti mi ha aiutato a dare forma al mio mondo letterario, come Apollinaire, e altri”.
Lei ha scritto un romanzo lirico e psichedelico, feroce ed efficace. Non ha scritto una ‘testimonianza’, ma una specie di delirio verbale. Quali scrittori legge? Da quali scritture è stato influenzato?
“Tanti scrittori – e non solo scrittori – hanno avuto un forte impatto sul mio lavoro. Amo T. S. Eliot, Apollinaire, Gabriel Garcia Marquez, Seamus Heaney, Zbigniew Herbert, Czeslaw Milosz, Jorge Luis Borges, Bruno Schulz, David Bowie, Lou Reed, e tanti altri. Mentre scrivevo il romanzo, leggevo Gaston Bachelard, Bruno Schulz, Ralph Waldo Emerson, Borges. Il mio libro ‘sacro’ è una raccolte di poesie di Borges. Ho trovato quel libro nell’estate del 1992, in un appartamento vuoto nella mia città, durante i primi giorni di guerra. Quello era un vecchio edificio austroungarico, che ha preso fuoco pochi giorni dopo che ho trovato il libro di Borges. Conservo quel libro. Mi ricorda quanto è fragile la materia, la materia umana, vivente, e la materia non vivente. Il mio libro può essere una testimonianza, perché no? È una finzione, ma molti lettori pensano che il mio libro sia più autobiografico che una fiction, la verità sta fuori, come una serie tivù di X-Files”.
In un passo del libro scrive, “ho ucciso solo perché volevo sopravvivere al Caos”. Lei ha partecipato alla guerra nella ex Jugoslavia. Cos’è la guerra? Ha ucciso qualcuno?
“Sì, ho partecipato alla ‘nostra’ guerra. Non avevo altra scelta. Immagina la situazione in cui uno con gli occhi azzurri viene nel tuo appartamento e ti dice: ‘tu sei un cittadino dagli occhi verdi, devi lasciare questa parte della città perché questa parte della città appartiene ai cittadini dagli occhi azzurri’. Se non obbedisci, ti uccidono o ti portano in un campo di concentramento. Così, mi sono armato per difendere me stesso, la mia strada, la mia città, il mio diritto a essere uguale ai cittadini con gli occhi azzurri. Nessuno vuole essere un cittadino di secondo piano. Loro, i membri del partito democratico serbo di Radovan Karadzic, avevano tutte le armi del mondo, e loro, non tutta la popolazione serba, volevano prendere parte del mio paese e portarlo nella Grande Serbia. Ma questo è stato impossibile perché noi abbiamo combattuto, pur non avendo nulla di comparabile al loro potere militare. Ma noi abbiamo combattuto per quasi 4 anni. E fu una guerra eroica, per diverse ragioni più eroica dell’OLP che ha combattuto contro le forze israeliane nel XX secolo. Ma noi non ci siamo fatti vanto della nostra guerra come fanno molte altre nazioni. Ho combattuto corpo a corpo (in quel tipo di battaglia tutto accade in pochissimi secondi, non hai tempo di pensare, devi solo reagire istintivamente), forse ho ucciso qualche soldato nemico, la guerra non è un balletto”.
Con la recente condanna di Ratko Mladic lei ritiene che l’agonia dell’ex Jugoslavia sia davvero finita? Dove vive oggi? Come vive?
“Vivo a Sarajevo, la sola città della Bosnia dove posso vivere. Eppure Sarajevo è solo l’ombra del suo passato. Faccio il giornalista e lo scrittore. Lotto per vivere ogni giorno come la maggior parte della nostra gente. L’agonia non è finita, noi continuiamo a disgregarci, la Jugoslavia continua a decomporsi”.
Nel suo libro scrive: “Quello che so per certo è che tutto si ripete: la storia si ripete, le nazioni-mattatoio si ripetono”. Questa è la sua idea di Storia? Cosa può fare un poeta al cospetto della Storia?
“No, quella non è la mia idea di Storia; sfortunatamente è la nostra Storia. Io non sono uno storico. I miei libri possono dare un piccolo conforto, ma non salvano nessuno. Il poeta, l’artista, può sputare in faccia alla Storia, può creare un mondo parallelo, una ‘storia’ parallela senza guerre, distruzioni di massa, uccisioni di gente innocente etc. L’umanesimo è molto importante per me, non m’interessa la letteratura come intrattenimento, non compro la merda americana”.
Che idea ha del mondo comunista? E del capitalismo? Nel suo libro esprime critiche verso entrambe le ideologie.
“La Jugolsavia di Tito è stata l’età d’oro delle nazioni slave del sud. Non abbiamo mai avuto uno stato così grande: questi piccoli paesi creati dopo la distruzione della Jugoslavia non sono reali, non sono neanche una ‘repubblica delle banane’. Bosnia, Croazia, Serbia, Montenegro… io non credo in questi stati. Metaforicamente parlando, questa mi pare una soluzione provvisoria creata per poche persone che vogliono fare un mucchio di miliardi in una sola notte. Rispetto le idee del comunismo: il comunismo jugoslavo, intendo, odio e disprezzo lo stalinismo, il nostro comunismo non ha nulla del comunismo russo. Il capitalismo, come ha detto Marx, è l’oppio per le masse”.
E ora? Cosa sta scrivendo?
“A un romanzo che si intitola Cinnamon Letters, parla dell’amore in un tempo post-apocalittico”.
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Per gentile concessione pubblichiamo un brandello da Il mio fiume (Mimesis, 2017)
I giornalisti saccenti, gli esperti che sanno tutto, dicono: è questione di forza maggiore, degli indubbi squilibri tettonici della Storia, dei buchi bianchi presenti nella nebbiolina di Asterion, il dio dei fiumi, del traballante sottospazio presente nella nostra materia grigia, del collasso dell’ultima utopia del Ventesimo secolo, eccetera. Il muro di Berlino ci era crollato addosso, perciò era il caso che del sangue venisse versato da qualche parte. Solo che io non ero una monetina nel regolamento dei conti delle forze cosmiche. In quanto uomo reale, una personalità formata, avevo un compito privato: la sopravvivenza fisica. Perché dovrei credere a chi non ha mai sentito sulla pelle il puzzo della polvere da sparo che nessun detergente può eliminare, se è lui stesso a non credermi? Se dovevo fare qualcosa, l’ho fatto: ho preso il mio destino in mano e non ho aspettato che qualcuno mi bussasse alla porta e mi portasse, stordito dal sonno, davanti a una fossa umida per essere fucilato. La passività si è sempre pagata con la vita e io avevo voglia di vivere. A quel tempo non mi ricordavo dell’anziana padrona di casa di Sveta Klara nella periferia di Zagabria, Katica Cvetko, un donnone originario di Zagorje che nel 1990 aveva detto a me e al mio coinquilino: «In Bosnia i serbi vi sgozzeranno tutti». Cosa potevamo capire allora noi lavoratori dalle mani delicate, innamorati del cinema e della letteratura?
Post scriptum: gli analisti difficilmente comprendono la lotta per la sopravvivenza, perché amano occuparsi di metafore illeggibili e interpretare il destino attraverso i processi globali, eventi di cruciale importanza ma fasulli che mai potranno spiegare la sostanza delle cose: i massacri, la crudeltà, lo stridore dei cingoli del T-55 che anche se lontano due chilometri in linea d’aria vi raggela il sangue. Non ho intenzione di snocciolarvi le affascinanti immagini dell’orrore di cui sono stato testimone: richiederebbero un libro grosso almeno il doppio di questo e il risultato sarebbe lo stesso: chi non capisce che se ne stia nel beato buio dell’ignoranza. La mia biografia è una sequenza di casualità: molte le ho scelte io, mentre altre hanno scelto me. Alla fine, se potessi spiegare tutto a me stesso, scaverei una fossa e mi ci sdraierei vivo, perché la vita non ha senso. La mia biografia è sangue e carne, non entertainment. Io sono da qualche parte nel mezzo. Io sono uno, ma siamo migliaia. Indistruttibili e spezzati.
Faruk Sehić