02 Giugno 2019

Meglio l’Italia di Leopardi e di Manzoni che quella dello Stato livellatore. Su Fabio Cusin e la sua misconosciuta “Antistoria d'Italia”

Fabio Cusin. Chi era costui? Un carneade. Tale per molti ma non per due categorie: 1) gli storiografi più critici nei confronti dell’entità chiamata “Italia”; 2) i triestini che vogliono la l’autonomia dall’entità chiamata “Italia”; perché la città è ancora oggi sotto amministrazione provvisoria dei governi italiani su mandato internazionale (U.S.A., O.N.U., ecc.) e attende la piena esecuzione dei diritti di Territorio Libero e Porto Franco.

Lo storico triestino, di lontane origini ebraiche, una laurea in economia e commercio ma del tutto refrattario alla materia dei suoi primi studi, è infatti l’autore di uno dei libri più interessanti mai dedicati alla città giuliana di cui ha descritto l’identità e, sulla scorta di una presa di distanza dalla giovanile fiducia nel nazionalismo, marcata da Appunti alla storia di Trieste e da L’Italiano: realtà e illusioni, affermato la totale autonomia.

Una presa di posizione che, sebbene non troppo diversa da quelle del ben più “arcitaliano” Giuseppe Prezzolini in lotta contro la piaga del centralismo statale romano e fortemente critica rispetto a un chiaro deficit democratico a livello amministrativo, e antitetica alla vulgata etnicista e irredentista gli provocò inevitabilmente non pochi problemi a livello accademico e si fece azione politica diretta quando, tra il 1952 e il 1955, anno della morte, fu consigliere comunale nei ranghi del Blocco Triestino, il gruppo attivo, tra il 1945 e il 1956, proprio per l’effettiva messa in atto dei diritti della città libera.

Una cattedra di Storia la otterrà presso l’Università di Urbino nel 1950, Cusin l’“antitaliano”, il suo saggio più importante, Antistoria d’Italia, l’aveva già scritto sotto il fascismo, edito nel primo dopoguerra da Einaudi, ripreso da Mondadori, ripubblicato nel 2001 dopo la denuncia, a firma di Geminello Alvi, del fatto che fosse “da tutti dimenticato, eppure formidabile soprattutto nei capitoli primi, per spregiudicatezza, mai doma”.

Ma con l’emarginazione e morte di Gianfranco Miglio, con la progressiva italianizzazione del leghismo, con l’oblio delle geniali tesi federaliste di Carlo Cattaneo, e infine con la gattopardesca ondata sovranista che sta mettendo a tacere le spinte autonomiste delle regioni-traino del paese, la questione è stata rimossa e nel mentre le poche voci letterarie alternative alla vulgata neopatriottica sono mute – per avvenuta morte, come nel caso di Ceronetti; per sicura anzianità, come nel caso di Arbasino; forse per disincanto, nel caso dello stesso Alvi, che ha introdotto l’ultima edizione del libro di Cusin.

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È proprio dalle colline leopardiane care a l’autore de La confederazione italiana che il triestino scrisse in esilio il suo saggio. Perché chiaramente l’Italia, la sua stessa essenza, vive di un commedico gioco delle parti in cui il saggio di Cusin non rientra. È infatti misconosciuto tanto dai “fascisti” (o presunti tali) quanto dagli “antifascisti” (o presunti tali) che di tale gioco vivono. Per esempio, in un libro appena riedito, l’Antistoria degli italiani di Guerri, l’Antistoria d’Italia di Cusin è citato una sola volta. Perché mette in discussione non soltanto il fascismo ma l’identità positiva dell’entità detta “Italia”.

Un libro nato già vecchio, secondo l’autore che lo vide d’altronde pubblicato solo due anni e mezzo dopo la fine della guerra, ma concepito molti anni prima. Un libro di certo vecchio, ma soltanto dal punto di vista del linguaggio un po’ desueto, eminentemente saggistico, e per la volontà di concentrarsi sul fascismo. Ma anche un libro col grande pregio di sondare i mali italici, questi invece mai contingenti né legati a un singolo sistema di potere, ma endemici e costanti.

Il problema è duplice, storico e culturale, complesso e molti potrà infastidire. Chi ne è turbato lo è perché di suo parte del problema descritto. Chi non ne è turbato non lo è in quanto ne è felicemente esente. O meglio infelicemente perché turbato dall’entità detta “Italia”. Agli uni l’italica grevità, i vati Carducci, Marinetti, D’Annunzio… Agli altri in vece l’europea grazia, i Casanova, Mozart, Cergoly… A ciascuno il suo. Ai triestini il loro. L’opzione non annullerà i fatti.

Ed eccoli i fatti secondo Cusin. Dei carneadi.

A cominciare dalla grande tradizione latina…

“I più forti, più robusti e più valorosi furono massacrati o non sopportarono la schiavitù, sopravvissero i più vili, i più adattabili, i più abili ed astuti o meno pericolosi per scarsa forza fisica. […] L’Italia, così disabitata, venne ripopolata con schiavi […] Furono i più abili e pieghevoli, emotivi e intelligenti a rimpiazzare un po’ alla volta, non solo la società romana, dove molti da schiavi passavano a liberti e divenivano spesso ricchi e potenti perché più degli altri privi di scrupoli e di inibizioni morali, ma anche i lavoratori dei campi […]”.

Ed ecco il nord, dove vi fu il legame col popolo dei Galli-Celti giunto proprio fino alle Marche, e si realizzò il primo vero e proprio regno “italiano” – fondato dai Longobardi, conquistato dai Franchi, con sovrani germanici, e rapidamente svanito – rimosso dalla storiografia ufficiale che ha cercato e trovato l’identità “italiana” nei comuni del Mille e nelle signorie del Duecento, la cui figura esemplare è “il tedesco Federico II, italiano di costumi” e questi per Cusin i caratteri più evidenti: immaturità e immoralità, conformismo esteriore e individualismo radicale, egocentrismo illimitato e impotenza intellettuale.

“Di fronte a questa esperienza si avventa un’anima esasperata di sete di vendetta individuale e il libello di condanna si trasforma in un poema che ha per suo fondo l’ansia di un rinnovamento”. È la Divina Commedia di Dante Alighieri. “Pare che in lui si riassuma il problema etnico-politico della vita italiana. In una nazione che si piegherà ad ogni convenienza egli è il grande eterno ribelle che, dopo avere invano lottato […]” trova una via di fuga nel divino alla ricerca di una qualche forma di giustizia che nella sua patria non trova; ma a giudicare dalle beghe di cui testimonia – al di là delle figure prese da tutta la penisola – è evidentemente risentito da quelle cittadine – è, stante l’avviso dello storico, a sua volta un egocentrico, individualista, orgoglioso, contraddistinto dalla brama di gloria, un “fazioso e tiranno in potenza” il quale tenta però di trascendere il suo ego e le contingenze, per conce pire un rinnovamento che attinge dal Cristianesimo medievale filtrandone il meglio sulla scorta di Gioacchino da Fiore e contro un Papato a sua volta “ambizioso, avido e violento”. L’esito è infimo. Si prenda Roma. C’è Cola di Rienzo difensore del “popolo” restauratore del comune romano contro la nobiltà prepotente – ma è solo ideologia e non forza materiale – sicché l’attuazione è “megalomane follia”. Invece a Milano:

“Un secolo e mezzo dopo la caduta di Cola, la signoria più efficiente d’Italia, per estensione, potenza militare e finanziaria, ordinamento amministrativo e per la ricchezza di una tradizione di sodo realismo politico, dopo essersi spersa, per opera di un figlio del condottiero romagnolo Francesco Sforza, in complicate vanìe politiche, tra esibizionismi di forma e ostentazioni di potenza, si sfasciava definitivamente in pochi giorni come un castello di carte, trascinando nella sua rovina la possibilità di un’Italia indipendente da signorie straniere.”

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E ancora:

“[L]’Italia, attraverso la trasformazione della tecnica giuridica medievale, era giunta alla concezione ‘politica’ del mondo. Le possibilità di giustificazione sulla base di un principio universale sono infinite e dottrinariamente accettabili […]. Scoperto il segreto di questa macchina che giustifica tutto, la pratica è diventata regola di vita e ci vorrà la ingenuità di un sentimentale escluso dalle soddisfazioni di ordine pratico quale il Machiavelli per formularla teoricamente. Quello che sarebbe stato il segreto della corte del principe viene in tal modo portato in piazza o almeno entro la cerchia dei sapienti sino a diventare motivo di scuola caro alla polemica sorta ad un certo momento tra oligarchia e principato […]. L’invadente politica conduce anche la Chiesa di Roma a mitigare il suo strenuo autoritarismo per cui nei suoi rapporti temporali essa assume l’abito squisitamente politico degli Italiani. Nelle terre di Chiesa è difficile, in età di signorie e di delega di poteri sovrani, esercitare un potere centralista. A metà del secolo XIV la Chiesa aveva accettato di delegare anch’essa i poteri ai vari signorotti locali; […] di fatto, negli Stati papalini prevarrà la finzione di un’autorità […]”.

Ecco una fase più regionale retta da principati stranieri. Roma stessa delega il potere temporale a dei signorotti. In alcune regioni è “connubio tra malavita e sacrestia”. La mentalità patrizia è familismo, privilegi d’oligarchi, che i quali vivono quasi nascosti sotto “l’ombra protettiva della signoria” in un sistema di puro “arbitrio” che nega ogni dignità umana sia imponendo la violenza che nel subirla, e che nel XIX secolo si comunicherà diretta mente “all’arrivismo spicciolo proprio della rivoluzione giacobina e dello Stato unitario e costituzionale” esito dei moti romantici e dei cosiddetti lumi del XVIII di cui il ribelle Alfieri non riuscirà a fare altro che “sublimizzare l’inguaribile senso di inferiorità di cui era malato e contro cui lottò tutta la sua vita” – senso d’inferiorità nei confronti della nazione francese – rinnovando l’antico individualismo in “esibizionismo” – che si trasmetterà infine nel dannunziane simo a venire – in una società mutata dai rivoluzionari della borghesia (“estremisti solo perché irretiti nel mito del popolo sovrano e in questo senso dogmatici e teocratici”) – in buona sostanza soltanto a caccia di un po’ di potere (“per trafficare e far quattrini intorno allo Stato, sfruttando rivoluzioni, guerre e ideologie politiche”) – cioè  l’Italia.

Una borghesia che di Napoleone fa propri l’ambizione, il gravame burocratico e la disposizione laicista. Mentre ai francesi vuole opporsi in ambito letterario, visto sulla scorta di Alfieri quale terreno di lotta. L’arte letteraria come strumento per la costruzione di un mito politico cui viene piegata a scopi statali.

Cusin va contro.

Contro l’Alfieri e l’artificioso centralismo giacobino, il pessimista non credente, l’umanista antigiacobino, il rivoluzionario cattolico: l’anarchismo di Leopardi (“Forse mai come quel giorno ci fu in Italia una visione profondamente realistica e profondamente onesta”); il federalismo di Cattaneo (“L’intelligenza pratica e positiva […] che in altri paesi sarebbe stata valorizzata quale patrimonio prezioso”); la devozione di Manzoni (“Manzoni vede troppo bene il lato debole di una società […] che ritrae da ogni lato, facendo risaltare insufficienza di spirito e povertà di decisione, viltà e imprevidenza, mentre l’iniquità può facilmente trionfare […] e celarsi nella banalità del discorso quotidiano incapace di scoprire il bene che rimane solitario nel cuore di chi soffre e spera”).

Contro lo “Stato livellatore” – una monarchia astratta e assolutista come il regime francese – ma che si adegua agli aspetti più negativi e ne fa demagogia – che Cusin descrive come militarista, reazionaria, ignorante della tradizione umanista delle altre regioni italiane, questi vede ergersi quasi “soltanto alcuni Lombardi, menti rette e positive, che ebbero più chiara la visione dell’entità del problema”. Ma l’hanno vinta il machiavellismo, il gesuitismo, l’inefficienza, l’incapacità mista a “maneggi di governo”, “demagogia di arrivisti, insipienza di militari”, ossia i caratteri di quella nuova “società arrivista e nel contempo retorica [la quale] si faceva rappresentare da ex garibaldini, demagoghi parolai senza alcuna cultura politica”, Roma Venezia Trento Trieste e “nessuna comprensione del complicato meccanismo politico internazionale e incapacità di confessarsi la troppo modesta funzione dell’Italia”, l’Italia che va da Mazzini a Crispi – tanto simile a quella del Duecento: “L’atteggiamento mentale delle oligarchie risente dello spirito fazioso che ha dato loro origine: esse intendono tutelare se stesse, i loro privilegi ed il loro prestigio; la città e la patria sono considerate tutt’uno con i loro interessi”, e l’arte militare è svuotata di ogni cavalleria.

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L’arte letteraria d’allora? Melodramma femmineo. Vagheggianti arcadismi. Tanti sentimenti indistinti privi di centro morale. E poi la vecchia ammirazione verso l’accademia.

Al potere “un governo senza tradizione” esito della rivoluzione di una minoranza esaltata e che stanti tali basi non poteva che sfociare in un regime dittatoriale. Uno dei prodromi il trasferimento in una città priva di qualsiasi fondamento civile ma dal grande nome. L’Italia si dibatte tra Crispi, prototipo di Mussolini, e Depretis, simbolo di clientelismo e trasformismo. Quanto a Giolitti, è il meglio possibile perché di spirito non risorgimentale, ma incapace di denunciare.

E nel mentre si fa pure largo la folle idea in fondo mai abbandonata per cui l’Italia si sarebbe meritata di meglio perché gli italiani erano migliori dei loro governanti, oltre che più onesti dei loro dirigenti, dei loro imprenditori, dei loro funzionari, ecc. Il che è per Cusin semplicemente un “giudizio illusorio”…

O meglio. Un “giudizio illusorio e vano al pari di quello che vuole imputare al fascismo le disgrazie dell’Italia”. E ancora. L’Italia letteraria può fregiarsi dei satanismi di Carducci, dei militarismi di Marinetti con i suoi bei “motivi eroici” e ancor prima di Pascoli col discorso La grande proletaria si è mossa…

Ma soprattutto “in quegli anni, la borghesia plutocratica salutò poeta laureato il tronfio Gabriele, che ben presto doveva diventare anche il primo servitore di essa nei suoi sotterfugi politici”, offrendo inviti a una guerra che avrebbe fuso i figli della patria sotto il calore delle bombe e consigli “per un ventennio al costume della classe politica e abbiente la cui cafonesca origine credeva nulla potersi concepire di più raffinato e sublime del [suo] croccante estetismo”, mettendo assieme quanto di stucchevole, o incivile, o di cattivo gusto.

“Arma la prora e salpa verso il mondo”, grida il vate degli eja eja alalà, ma l’Italia è sempre la stessa, tutta cricche e vendette personali, tutta briganti e fazioni paesane, e, come annota ancora Cusin: “L’autorità in Italia si chiama tradizione romana, romanesimo giuridico, organismi politici bizantini conservatisi in forme arabe e poi tramandati attraverso la prassi normanna e ghibellina”.

Una nazione che si è creduta razza ma che, come Cusin rileva facendone un tema fondamentale, non ha mai affrontato “il problema delle origini etniche del popolo italiano”…

Marco Settimini

Gruppo MAGOG