08 Novembre 2018

Facebook censura “Pangea” perché ci piace fare l’amore, non siamo antisemiti e ci fanno schifo i Gulag. Lettera di scuse ai lettori: stamperemo il giornale in casa, ne faremo un aeroplano di carta e ve lo spediamo dalla finestra…

Lo so, sono un inguaribile ingenuo. L’amico Matteo Fais, per altro, me lo dice sempre, in forma sonora, ‘Davide, datti una frenata sui social, stai attento… non scrivere le parolacce e non mettere foto osè, altrimenti facebook ti oscura’. Ho una sfilza di ‘vocali’ in cui Matteo mi avverte, mi mette in guardia riguardo al pericolo sovrano. Ma io guido a fari spenti nella notte, sono sempre pericolante, ho attraccato un deltaplano alla bicicletta e sfido i barbari con un barattolo di bolle di sapone.

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La storia, però, mi pare istruttiva. Chi legge Pangea sa che sono un tombarolo che trafuga verbi salutari dall’oblio, sa che alla peggio ingaggio lotte australi contro l’arcangelo per bucare gli occhi a Dio. Bene. Martedì scorso impagino l’articolo di Antonio Coda. Molto buono. Nell’articolo, Coda parla dei Racconti di Kolyma di Varlam Salamov e di Badenheim 1939 di Aharon Appelfeld. Insomma, non incita al nazismo, non compone un rosario implorando il ritorno del Duce. Nel suo articolo, Coda inizia parlando, in modo molto persuasivo, di una fotografia di Sam Taylor-Wood, tratta da ‘Passion Cycle’, del 2003. Così, per affinità – visto che l’articolo parla di vittime e di carnefici, di amore e morte – decido di pubblicare una immagine da quel ciclo fotografico.

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Leggo la didascalia che orienta la comprensione di ‘Passion Cycle’: “la serie è ispirata dalle xilografie dei maestri giapponesi del XIX secolo, che non hanno rappresentato soltanto attori kabuki, geishe, lottatori di sumo e scene di vita quotidiana, ma anche la sessualità, in modo franco e senza schermi. La serie consiste di 25 scatti che raffigurano una coppia che fa l’amore in diverse posizioni”. La fotografia che ho deciso di pubblicare, non ha nulla di ‘osceno’: non mette in mostra gli organi genitali di lui e di lei. Non si vede nemmeno uno sbrego di tetta. Per intenderci, è molto più osceno il décolleté di Barbara D’Urso o l’avvinghiato vestitino di Ilary Blasi. Nella fotografia lui e lei, su un letto, sono nudi, nascosti in un abbraccio, i loro volti sono incistati uno dentro l’altro. I due corpi, preda dell’amare, sono diventati un corpo unico, una mostruosità, due candele che la fiamma ha fuso in un unico costato di cera.

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Dopo qualche ora, il magister di Facebook, o qualche devoto burocrate – chi sei?, dimmi il tuo nome e ribellati, amico mio, la vita è sole, amore, spericolatezza, spregiudicato desiderio, rivolta ribalda – mi avvisa che ho “pubblicato un contenuto che non rispetta le normative di Facebook” etc. etc. Un po’ mi fa ridere questa maliziosa – anzi, pericolosa – idea di ‘norma’ e di ‘contenuto’, questa idea che sei libero purché non ti esponi, metti una maschera. Poi, quietamente, mi incazzo.

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Conclusione numero 1. La fotografia che ho pubblicato è ‘artistica’, è stata pubblicata in un libro e messa in mostra, in Austria. Non è pornografica, lo capisce anche un bimbo. E ad ogni modo, anche un bimbo può entrare dentro YouPorn o in un sito che ostenta cadaveri dissezionati senza che alcuno glielo impedisca. Sul fatto che, poi, siano più pornografici certi atteggiamenti di certi parlamentari o certe trasmissioni tivù, stendiamo una foglia di fico. L’ipocrisia è papale, i vostri sorrisi sono coltelli, direbbe il Bardo.

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Conclusione numero 2. I ‘contenuti’. Coda ha scritto un articolo su Salamov, che ha scritto il libro più importante e esteticamente convincente sul sistema concentrazionario sovietico, e su Appelfeld, scrittore israeliano, sopravvissuto all’Olocausto, di chiara fama. Insomma, dovessi adottare il metro di giudizio propagato da Facebook direi che Facebook è antisemita, stalinista, con l’ambizione di risolvere i problemi del mondo attraverso la pratica dei campi di concentramento nazisti o dei Gulag.

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Conclusione numero 3. Perché censurare l’amore? Poi si lamentano che i ragazzi non fanno l’amore, che non si fanno più figli. Ora capisco, però, perché su FB spopolano i gattini e le fotografie delle feste di compleanno. Solo ciò che è innocuo è lecito; ma l’innocuo non è innocente, l’innocuo è aggressivo, è violento.

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Manco fosse un covo di kapò, con il Signor Facebook non si può parlare – devi obbedire. Per questo, ho dovuto prendere un giorno sabbatico: per un quotidiano on line la censura dei social è letale, da lì proviene la metà dei nostri lettori. Tuttavia, ho scelto io di fermarmi. Per dare un segno: Facebook blocca la cultura. Facebook non vuole che leggiamo Salamov o Appelfeld. Facebook non vuole che facciamo l’amore. Ogni riferimento orwelliano a 1984 è talmente palese che evito di sottolinearlo ulteriormente.

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Siamo nel regime del politicamente corretto. Ora l’ho capito, pensavo fosse una fola di Fais. Non c’è nota politica né polemica in questo – non appartengo ad altro che alla liana del mio respiro. Il politicamente corretto – che significa: incapacità di esprimersi, dialogare solo con chi la pensa come te, gratificazione delle proprie convinzioni idiote, stare fermi sul pulpito del proprio ego senza alcuna evoluzione, rivoluzione, rivelazione – irrora rabbia. Più ti frenano, più sei sfrenato. Gli uomini, li vedo, galvanizzati dalla frustrazione – non puoi essere ciò che sei, chi sei importa a nessuno – si stanno trasformando in iene, mordono a vanvera, si accaniscono sul moribondo.

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Siamo nell’era delle scelte astruse, australi, che scemano, sceme,l’impeto del denaro. Ci costruiremo le spade nel legno, evocando lotte marziane contro i missili, ambiremo alla candela più che far nozze con l’elettricità, il dialogo a lingua scatenata rispetto alla ‘banda larga’.

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Cosa fare? Così. Stampare Pangea con la stampante di casa, sotto il ritratto di Brodskij e quello di Céline. Costruire, con quel foglio, un aeroplano di carta. Gettarvelo dentro la finestra di casa. Questo è un tempo che pretende scelte insolite, controcorrente. (Davide Brullo)

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