05 Dicembre 2017

Faccia da fata turchina e ferocia da sirena: dialogo con Isabella Leardini

Intanto: scandagliare i luoghi comuni, i dati di fatto, e sconvolgerli. Isabella Leardini (in copertina nella fotografia di Valentina Solfrini) ha la faccia da fata turchina, abita a Riccione e tutti la conoscono perché nel 2003 – dopo l’edizione ‘zero’ del 2002 – si è inventata Parco Poesia, il festival in cui ogni anno, sulla Riviera romagnola, convergono falangi di poeti ‘laureati’ e splendidamente ignoti, vecchi di gloria e poppanti, una specie di rave della mirabilia lirica. Isabella accoglie tutti con un sorriso, è gentile, garbata, ogni tanto vamp ogni tanto svampita. In realtà, Isabella Leardini è una sirena. La sirena, secondo Omero, ammalia con il canto e azzanna. Isabella, al di là dei luoghi comuni del quotidiano e quieto vivere, è così. Letale. Figura notturna – eppure ha la pelle chiara dell’alba, del frinire dei giorni – emblema della contraddizione, Isabella è una stella della poesia contemporanea con poco più di cento poesie, seminate dal 2002 (quando vince il Premio Montale per l’inedito) in qua, tradotte in varie lingue nel resto del pianeta, raccolte in due ‘romanzi in versi’, La coinquilina scalza (La Vita Felice, 2004) e ora in Una stagione d’aria (Donzelli, 2017). Poetessa che appare ‘scanzonata’, ha invece scelto, da subito, la “Condizione Scalza” di cui scrive Emily Dickinson, cioè l’incondizionata adesione alla poesia, il bunker della Musa-sirena. Da sempre, la voce della Leardini – di allucinata nitidezza – osa la cosa più difficile: risillabare il lessico d’amore, rimodulare il canto. Un canto che per me – follia dello sguardo mio – pare sempre pieno di zanne. Esempio. La sezione più bella dell’ultima raccolta di Isabella – esito di una intuizione che ha saputo attendere e fermentare – si chiama L’anello. Lì ci sono versi che, slacciati dal ritmo melodico ‘narrativo’, hanno la potenza di un abbaglio, il fragore della sirena che dilania il petto. Esempio: “Noi non siamo come tutte quelle/ cose che nascono già doppie”; “La perfezione non è mai perdonata/ nella contraddizione di impazzire”; “L’ho studiato come una scienza/ il codice dell’ora in cui sei nato”. Sono versi in tutto sapienziali, che potrebbero essere stati scritti sull’isola di Lesbo, sulle ginocchia di Saffo, o sul divano su cui si accasciava, sfatta di vita, Anna Achmatova, o incisi sulla scrivania di famiglia, da regalare per la maggiore età dei nipoti, fra qualche decennio. Molti versi, poi, hanno la precisione dell’icona (“Tu sai restare immobile/ preistorico come l’airone”: che ingresso straordinario), di qualcosa di sacro che il lettore solletica per dissanguarne le ambiguità. Amore presente, conturbante, inafferrabile anche quando si fa slitta con il torso dell’amato: è bello morire nel morso di cristallo della sirena.

Intanto: 13 anni. Tanto è il tempo tra “La coinquilina scalza” e “Una stagione d’aria”. Di stagioni ne sono passate tante. Cosa è cambiato? Quale qualità nell’ispirazione?

“Anche La coinquilina scalza era un libro fondato sul tempo, scritto dall’interno della giovinezza, ma una giovinezza che camminava guardandosi indietro, fissando l’adolescenza per decifrarla. Eppure aveva preso forma con la regolarità della voce che si accorda, in una precisione stagionale: quattro sezioni di 12 poesie scritte dal 1999 al 2003, un breve silenzio le divideva, come un passaggio. Poi non ho scritto per due anni, non volevo continuare a scrivere un libro che avevo già scritto; il titolo stesso alludeva alla poesia come a qualcuno che può anche voltarsi altrove, anche andarsene e farsi la sua vita con altri. Scrivo fin da bambina e la poesia molte volte ha deciso di stare in silenzio anche a lungo, il nostro rapporto è sempre stato così, provare a scrivere quando lei non c’è lo sentirei innaturale e ridicolo, perciò semplicemente non ho scritto. È successo più volte negli 11 anni in cui ha preso forma Una stagione d’aria: le prime poesie sono del 2006 e tutto il libro è costellato di questi silenzi. Il silenzio della scrittura non è solo un intervallo, può essere un istinto di autoconservazione ma quando sta per finire diventa una specie di apnea, un confine in cui la poesia deve essere chiamata, riavvicinata un po’ come una belva. In queste fasi non sai mai qual è il confine tra il rigore e la pigrizia, mi sento in colpa per le poesie che non ho scritto ma so che fa parte della mia natura. Una stagione d’aria è un libro costruito tra i vuoti, quasi tutti i testi sono stati scritti a due a due, le sezioni centrali hanno questo contrappunto febbrile, i testi arrivavano a piccoli gruppi ravvicinati, in mezzo ad anni interi di silenzio. L’ultima sezione contiene dodici poesie scritte in 6 anni. Spesso ho pensato che scrivere poesia sia un po’ come quando da bambini cercavamo l’acqua scavando una buca profonda vicino alla riva. Agli studenti che frequentano i miei laboratori dico sempre che le immagini sono come un sasso, lo si può rigirare in tasca anche per anni e va guardato solo al momento giusto: l’immagine del toccare l’anello l’ho avuta fissa in mente per quattro anni, non avevo idea che avrei raccontato la storia del diamante di mia madre, poi una notte quella poesia è fiorita perfetta. Credo che ognuno abbia la sua belva e la sua regola, capace anche di cambiare negli anni, perché ogni opera detta la sua”.

Il tuo esordio poetico ha coinciso, pressappoco, con la nascita di Parco Poesia, il primo festival della ‘poesia giovane’ in Italia. Dalla tua peculiare prospettiva, che clima si respira nella poesia italiana, oggi?

“Credo che il livello medio della scrittura dei giovani si sia alzato, ma che più che mai sia importante il banco di prova del primo libro per riconoscere quelli che continueranno. È diventato più facile pubblicare una raccolta, ci sono tante piccole e serie collane e lo stesso Parco Poesia con il premio incentiva occasioni di pubblicazione anche per raccolte brevi, eppure questo sistema di possibilità è anche un’arma a doppio taglio: tra i tanti che hanno talento e hanno trovato più facilmente di noi occasioni di ascolto e di crescita, diventerà determinante vedere chi riesce a costruire un esordio vero e proprio, in grado di segnare una durata e di influenzare anche i giovani che verranno immediatamente dopo. Cedere alla tentazione di pubblicare qualcosa ogni due anni, rischia di calare l’opera in un presente continuo e frammentato, rimandando eternamente la struttura che la terrebbe insieme. Riguardo al clima della poesia più in generale, ho paura soprattutto di due cose: la prima è che nella trama del mondo della poesia contemporanea, in cui tutti si conoscono e seguono le trame di tutti, rinunciamo a leggere i libri tanto abbiamo già letto tutti i post. La seconda invece riguarda il piccolo scaffale di poesia nelle librerie… lì sopra qualcosa è cambiato, e se i poeti ogni tanto andassero a guardarlo si accorgerebbero di alcune evidenze che sembra non li riguardino”.

In questa raccolta specifica: quali i maestri, i riferimenti culturali o extraculturali. Vedo che ogni sezione è introdotta da un verso a mo’ di pietra miliare. C’è Dante, l’onnipresenza, e tante poetesse. Spiegati, squadernati.

“È un libro pieno di voci e di figure femminili, oltre a quelle che ho citato avrebbero potuto esserci Dickinson, Plath, Bishop, e altre. Ho voluto citare negli esergo Elizabeth Barrett Browning, la sua vicenda potrebbe essere tra le figure simbolo di questo libro: donne in cui la natura contemplativa tocca la vita, come Rachele o la Sirenetta di Andersen. Elizabeth Barrett come Anna Achmatova – che è stata la poetessa più determinante nella formazione della mia poesia – è una rivoluzionaria e scrive un canzoniere d’amore che ha anche un valore civile. E poi Edna St. Vincent Millay che forse è l’autrice che più ha influenzato alcuni toni di Una stagione d’aria, perché ha una cantabilità venata di durezza; Cristina Campo, che ha scritto pochissime poesie, eppure restano memorabili, e Marianne Moore che per me è un prisma. libro isaOgni esergo non è solo un omaggio a un maestro, è una chiave simbolica che aggiunge qualcosa alla storia che sto raccontando, il pezzo di un mosaico che il lettore dovrebbe ricomporre cercando l’originale, come in una caccia. Non completano soltanto il canzoniere d’amore della trama principale, racchiudono anche un’intenzione di poetica precisa o un discorso implicito sulla poesia, che non serve al lettore che legge il libro su un piano lineare, ma dovrebbe essere colto dai poeti. I versi di Marianne Moore in esergo all’ultima sezione, che fuori contesto sembrano solo una sentenza o un richiamo ad amor ch’a nullo amato amar perdona, in realtà provengono da una poesia che si intitola Voracità e verità a volte sono interdipendenti e che ha più di un piano di lettura. I versi della Millay sull’allodola vengono da un testo che si intitola A un giovane poeta e l’allodola ha un valore simbolico preciso in poesia. Non è che nel 2017 io decida senza consapevolezza di tracciare questo sistema di simboli e riferimenti, di aprire il libro con l’immagine di uno stormo di storni nel cielo dell’inverno. Sono quelli che nel V canto passano nell’aria dell’inferno, tra loro c’è anche Francesca, in un libro che parla anche di Rimini, di amori che nascono nel perimetro sospeso della vacanza, che ha il mancare fin nell’etimologia ma che come l’aria è tutt’altro che una stagione vuota. Nel buio del mare ci sono le mille Proserpine e Sirenette di oggi, che riattivano il mito nella propria carne. E poi c’è Irene, la Stagione che incrocia la Storia e le opere degli uomini”.

Entriamo nella raccolta. Ci sono, tra le parole chiave, tanti pugni, fuochi, volti, vuoti, pietre, vento, uccelli. Una rassegna di cose che passano e il tentativo di non farle passare mai; l’alternanza (quasi una danza) tra elementi fermi e volatili. Come mai?

“Credo che sia una delle questioni centrali dell’uomo, il fatto che la natura sia fatta per non restare e che l’uomo però abbia dentro l’innato desiderio di restare per sempre. L’arte ha dentro questo puntiglio per esempio. Il libro racconta un passaggio, la fine della giovinezza – che potrebbe essere l’età dei fuochi – che non può ancora entrare in un’età nuova: quella della terra in cui le cose resistenti fioriscono. Prima di compiersi e diventare terrestre deve attraversare un’attesa necessaria, il fondale in cui si aspetta anche di nascere e una stagione d’aria, quella in cui si addestrano le ali e si scopre che i vuoti sono pieni di cose alate”.

Cito alcuni versi. ‘Mi muovo attorno a te come la polvere/ e non mi hai mai sentita camminare’, ‘Desiderare è una questione di distanze’. Viene da pensare che l’amore esiste finché è inconsumato, che l’amore è là dove vibra una assenza, l’amore non è bacio, ma vuoto: è così, cosa intendi cantando l’amore (che è poi il tuo canto totem)?

“Non è vuoto e non è inconsumato, ma è sempre e comunque imperfetto perché umano. L’amore tutto pieno e tutto presente per l’uomo è impossibile, è quello in cui Dante guarda Beatrice per l’ultima volta dentro un coro di beati. Senza contrasto non c’è proporzione, come tra suono e silenzio, il desiderio nasce in una dialettica con la mancanza, lo dice l’etimologia stessa, quel verso allude al latino de sidera: la distanza dalle stelle. Sono corpi freddi che brillano in differita, come capita spesso negli amori che in quella vibrazione di distanza hanno il diapason che ne fa risuonare la nota. Non sto parlando di una distanza fisica o della lontananza provenzale, e neanche del fatto che la passione abbia in sé la radice del soffrire, anche se anche questo etimologicamente è vero, ma di una cosa molto più semplice. Non solo l’amore più imperfetto e ostacolato vibra di un’assenza, anche l’amore che si compie ha dentro la violenza della gioia, che non è beatitudine. Quando ami sai che l’altro non è tuo, non hai garanzia né del fatto che l’amore dell’altro sia pari al tuo per intensità e resistenza, né del fatto che non ti sarà tolto. Baciare è tentare una fusione impossibile e ogni amore ha una parte di solitudine che non combacia, che però è anche lo spazio in cui risuona”.

Ci sono versi che hanno un sottile sapore sapienziale. Ne cito due. ‘L’amore è lo scempio più veloce’; ‘Nessuno guarda a lungo chi ha pianto’. Ce li spieghi? Come s’intersecano in una struttura formale assai dominata, intima, lirica? 

“Non so spiegarli, vengono puramente dall’esperienza. Se la poesia fosse un sasso che cade sarebbero il punto in cui tocca terra”.

Mi pare una fiammata questo verso, ‘Devo sapere che nessuno muore’. Cosa intendi? Che potere ha la poesia di fronte alla corruzione delle cose?

“Esattamente quello che intendevo riguardo all’amore. Non possiamo sapere che ciò che amiamo non muore, e così possiamo solo controllare, vegliarlo, e se ci riusciamo farlo durare nell’opera, come un’eredità”.

 

 

Per gentile concessione pubblichiamo alcune poesia dall’ultima raccolta poetica di Isabella Leardini, “Una stagione d’aria” (Donzelli, 2017)

 

Noi non siamo come tutte quelle cose

che nascono già doppie, a coppie, a paia

come le scarpe che non sono senza l’altra.

Noi due assomigliamo a tutto quello

che il tempo fa giocare col destino.

Quando l’ultima tazzina ancora sana

e il piattino comprato chissà dove

arrivano uno sull’altro

nell’inseparabile, perfetta

abitudine che li mette insieme,

tutti i cocci, le rotture mancate,

i traslochi, le mani dei bambini

alla fine non esistono più.

Stanno nel cuore di ogni giorno;

bellezza inimitabile e bizzarra

di tutte le famiglie imprevedibili

che non assomigliano a nessuna cosa

pensata semplicemente insieme.

Come si svela un giorno dopo l’altro

il senso di ogni cosa perduta

nel colpo da maestro che decide

la perfezione inaspettata che rimane.

*

Tu sai restare immobile

preistorico come l’airone.

Attraversiamo l’adunata degli uccelli

le picchiate dei gabbiani, quel lasciarsi

cadere delle rondini

la corsa perfetta degli storni.

Nel momento del giorno che cede

ogni specie sa mettere in scena

la festa della vita che si posa.

Solo noi contro natura abbiamo il ritmo

ferito di ogni inizio e di ogni fine

come tutti i predatori che non sanno

addormentarsi quando sono soli

o come gli animali prigionieri

che prima o poi non sanno più svegliarsi.

*

Desiderare è una questione di distanze,

di corpi freddi che riescono a brillare.

Cercavo la costellazione esatta

che riunisse i tuoi punti con i miei

la congiunzione fatale negli anni

lo squilibrio infallibile del cielo.

Il vero amore regge il capogiro

con la testa piantata nell’aria

di una logica che splende se si avvera.

Sovrappone come una mappa

il tuo buio di pianeti con il mio

la precisione muta delle stelle.

L’ho studiato come una scienza

il codice dell’ora in cui sei nato,

amare è un atto di interpretazione

che riempie il giorno dopo l’evidenza.

 

Gruppo MAGOG